di Valeria Dell’Orzo
L’8 novembre del 2020 il Myanmar è andato al voto. A cinque anni dalle prime elezioni libere che avevano, però, visto solo nel 2016 il National League for Democracy, l’NLD, il partito di Aung San Suu Kyi, salire al governo a seguito di un accordo con i generali dell’esercito, lo schieramento politico del Consigliere di Stato si è confermato con una maggioranza schiacciante, che ha da subito destato le preoccupazioni delle più alte sfere dell’esercito.
In virtù della Costituzione, proposta dalla giunta comunale e approvata con un referendum nel 2008, il Myanmar è un governo civile, retto da un Presidente eletto indirettamente dal popolo, viene infatti nominato da un collegio elettorale composto da parlamentari votati dalla popolazione e da rappresentanti militari. Il Presidente, una volta nominato il governo, deve sottoporre tale scelta all’approvazione del Parlamento, l’esercito inoltre è garante dello Stato in caso di presunti brogli elettorali e può, quindi, prendere in carico il governo del Paese nel tempo ritenuto necessario per tornare al voto.
Quella dell’esercito birmano è una realtà complessa, strettamente legata alla costituzione dell’indipendenza del Myanmar, veicolo di un’identità forzata in un Paese etnicamente e culturalmente frammentato, filtrato dalle passate politiche coloniali e ancora impigliato nelle trame insidiose del post-colonialismo e del nuovo colonialismo economico globalizzato.
L’esercito, che nella coscienza popolare aveva rappresentato al tempo stesso la costrizione di un governo autoritario lungo cinquant’anni, ma anche l’immagine di una identità ritrovata, è oggi l’evidente simbolo della prevaricazione, artefice di un golpe che gli stessi attivisti birmani [1], definiscono non come un colpo di stato, ma come un atto di alto tradimento di fronte alla manifesta volontà popolare, di quella larga fetta di popolazione riconosciuta all’interno dello Stato del Myanmar, rimasta fuori dalle logiche di espulsione, vessazione e annientamento che hanno invece segnato il destino della realtà Rohingya.
Il primo febbraio, giorno previsto per l’insediarsi del nuovo governo del Myanmar, Aung San Suu Kyi, funzionari e leader politici a lei vicini, sono stati tratti in arresto dalle forze dell’esercito. I militari, attraverso una comunicazione sulla rete televisiva di Stato, hanno proclamato lo stato di emergenza effettiva, della durata di un anno affinché si torni allo scrutinio. I poteri legislativo, esecutivo e giudiziario sono affidati all’esercito, nelle mani del comandante in capo dal 2011 delle Forze armate della Birmania, il generale Min Aung Hlaing proclamato Presidente del Consiglio di Amministrazione dello Stato.
I militari, sulla base di quanto previsto dalla Costituzione, hanno rivendicato il diritto e la necessità di assumere il comando del Paese in caso di rischio di brogli, ipotesi, questa, espressa dall’esercito stesso di fronte al rifiuto del NLD di effettuare il ricalcolo dei voti e soprattutto di cedere alla minoranza militare la nomina presidenziale. L’intervento dei militari ha deposto, e arrestato, il Presidente in carica Win Myint e la consigliera di Stato Aung San Suu Kyi e fatto firmare l’incarico di gestione militare a uno dei due vicepresidenti, l’ex generale Myint Swe in forma temporanea, e ha nominato capo di governo il generale Min Aung Hlaing, attuando una politica ritenuta incostituzionale dalla popolazione poiché scavalca apertamente l’esito della votazione.
L’opposizione e la conseguente rivolta rappresentano, così, la risposta non solamente a quello che agli occhi esterni si rivela come un golpe militare, ma a quello che per il popolo è l’espressione intollerabile di un tradimento, verso il popolo stesso, verso lo Stato, verso il sofferto affrancarsi dal giogo del colonialismo che invece mostra le sue nuove forme nei rapporti tra l’esercito e alcuni Stati asiatici, colossi dell’economia. L’esercito è reo non solo di violenze e prevaricazioni militari e politiche ma è responsabile, agli occhi attenti della giovane società birmana, di tradire il popolo e la Nazione smerciando quella dignità d’indipendenza che il Myanmar ha faticosamente perseguito tra le pressioni delle grandi potenze vicine.
L’imposta subalternità coloniale ha innescato, anche in Myanmar, una prassi di prevaricazione mai interrottasi che ha fatto sì che la complessa realtà umana del Paese, cessata la dominazione coloniale britannica, si trovasse ugualmente forzata entro un sistema socio-capitalistico importato e imposto, decontestualizzato, subìto, come un incancrenito effetto collaterale della storia di questi popoli (Cesaire, 2010). L’esercito è accusato di aver ingannato il popolo birmano anche alla luce degli affari sempre più serrati tra i rappresentanti militari dello Stato del Myanmar e la Cina. Non irrilevanti sono poi i rapporti con la Thailandia, Stato che, durante le sanzioni internazionali imposte al Myanmar nel 2000 per violazione dei diritti umani, ha fatto da tramite commerciale per l’export di gemme e pietre dure del Paese, come attentamente spiegato dalla ricerca di Gianluca Bonanno per il Torino World Affairs Institute, affari nei quali molti birmani vedono lo svilimento di una dignità nazionale piegata agli interessi economici di chi sigla gli accordi.
È proprio alla luce degli affari tra la Cina e i militari al potere che, durante gli scontri, sono state prese di mira alcune fabbriche, a oggi più di trenta, che il grande Stato ha eretto in Myanmar. L’impero asiatico, infatti, attraverso l’abituale politica di non interferenza negli affari dei Paesi partner commerciali, sigla accordi economici [2] non vincolanti nell’utilizzo delle somme elargite, in cambio della possibilità di fare del Myanmar il proprio ponte verso l’Oceano Indiano e le innumerevoli possibilità commerciali che questo offre, e in cambio di un facile accesso all’estrazione mineraria delle cospicue risorse del Myanmar, la Cina si è inoltre fatta carico della costruzione e del ripristino di diverse opere pubbliche quali tratti delle linee ferroviarie e il rifacimento del porto di Rangoon, snodo principale del gasdotto e dell’oleodotto che permette al colosso asiatico di avvicinarsi ai mercati occidentali.
Ma in un sistema di così evidente dipendenza, instaurato dall’approfittarsi economico dell’esercito birmano, è chiaro che gli interessi degli investitori vadano garantiti a ogni costo, il governo dei militari non può quindi permettere che una rivolta popolare renda, agli speculatori, meno appetibile il territorio del Myanmar. Alla Cina è sufficiente, per proseguire i suoi affari, che una stabilità interna venga mantenuta, è quindi nell’interesse di chi si giova dei proventi di tali accordi che il Myanmar non sia attraversato da lunghi moti di insurrezione che renderebbero difficili i commerci e attirerebbero, come sta già accadendo grazie all’uso dei social-media, gli indiscreti sguardi degli osservatori esteri, esposti alle notizie, ai filmati, ai comunicati degli attivisti diffusi dai giovani birmani fuori dal proprio Stato.
Si spiegano così più facilmente gli interventi repressivi e il loro esacerbarsi a seguito delle azioni rivoltose mirate a colpire i simboli del tradimento subìto dal popolo del Myanmar, quelle sedi delle imprese cinesi che palesano il sussistere di accordi stipulati nell’interesse delle élites economiche del Paese e di coloro che detenendo il potere speculano sullo sfruttamento e la mercificazione del proprio Stato [3].
Le sanzioni internazionali, nel caso in cui dovesse istaurarsi e essere riconosciuta come tale una dittatura militare, ricadranno sulla fascia di popolazione medio-bassa, e non sui più potenti ceti sociali che potrebbero avere già stretto accordi internazionali. I Paesi asiatici infatti non impongono le stesse sanzioni che invece vengono attuate dall’Europa, questo fa sì che, come è già successo in passato, si trasformino in mediatori commerciali che amplificano il prezzo di vendita del prodotto in Europa, riducendo però contestualmente i guadagni del Paese sanzionato, quindi del Myanmar.
La possibilità che il Myanmar, in virtù degli interessi economici di pochi, torni alla dittatura militare vissuta per 50 anni, mobilita oggi le masse più della violazione dei diritti umani di un popolo vicino, li mobilita fortemente perché la paura di vedere svanire le proiezioni del proprio futuro sotto l’oppressione militare è concreta e non più limitata a una fetta formalmente non riconosciuta di popolazione. La minaccia è adesso trasversale, li coinvolge tutti direttamente, è il riproporsi di una storia di cui i birmani conoscono già i risvolti. Le sanzioni internazionali che graverebbero sull’economia, sull’imprenditoria, sull’istruzione e sulla sanità spaventano gli adulti e i più giovani, cresciuti all’ombra dei racconti della passata dittatura e del riecheggiare mediatico delle lontane libertà, delle grandi opportunità che la globalizzazione ostenta sempre altrove.
L’intera popolazione è oggi coinvolta sul piano diretto e privato, strettamente familiare, a differenza di quanto avvenuto di fronte a una persecuzione che ha riguardato, con ferocia, una parte di società ‘altra’, vissuta, pur nel paradosso della coesistenza, come aliena alla propria quotidianità. I conflitti si inaspriscono giorno dopo giorno. Dalle ultime stime, ricostruite attraverso i pochi contatti possibili con l’ex Birmania, sono oltre 200 le vittime degli scontri e più di 2000 coloro che sono stati tratti in arresto; anche il personale sanitario, che ha aderito alle proteste, è stato brutalmente colpito dal crescendo innervosito della violenza dell’esercito, probabilmente impreparato a un moto di rivolta così saldo e all’incapacità di frenare le comunicazioni con l’estero, sempre più fluide lungo i canali social.
La globalizzazione ha in sé il potere seduttivo dei mondi ricchi e apparentemente liberi, certo più liberi di altri, un potere che spesso si fa portatore di ambizioni e conseguenti frustrazioni ma ha anche la capacità di veicolare nuove organizzazioni di coesione sociale, nuove identità, forti e combattive; ha in sé la possibilità di trasformare i suoi canali di diffusione mediatica in strumenti di libertà, di inedite e creative espressioni e di formidabili forme spontanee di circolazione delle informazioni.
La geopolitica globalizzata contiene tutta la complessità di un mondo veloce, iper-connesso, trascinato al ritmo incalzante di una produttività competitiva e disumana, e la sversa seguendo la piramide economica, a cascata, dai Paesi più forti a quelli più sfruttati. Il fascino esercitato dal Primo mondo è però non solo l’esca ingannevole che cattura esasperazione e disperazione di coloro che da quel modello di vita si trovano esclusi. La visibilità di un sistema differente, in realtà o solo apparentemente più libero, l’immagine attraente di una diversa rappresentazione di vita, ha il potere di innescare processi inediti di aggregazione e mobilitazione, offre i mezzi e le competenze per strappare dall’oblio e dall’ombra dell’emarginazione alcune di quelle realtà che l’Occidente vive come distanti pur serrandole nelle spire dei propri affari, dei commerci, degli accordi.
In Myanmar il contemporaneo colonialismo della globalizzazione ha prodotto le espressioni di un nuovo sfruttamento, attraverso politiche e accordi abilmente ancorati alle falle della realtà locale, ma ha anche offerto, soprattutto alla parte più giovane della popolazione, gli strumenti per attuare il confronto, per denunciare i soprusi di una politica di usurpazione e prevaricazione, per rivendicare che la violazione dei propri diritti, dei diritti umani, veda riconosciuti i responsabili, per far sì che il sacrificio di tanti attivisti non scivoli silenzioso e occultato tra le pieghe dello scacchiere internazionale.
Il popolo del Myanmar è vittima di quelle usurpazioni coloniali contemporanee nelle quali riconosce l’evolversi di un passato di insopportabile subalternità, ma è anche, al tempo stesso, protagonista e creatore del flusso mediatico che oggi permea e attraversa l’intero globo con la rapidità di un click, e come tale ne fa un’arma, se non di lotta, di pubblicità, visibilità e riconoscibile dignità nell’opporsi alle pressioni vessatorie di chi usurpa il futuro e le aspirazioni di un’intera nazione per trarne un immediato, ma effimero, vantaggio economico.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] Tramite le informazioni diffuse dal Democratic Voice of Burma, un’organizzazione no profit che da Oslo diffonde contenuti radiotelevisivi. Contrariamente a quanto inizialmente era apparso, l’oscuramento della rete internet è limitata a 8 ore al giorno, le comunicazioni col Myanmar sono quindi diminuite e rese più difficili, ma non del tutto interrotte. Molti giovani, la fascia di popolazione più attiva nell’opposizione al golpe, riescono a usare i più recenti social localizzandosi in Paesi differenti, eludendo il blocco imposto dal controllo militare e diffondendo notizie, percezioni e dichiarazioni.
[2] Le dinamiche innescate dal contemporaneo colonialismo cinese sono ormai ben note e visibili nella sequela di accordi siglati con i rappresentanti di molti stati africani. I termini degli affari siglati seguono ripetutamente la prassi dell’elargizione monetaria priva di vincoli d’uso e la contestuale costruzione di infrastrutture, rilevanti per gli affari esteri cinesi più che per le realtà ospitanti.
[3] Occorre ricordare che oltre all’etnia Rohingya, altre due popolazioni birmane sono state coinvolte in una sequela di scontri con le forze militari del Paese: i Kachin, al confine con la Cina, ricchi di giacimenti che ne attirano le speculazioni, e i Karen, dello Stato del Kayn, al confine con la Thailandia che sotto accordi economici camuffa la condizione di sfruttamento della manodopera estera, perpetrata in quel territorio.
Riferimenti bibliografici e sitografici
Aimé Césaire, Discorso sul colonialismo, Ombre corte, Verona, 2010.
Torino World Affairs Institute: https://www.twai.it/articles/non-solo-giada-la-rilevanza-geo-economica-del-traffico-di-rubini-in-myanmar/
United States Institute of Peace: https://www.usip.org/publications/2021/04/chinas-high-stakes-calculations-myanmar
https://www.usip.org/publications/2021/03/myanmar-streets-nonviolent-movement-shows-staying-power
Myanmar Peace Monitor: https://www.mmpeacemonitor.org/3440
https://www.mmpeacemonitor.org/3578
Istituto per gli studi di politica internazionale: https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/podcast-globally-scontri-myanmar-29979.
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Valeria Dell’Orzo, laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee e, in particolare, del fenomeno delle migrazioni e delle diaspore, senza mai perdere di vista l’intersecarsi dei piani sincronici e diacronici nell’analisi dei fatti sociali e culturali e nella ricognizione delle dinamiche urbane.
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