Una premessa: l’Occidente
Questo contributo vorrebbe porsi in continuità con un testo pubblicato sul numero 62 di Dialoghi Mediterranei (luglio-agosto 2023), dedicato alla presenza, alla realtà e al virtuale. Vorrei proseguire l’analisi tentata in quelle pagine partendo adesso non dalle intelligenze artificiali ma dall’Occidente e dal mysterium iniquitatis nel quale siamo immersi, dallo «scempio del male» che «non cessa di farsi avanti» [1] e che assume forme molteplici quali: l’insicurezza; la paura; il non sapere più abitare la terra, il non saper stare al mondo; l’«infragilirsi dell’identità europea sotto la pressione dei processi geopolitici globali in cui è coinvolta» [2], il più pervasivo e distruttivo dei quali è una globalizzazione mediante e dentro cui l’istanza liberista che trionfa sui diritti, sulla giustizia, sulle vite, si è fatta «egemonica nella finanziarizzazione dell’economia a partire dagli anni ’80 in un’ottica di pura massimizzazione del profitto come lex mercatoria, primato indiscusso ed introiettato nello spazio pubblico e dei decisori economici e politici dell’homo oeconomicus del “libero mercato”» [3].
L’Occidente contemporaneo è nato dagli interessi strategici di due imperi. Uno ormai vecchio ma sempre tracotante, quello britannico, l’altro è il suo più giovane e potente erede, quello statunitense. Due imperi dalla forma e dalla sostanza calviniste e capitaliste, caratterizzate sin dall’inizio da processi di accumulo finanziario che oggi trovano un loro provvisorio esito nelle «tendenze alla ‘piattaformizzazione’ e alla sorveglianza» [4], delle quali le intelligenze artificiali costituiscono l’indispensabile e assai efficace strumento.
L’identità dell’Europa rispetto a questo Occidente anglosassone è un patrimonio che va difeso non soltanto e non tanto per l’Europa ma per la sopravvivenza dell’intera ecumene umana. Per questo è necessario che l’Europa ci sia, che abbia un futuro e che guardi al passato in tutta la multiforme complessità della storia universale. Solo chi è consapevole della propria identità può infatti accogliere davvero la differenza.
La fusione tra neuroscienze e ingegneria informatica è l’orizzonte nel quale si inscrive oggi una parte sostanziale della questione antropologica. Espressione centrale di tale fusione è lo statuto stesso degli algoritmi – poiché sono questi che contano, è il software assai più del supporto macchinico – i quali vanno sempre più comportandosi come agenti non soltanto autonomi ma anche e soprattutto in veloce evoluzione, come se fossero dei veri e propri organismi multicellulari. Un efficace esempio è costituito dai software che ‘giocano’ in borsa e ai quali viene affidato il destino di ingenti patrimoni anche degli Stati. Tali algoritmi prendono decisioni in pochi secondi (anche meno) e in modo del tutto autonomo da interventi umani, determinando a volte delle gravi perturbazioni nei mercati finanziari.
L’’intelligenza’ di questi e altri software è in realtà ancora infima ma è certamente in costante progresso. Ai tradizionali robot tele-operati, e quindi del tutto dipendenti dalla presenza umana, si affiancano infatti dei robot assai più autonomi nelle scelte e nelle operazioni – compresi quelli installati in un numero sempre maggiore di automobili – e soprattutto i robot cognitivi, che agiscono sia a livello logico-formale, ambito nel quale sono ovviamente avanzatissimi, sia in quelli operativi.
E tuttavia anche la forma di intelligenza che chiamiamo pura razionalità è in realtà per sua natura l’intelligenza dell’ambiente, nel doppio senso del genitivo: la comprensione che l’ambiente opera di se stesso, la comprensione che un corpomente ha dell’ambiente nel quale è immerso. L’intelligenza consiste nel percepire il contesto con dei sensi/sensori, decidere quale sia il comportamento più adeguato alla situazione rilevata, eseguire movimenti e azioni rivolti a raggiungere gli scopi che dalle diverse e specifiche situazioni emergono. Anche per questo le funzioni cognitive umane sono in realtà sempre state ‘esternalizzate’. Più esattamente: la razionalità formale ha bisogno di organismi capaci di incidere sull’ambiente e l’ambiente a sua volta condiziona, plasma, modifica la razionalità formale. L’intelligenza consiste pertanto nella capacità del corpomente di abitare lo spazio, il tempo, gli istanti, le condizioni, i rischi, le possibilità.
Lo sviluppo delle intelligenze artificiali è sempre più rivolto non all’incremento dell’intelligenza dei software ma alla trasformazione della nostra specie in un fattore attivo e passivo di calcolo. Il che significa e implica il progressivo abbandono dell’identità e dell’ontologia umane a favore di qualcosa che è stato definito transumanesimo. Si tratta di uno degli obiettivi e dei sogni tra i più antichi che varie culture umane abbiano immaginato e a volte perseguito, di solito però con strumenti religiosi e non tecnologici. Tale scopo è il progressivo abbandono dei limiti somatici e temporali dell’animale umano (la sua finitudine) per attingere invece forme e comportamenti di controllo accurato e completo del mondo e, in prospettiva, per non morire più.
Il transumanesimo è molto diverso dal postumanismo, il quale al contrario ha come obiettivo di abbandonare la duplice pretesa vitruviana e prometeica della nostra specie. Vitruviana in quanto tende a consacrare la propria centralità umanistica nel cosmo. Prometeica poiché intende farlo con l’ausilio della dimensione tecnica che all’umano è connaturata. Il transumanesimo è invece una forma dispiegata di iperumanismo, un’espressione del tentativo di condurre a pienezza e potere quella che si pretende essere l’unicità umana dentro il mondo.
Si tratta dunque dell’accentuazione di alcuni caratteri dell’umanesimo classico, rinascimentale, quali l’antropocentrismo che diventa tecnocentrismo e ritiene che l’umano possa garantirsi ancora il dominio sul pianeta soltanto tramite una tecnicizzazione della propria identità, tramite l’oltrepassamento dei limiti umani attraverso una sostituzione del corpo con delle tecnologie digitali quanto più avanzate, pervasive e potenti possibile, sino all’ibridazione tra σῶμα e τέχνη o – prospettiva ultima – sino alla completa sostituzione della corporeità con la potenza numerica del software. Anche questo è un progetto che non sarebbe possibile concepire senza la lunga tradizione dualistica delle culture e delle filosofie mediterranee ed europee, una tradizione che separa più o meno nettamente il σῶμα dalla ψυχή.
E tuttavia il fondamentale e grave limite delle prospettive che si fanno chiamare transumaniste sta nell’ignorare proprio l’ontologia del vivente e la complessità dell’intelligere. Il limite consiste soprattutto nella a volte mascherata ma sempre evidente struttura dualistica che sta alla base della natura stessa dell’intelligenza artificiale.
Il transumanesimo algoritmico nega infatti la corporeità sino a disprezzarla, ritenendo che l’intelligenza possa davvero consistere in una «pura informazione» che ‘liberi’ l’umano «dal fardello della carne» [5]. Il transumanesimo nega il corpomente che siamo, sino a ritenere che esso sia «un incidente di noi stessi, qualcosa che ci definisce non più degli abiti che scegliamo di indossare». Il dualismo di tali prospettive è evidente e radicale, è la più recente espressione di «un immaginario assolutamente potente, antico e modernissimo insieme: quello che riduce l’individuo all’informazione. […] Il risultato è una spiritualizzazione totale dell’identità umana. Il dualismo proposto riprende quello attivo in alcuni momenti chiave della tradizione culturale occidentale. Il punto è estremamente rilevante: il transumanesimo a questo proposito non fa altro che assumere un lascito ben preciso – ma lo riattualizza».
Intelligenze artificiali e vita della πόλις
Anche a causa di questa struttura e dei limiti ontologici ed epistemologici che le ineriscono, l’Artificial Intelligence – per quanto potente, e raffinata appaia e nonostante sia frutto di investimenti miliardari – è in realtà soltanto un mezzo, uno strumento assai efficace e di immediato utilizzo volto non agli scopi per i quali viene di solito presentata, proposta e difesa, ma per una ragione politica, dove politico significa anche e soprattutto il tentativo di controllare l’intero corpo collettivo e i suoi singoli membri.
Una delle condizioni teoriche di tale progetto è l’implementazione di un paradigma ontologico per il quale, come ho accennato, l’essere è informazione ed esistere significa essere connessi, non fisicamente connessi ma digitalmente connessi. Una connessione privata che trasforma le relazioni in una espansione dell’individuo e del suo gioco con il mondo, in una forma integralmente soggettiva, nella quale la dimensione politica è cancellata anche tramite la sostituzione dei diritti politico/sociali – sempre storicamente ed economicamente collocati – con diritti attinenti alla sfera dei desideri privati, in particolare dei desideri di natura sessuale.
Un simile paradigma ontologico-esistenziale ha in realtà come condizione e insieme come conseguenza la dissoluzione del politico, la cancellazione delle comunità. «Come recita un obiettivo dell’Agenda 2030 Europea: il governo deve diventare una piattaforma digitale. […] L’IA ne prende il posto e da strumento di ordinamento ed organizzazione diviene principio di auctoritas e governance postpolitica» [6].
Uno degli ambiti nei quali questo obiettivo si presenta con molta chiarezza è l’Internet delle cose e la rete 5G a essa necessaria. La cosiddetta Internet delle cose consiste nell’abbattimento del confine tra l’online e l’offline, in una connessione non soltanto pervasiva nello spazio e perenne nel tempo ma trasparente, che sia il risultato di tecnologie diventate invisibili, scomparse perché capaci di legarsi al tessuto dell’esistenza quotidiana e diventate da essa indistinguibili. Una connessione che operi sui corpimente in modo da riprogettarli e artificializzarli quanto più possibile, rendendoli pienamente compatibili con il virtuale, con le tecnologie digitali. A essere automatizzato non è in primo luogo il flusso di informazioni ma il flusso biologico e relazionale della nostra specie, trasformando anch’esso in un insieme di informazioni identificabili, estrapolabili, scambiabili. Si tratta di una metamorfosi algoritmica del biologico e del sociale.
Un obiettivo di questa portata e natura ha bisogno di una tecnologia adeguata. Il 5G è tale tecnologia poiché è una rete capace di rendere davvero istantanea una quantità enorme di relazioni tra i dati, connettendo senza ritardi né percepibili né sostanziali gli oggetti, i software, i corpimente umani. Internet delle cose e rete 5G costituiscono l’espressione e insieme la condizione per «la piena realizzazione di una società cibernetica e transumanista» [7].
E tuttavia si tratta di una rete che ha delle controindicazioni molto forti. Il 5G necessita infatti di un numero elevatissimo di ripetitori posti a distanze ravvicinate, ripetitori che vengono ‘nascosti’ negli oggetti più comuni del panorama e dell’arredo urbano, i quali emanano microonde millimetriche che generano campi elettromagnetici assai intensi e potenzialmente nocivi.
Insieme ai rischi sanitari ed ecologici, il fattore chiave è che 5G e Internet delle cose sono concepite e costruite per un controllo totalizzante dei movimenti umani, delle scelte, delle informazioni offerte e cercate. Si tratta dunque di una tecnologia che inevitabilmente dà vita a una società del controllo in modalità, forme e misura che nessuna struttura sociale e politica conosciuta aveva mai prodotto. Che molta parte del corpo collettivo non sia informato o non percepisca nemmeno gli evidenti rischi di tale tecnologia, soffermandosi soltanto sulle possibilità che essa offre, non è un buon motivo per sostenere che tali rischi non esistano o siano minimi. Anche perché la tendenza di fondo delle tecnologie umane è che tutto ciò che diventa tecnicamente possibile viene prima o poi implementato nella vita quotidiana (Legge di Gabor), al di là dei rischi e delle riserve etiche che si possono nutrire. Anzi, la fattibilità tecnologica diventa spesso ragione di accettabilità anche etica e politica.
Come si vede, la rete 5G non è affatto una questione limitabile alle infrastrutture, alla comunicazione, al funzionamento ancora più veloce dei cellulari e dei computer ma tocca dimensioni sanitarie, politiche e antropologiche di fondamentale rilievo. Dimensioni che si inscrivono appunto nelle tendenze transumaniste di parte della cultura contemporanea, nelle quali convergono «biotecnologie, nanotecnologie, neuroscienze, informatica» con l’obiettivo di «potenziare l’umano per arrivare a una sua trasformazione biotecnologica» [8], vale a dire alla trasformazione dell’umano in un dispositivo informatico e virtuale, dissolvendo in questo modo la struttura protoplasmatica, biologica, somaticamente situata della nostra specie. Facendola diventare altro insomma
Le forme della dissoluzione riguardano anzitutto il lavoro, i posti di lavoro occupati dagli esseri umani, le attività lavorative umane, la definitiva eliminazione di ciò che nel Novecento è stato denominato con l’espressione ‘classe lavoratrice’, in modo che i soggetti sociali diventino (nel caso migliore) degli assistiti, pervasi di passività e incapaci persino di concepire azioni e pratiche collettive. Anche per questo «la retorica secondo la quale la diffusione ubiquitaria dei robot nei contesti lavorativi permetterà agli umani di dedicarsi alle attività più creative è del tutto farlocca e antistorica: quello che sta avvenendo è piuttosto un processo in cui gli umani possono solo allineare i propri ritmi e i propri comportamenti a quelli prescritti delle macchine (almeno fino a che queste non saranno in grado di sostituirli del tutto)» [9].
Cancellato il lavoro umano, le élites economico-tecnologiche cercano di velocizzare le pratiche transumane che le riguardano, vale a dire quelle già in atto in una molteplicità di modi e ricerche tecniche e sanitarie, «e il resto dell’umanità viene ridotta a gregge senza voce e tecnologicamente amministrato (salvo poi, di tanto in tanto, dar luogo ad orde di violenza cieca e predatoria)»[10]. Condizione ulteriore di tale riduzione è lo smarrimento dell’identità anche sessuale, sostituita da una ontologia flussica, che vede nella corporeità un abito volontaristico e non una necessità materica. Da qui l’invenzione e l’imposizione di una bizzarra neolingua che partorisce di continuo nuove categorie LGBTQ, LGBTQ2S, LGBTTQQIAAPP, la quale affianca a termini più tradizionali come lesbiche, gay, omosessuali, formule sempre nuove quali transgender, queer, asessuali, pansessuali, intersezionali, non binari, a due spiriti, intersessuali.
Si tratta anche in questo caso di un primato della volontà individuale sulla potenza del σῶμα, prospettiva che fa parte del più generale primato del velleitarismo teorico sulle strutture del reale, del principio di piacere sul principio di realtà, degli algoritmi sul biologico, di una percezione completamente deformata rispetto alla densità materica del mondo, rispetto a un’ontologia realistica che non ritiene il reale frutto della percezione umana, della conoscenza umana, dello spirito umano, della volontà umana.
In poche parole, l’Intelligenza Artificiale deve assumere un primato sul mondo della vita. Ed è per questo che l’ambito della formazione, della scuola, delle Università deve essere completamente modificato. Sono storicamente noti i rapporti tra la ricerca sull’intelligenza artificiale e la psicologia/pedagogia del behaviorismo statunitense. Watson e Skinner ritenevano che non avesse senso parlare di una natura umana e che il docente debba essere ciò che poi Rogers (nonostante le differenze) ha definito un ‘facilitatore’ di certi comportamenti rispetto ad altri, di certi atteggiamenti rispetto ad altri, e non certo un maieuta che cresce, scopre, impara insieme all’allievo, nel rispetto delle reciproche identità e differenze.
Vivace e del tutto empirica è la descrizione che Davide Miccione compie del risultato pedagogico, e dunque politico, di tali tendenze:
«Intanto, chi volesse distogliere lo sguardo dagli schermi dei propri dispositivi mobili, che sono attualmente il luogo privilegiato in cui la favola bella ci raggiunge, e voglia piuttosto farsi un giro nel mondo restante violando il dogma che ammonisce “extra app nulla salus”, potrebbe proficuamente visitare le scuole secondarie dove si addestra (il verbo esatto è questo) l’appartenente alle nuove generazioni a pensare in modo astorico, a non leggere, a pensare che sia il test a risposta multipla il luogo dove “si parrà la tua nobilitate”, dove ci si abitua a occuparsi solo dei mezzi e mai di riflettere/decidere sui fini (santo Horkheimer ora pro nobis), dove si sviluppano menti applicanti, menti logico-combinatorie, menti algoritmiche, menti senza ribellione. Si preparano tempi in cui già lo scrivano Bartleby sembrerà un feroce terrorista»[11].
Ha dunque ragione Stefano Isola quando sostiene che «il comportamentismo è un’ideologia scientifica che fa dell’uomo un essere malleabile a piacere, predisposto a farsi strumento di demagoghi e tiranni, un essere che ha smarrito la sua libertà e la sua dignità, ma, al fondo di tutto questo, fa dell’uomo un essere pienamente gestibile dal leviatano digitale» [12]. La cosiddetta ‘didattica a distanza’, le lezioni ‘da remoto’, le scuole e le università digitali costituiscono soltanto le espressioni iniziali di una sostituzione del maestro in carne e ossa con il ‘maestro vuoto’ del quale parla Renato Curcio [13]. E tutto questo accade ignorando per intero i dati che le ricerche psicologiche, psichiatriche, neuroscientifiche adducono sui preoccupanti effetti di una dipendenza percettiva ed esistenziale, anche didattica, dai dispositivi digitali.
Il processo in atto consiste in una dissoluzione del reale senza comprendere il reale, nell’avvento di nuove primitività proprio al culmine di un processo storico/tecnologico che pensa invece se stesso come la più raffinata avanguardia gnoseologica. E invece nella concreta dinamica del corpo sociale – informazione uniforme, social network menzogneri, chat ultranarcisistiche e violente – assistiamo a delle «forme di regressione dell’intelligenza umana a stadi meno evoluti: da un’intelligenza di tipo sequenziale, basata sull’attenzione e sulla relazione ad un’intelligenza basata sulla simultaneità, evolutivamente più primitiva» [14].
Chi formula dei dubbi sul significato e sulla delicatezza antropologico/politica di quanto va accadendo viene redarguito, quando gli si dà ascolto, e minacciato di inquisizione ed esclusione per una resistenza al progresso, ai diritti, all’inclusione, alla resilienza, al green, alla sostenibilità, alla globalizzazione, al progressismo, che sono invece parole ideologiche, proprio nel senso tecnico di parole atte a nascondere il significato dell’accadere.
Di fronte a processi di questa natura e peso, credere che bastino ‘comitati etici’ e ‘appelli morali’ per fermarne la potenza, non è soltanto velleitario ma è anche una parte necessaria del racconto, in modo da poter proseguire con buona coscienza. E invece «come per l’Aiace sofocleo», bisogna «respingere il conforto di illusioni vuote, lasciando perdere le litanie pseudo-etiche sul controllo responsabile della tecnologia» [15], liberandosi dall’illusione che le tecnologie umane siano degli strumenti neutri il cui risultato dipende dall’uso che se ne fa.
Una più matura consapevolezza teoretica sa invece che gli strumenti umani sono sempre stati veicolo di mutamenti profondi dell’umano che prescindono in gran parte dalla volontà umana di controllo. In questo caso si tratta di un mutamento che conduce l’umano al transumano, vale a dire al progressivo dominio di una ragione artificiale.
Lo spazio politico del sé
A questo insistito e rizomatico tentativo di sostituire l’essere e il pensare con il calcolo e con la connessione va opposto anzitutto e semplicemente lo spazio del sé come luogo politico e non soltanto psicologico o esistenziale. Uno spazio che accade e si esplica già e semplicemente con la lettura, con il silenzio, con l’immaginare dentro di sé mondi e situazioni mentre si scorrono simboli alfabetici.
«Leggere, persino una boiata, significa essere raggiungibili dalle idee, coltivare, per quanto male, i concetti, significa poter essere raggiunto dalla bellezza, poter raggiungere la comprensione dei nessi causali tra le cose, pensare il lontano nello spazio e nel tempo. […]
Pensare che un uomo che legga, scriva, studi, possa pensare allo stesso modo di chi non ha mai letto nulla è una sorta di razzismo al contrario e sputa in faccia alla fatica che la cultura e la conoscenza hanno rappresentato nella vita di ognuno. In tempi di naturalismo, emotivismo, primitivismo, ‘mariadefilippismo’, ciò andrebbe sempre ricordato. […] I non lettori e i lettori non pensano nello stesso modo» [16].
Leggere è la condizione per scrivere, per cercare di decifrare il mondo con il piccolo insieme di segni di una lingua, e per restituire ai lettori ciò che si pensa di aver compreso. Vale a dire, leggere è la condizione per sapere scrivere e per argomentare le ragioni dei propri pensieri. Perché la scrittura è l’essenza del pensare, il geroglifico del mondo, la pienezza della mente, il lampeggiare dell’intelligenza, il senso di una vita umana capace di lasciare traccia di sé nel tempo al di là del tempo che si è.
Vivere anche politicamente questo spazio significa sottrarsi – con la necessaria chiarezza della riflessione critica sul mondo – alla convinzione irriflessa, quotidiana, pervasiva «che un like o una videochiamata siano un’accettabile sostituzione della nostra presenza fisica, vera, corporea, che far muovere un avatar/pupazzo o farlo combattere o morire o parlare o scopare sia un’accettabile sostituzione del farlo noi veramente. Bisogna dunque perdere il corpo, i suoi limiti e l’emotività che ad esso si accompagna» [17]. E invece vivere politicamente significa respingere il progetto, la prospettiva, la necessità di «diventare versioni (un po’ rincoglionite in verità) di un’intelligenza artificiale, ritenere di coincidere con la semplice memoria contenutistica, e poi si può diventare immortali. Farci perdere pezzi e poi downloadare quel pochettino rimasto» [18].
Rinunciare a difendere e a garantire lo spazio del sé come luogo anche politico e lo spazio politico come luogo anche interiore, rischia di produrre una Dissipatio Humani Generis, di generare la dissoluzione, di favorire l’impulso alla (auto)distruzione tramite un’intelligenza artificiale diventata il Paese dei balocchi che non ci trasforma – tutti: studenti, professori e cittadini – in ciuchi ma in burattini che qualunque autorità è pronta a utilizzare per i propri obiettivi salutistici, moralistici, solidaristici, valoriali, santi. Per tutti – studenti, professori, cittadini e autorità – l’esistenza rimane invece attrito, dramma, travaglio del negativo, da affrontare nell’unità fisica, materica e biologica del corpomente che siamo.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] E. Mazzarella, Europa Cristianesimo Geopolitica. Il ruolo geopolitico dello ‘spazio’ cristiano, Mimesis, Milano-Udine 2022: 59.
[2] Ivi: 16.
[3] Ivi: 91.
[4] O. M. Gnerre, Piattaforme e sorveglianza: un approccio genealogico alle forze motrici del capitalismo, in Aa. Vv., Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee, Numero 12/2022: 237.
[5] A. Allegra, «Transhomo Deus. Forme tecnoutopiche di reincatamento del mondo», in L’algoritmo pensante. Dalla libertà dell’uomo all’autonomia delle intelligenze artificiali, a cura di C. Barone, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2020: 112. Le citazioni successive sono tratte dalle pp. 113 e 112.
[6] S. Isola, A fin di bene: il nuovo potere della ragione artificiale, Asterios Editore, Trieste 2023: 123-124.
[7] S. Guerini – C. Ragusa, 5G Rete della società cibernetica, Asterios editore, Trieste 2021: 9.
[8] Ivi: 4.
[9] S. Isola, A fin di bene: il nuovo potere della ragione artificiale, cit.: 131.
[10] Ivi: 125.
[11] D. Miccione, Guida filosofica alla sopravvivenza, Algra Editore, Viagrande-Catania 2022: 127
[12] S. Isola, A fin di bene: il nuovo potere della ragione artificiale, cit.: 95.
[13] Cfr. R. Curcio, L’impero virtuale. Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale, Sensibili alle foglie, Roma 2015.
[14] S. Isola, A fin di bene: il nuovo potere della ragione artificiale, cit.: 119.
[15] Ivi: 143
[16] D. Miccione, Lumpen Italia. Il trionfo del sottoproletariato cognitivo, LetteredaQALAT, Caltagirone 2022: 166-168.
[17] Id., Guida filosofica alla sopravvivenza, cit.: 128
[18] Ibidem. Sul download della mente, e in generale su tutti i temi qui toccati, è fondamentale l’analisi che Naief Yehya ha condotto in Homo Cyborg, Éléuthera, Milano 2017. Il titolo originale di questo studio è infatti El cuerpo transformado.
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Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, dove insegna Filosofia teoretica, Filosofia delle menti artificiali e Epistemologia. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Chronos. Scritti di storia della filosofia (Mimesis, 2023).
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