La nostra storia, la storia di ciascun individuo e in particolare di coloro che sono chiamati a creare il mondo della cultura, delle lettere e altri oggetti dello spirito è, come quella dei popoli, un costante processo di chiarificazione e di conduzione a ragione di miti e di aspetti che tendono a sfuggire all’azione delle facoltà meramente razionali e che dimorano nel fondo della coscienza dei singoli e dei gruppi. Nel periodo della grande guerra, il sociologo tedesco Max Weber affermava l’esistenza storica di una razionalizzazione o intellettualizzazione, ovvero un’estensione della ratio nell’interpretazione della realtà che investiva tutta la civiltà occidentale in ogni sfera dell’agire. Tale processo è ancora in atto e ormai non solo più caratteristico della civiltà occidentale.
Questo processo inizia molto lontano nel e un «ruolo fondamentale in esso è stato svolto dalle grandi religioni monoteiste, in particolare dall’ebraismo e dal cristianesimo, ma anche i miti hanno avuto fino a un certo punto un ruolo rilevante»[1], un primo tentativo di emanciparsi razionalmente da forze magiche e occulte, si pensi alle considerazioni sull’argomento espresse da Max Horkheimer e Theodor W. Adorno nella Dialettica dell’illuminismo. «Le grandi religioni monoteiste hanno realizzato una forte liberazione dalla magia e quindi hanno intellettualizzato o reso più razionale il rapporto tra il credente e la divinità»[2]. E tutto ciò ha determinato un forte disincantamento del mondo che ha decretato il passaggio a una concezione sempre più razionale.
Nell’era attuale veniamo continuamente in contatto con vari oggetti e ritrovati tecnologici che non conosciamo approfonditamente e verso cui proviamo solo delle aspettative di funzionamento (basta pensare al computer o al cellulare per intenderci), ma il processo di razionalizzazione ancora in atto ci dà la possibilità di conoscerli quando e come vogliamo – proprio perché sono prodotti razionali dell’uomo e funzionanti secondo regole razionali – e di dominare ogni cosa o aspetto della realtà secondo il calcolo razionale e senza il timore dell’azione di forze magiche o misteriose. Questo nell’era digitale è particolarmente vero, l’uomo contemporaneo è sempre di più in balia degli specialisti e dei cultori informatici da cui letteralmente dipende, in un contesto di sempre maggiore specializzazione e interdipendenza funzionale.
Quando l’incantesimo delle concezioni magiche e mitiche si rompe e vengono meno le spiegazioni trascendenti del reale, l’individuo con le sue facoltà razionali prende il sopravvento e si emancipa dall’irrazionale, ma questo accade spesso ad un caro prezzo che potrebbe condurre ad un impoverimento interiore e spirituale senza precedenti. Persino la religione che, come detto sopra, ha contribuito storicamente al processo di razionalizzazione viene oggi da più parti considerata come un’inadeguata interpretazione magica o mitica del reale.
Appare così quanto mai opportuno gettare uno sguardo sul mondo della produzione dello spirito, cioè delle lettere, della poesia e delle arti che continua a dar voce, in maniera insostituibile, a quanto vi è di più sublime nell’uomo il quale, come spesso accade, oltrepassa il limite della ragione e per tale motivo inserito sic et simpliciter nel mondo delle spiegazioni trascendenti. Il mondo delle umane lettere e dell’arte è indubbiamente legato al processo di intellettualizzazione e razionalizzazione non solo in quanto attività investita dallo stesso, ma anche in quanto manifestazione e precipua espressione della razionalità.
Lo scrittore e poeta Cesare Pavese sarebbe stato indubbiamente d’accordo nel considerare intimamente legate l’arte poetica e l’intellettualizzazione, basterebbe rileggere le sue considerazioni intorno al rapporto tra mito e poesia nei saggi scritti intorno al 1943-44 e 1950. Il mito, secondo lo scrittore piemontese, trasuda una febbre d’unicità, la quale palesa sempre il suo nocciolo religioso.
«…nella memoria dell’infanzia il prato, la selva, la grotta, la spiaggia, la casa non sono oggetti reali fra i tanti, ma bensì il prato, la spiaggia come ci si rivelano in assoluto dando forma alle nostre immagini e questa unicità del luogo e dei vari frammenti di realtà è proprio quello che contraddistingue l’agire mitico» [3].
Proprio per questo motivo il mito ha un forte carattere simbolico il cui significato non è mai ben determinato; l’esistenza ci offre continuamente questa pletora di eventi unici e insostituibili in quanto accaduti una volta per tutte e sovrastanti le leggi spazio-temporali divenendo validi come modelli interpretativi del reale, annettendo cioè senso alla realtà che diventa essa stessa una manifestazione e una continua riproposizione di tali accadimenti rigorosamente unici.
L’elemento simbolico che caratterizza il mito dice così il suo carattere di oggetto, qualità o evento che acquisisce un valore unico, assoluto, il quale viene sottratto alla causalità naturalistica e alla spiegazione meramente razionale. Un esempio di simbolo potrebbe essere quello di un libro tramite il quale due persone hanno dato inizio ad una appassionata amicizia, quel libro allora diventa un simbolo in quanto ha assunto un valore assoluto che lo riempie di importanti significati.
L’intellettualizzazione del fare poetico e artistico consiste per Cesare Pavese proprio nella capacità di vedere più nitidamente in questa selva di miti e simboli, di ridurli a chiarezza di ragione al fine di razionalizzare il rapporto tra l’individuo e il contenuto della propria coscienza. Questa molteplicità di miti e simboli, presenti nella memoria e custoditi nel fondo della nostra coscienza, costituiscono per il poeta e per l’artista una importante fonte d’ispirazione, materiale prezioso su cui lavorare e gettare luce. Custodire questo patrimonio è di grande rilevanza ai fini della conservazione della nostra stessa umanità e di ogni fare che tende all’autentica promozione dell’umano nel contesto della razionalizzazione imperante e della rottura di ogni incantesimo.
La salvezza dell’uomo è inevitabilmente connessa alla conservazione della bellezza dei simboli e degli stati aurorali che sono parte della nostra storia individuale e che non siano completamente distrutti anche quando sia il fare poetico a renderceli maggiormente chiari. Pavese spiega come dobbiamo accettare «i simboli-il mistero di ognuno con la pacata convinzione con cui si accettano i le cose naturali. La città ci dà simboli come la campagna ci dà frutti» [4].
Prendendo ad esempio una sua ben nota poesia Pensieri di Deola, potremmo citarne i primi versi.
Deola passa il mattino seduta al caffè
e nessuno la guarda. A quest’ora in città corron tutti
sotto il sole ancora fresco dell’alba. Non cerca nessuno
neanche Deola, ma fuma pacata e respira il mattino [5].
Si tratta in questo caso di un evento divenuto unico anche per mezzo della sua probabile ripetizione, il luogo, ovvero la città, diventa il palcoscenico in cui si consumano la tragedia della solitudine e il tentativo di contrastarla attraverso l’emancipazione. Qualcosa all’interno della coscienza si agita e si popola di simboli, la città, la donna, la meretrice sono simboli che colpiscono con inaudita ferocia l’interiorità dell’uomo, immagini che balenano sempre uguali in ciascuno di noi creando così lo stato aurorale, mitico appunto, che sfugge alla decifrazione secondo ragione e che la poesia tende a chiarire conservando, nel migliore dei casi, l’unicità dell’incantesimo e del miracolo.
Nella concezione mitica del reale non si sa di fantasticare mentre nel lavoro poetico ed artistico questa consapevolezza è chiara e risulta particolarmente singolare anche dal punto di vista dell’intellettualizzazione e della sua funzione chiarificatrice. L’illuminazione di ragione avviene, in questo caso, attraverso un trucco, un artificio artistico che risolve i miti in chiara immagine e in discorso accessibile (quindi comprensibile) al prossimo. Avviene cioè, nel caso della produzione artistica e poetica, una sorta di paradosso in cui l’uso della finzione e dell’artificio è posto al servizio della chiarezza, della riduzione a ragione del trascendente presente nella nostra coscienza e anche in quella dei poeti e degli artisti.
I simboli che ciascuno di noi porta con sé, custodendoli gelosamente nell’interiorità, nella realtà è possibile anche ritrovarli e questo ritrovamento suscita nell’uomo una forte emozione che genera il brivido dell’anima; ancora un esempio tratto dalla poesia di Pavese da I mari del sud.
Camminammo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo
mio cugino è un gigante vestito di bianco,
che si muove pacato, abbronzato nel volto,
taciturno. Tacere è la nostra virtù.
Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo
– un grand’uomo tra idioti o un povero folle –
per insegnare ai suoi tanto silenzio [6].
La memoria diviene qui il luogo dove l’evento nella sua unicità simbolica fa la sua burrascosa comparsa, il silenzio è ciò che accompagna in maniera virtuosa i due eroi che della capacità di tacere fanno virtù. Nel silenzio, infatti, è possibile il raccoglimento interiore, la scoperta dei miti interiori che inquietano la nostra anima, un silenzio che è quindi da conservare gelosamente, da ammirare e infine da trasmettere ai posteri.
L’atto poetico, nella misura in cui genera una confusione nella struttura del linguaggio e dei codici degli usuali processi comunicativi, spinge il fruitore dell’opera poetica ad un processo di interpretazione continua, di decodifica dell’opera stessa che getta una luce chiarificatrice anche sul contenuto mitico-simbolico del lettore medesimo. Ed ecco qui la razionalizzazione che si compie tramite il farsi poetico nella relazione con la propria interiorità che vorrebbe sottrarsi all’azione chiarificatrice della ragione. L’elaborazione artistica e letteraria è dunque da considerare come parte integrante del vasto processo di intellettualizzazione che investe la società globale. Processo che non può essere ridotto solo all’esercizio dell’attività scientifica, bisogna cioè riconoscere la funzione razionalizzatrice degli artifici letterari e artistici che riducono a ragione i miti-simbolici.
Se a motivo della razionalizzazione ciò che vi è di più sublime nell’uomo passa dalla sfera pubblica a quella privata, l’arte diventa sempre più intimista e meno monumentale riuscendo a cogliere lo spirituale presente nella sensibilità quotidiana e a comunicarlo pur conservando intatta l’ineffabilità del contenuto di ciò che comunica. Il genio creativo si mostra pertanto in tutta la sua evidenza quando mantiene l’equilibrio tra l’elemento razionale volto alla chiarificazione del contenuto della coscienza, cioè miti e simboli, e la dimensione trascendente di quest’ultimi preservata come patrimonio inestimabile dell’umanità tutta; questo è infatti il suo modo di partecipare all’unicità del miracolo della vita e di promuovere l’autentica umanità dell’uomo.
Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022
Note
[1] Alessandro Bellan, Razionalizzazione e società moderna, in Condizioni umane, 16 dicembre 2010, http://condizioniumane.blogspot.com
[2] Ibidem.
[3] Cesare Pavese, La letteratura americana e altri scritti, Einaudi, Torino 1991: 271.
[4] Ivi: 293.
[5] Cesare Pavese, Lavorare stanca, Einaudi, Torino 2001:14.
[6] Ivi: 5.
Riferimenti bibliografici
Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, La dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 2010;
Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi Torino 1991;
Cesare Pavese, Lavorare stanca, Einaudi, Torino 2001;
Max Weber, La scienza come professione, La politica come professione, Edizioni di Comunità, Torino 2001.
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Marcello Spampinato, laureato in Scienze politiche (indirizzo sociologico), è cultore di filosofia e teologia. Nel 2021 ha pubblicato il volume Esistenzialismo trascendentale e dialettico (Paguro editore). È membro dell’associazione culturale Nuova Acropoli di Ragusa impegnata nella promozione della filosofia attiva. L’analisi filosofica e delle scienze umane, insieme ai loro rapporti con l’arte e la letteratura, è parte integrante del suo campo di indagine e di ricerca volta verso una sempre maggiore unità della conoscenza e di una mentalità universale.
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