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Napoli, da Vigliena al Molosiglio, il mare del popolo: dal porto commerciale al porto militare

Ponte della Maddalena fine Settecento

Ponte della Maddalena fine Settecento

di Maria Sirago 

La fascia costiera tra Vigliena e il Molosiglio era definita da Matilde Serao “il mare del popolo”. Nel territorio al confine con San Giovanni vi era il fortilizio di Vigliena: era stato costruito per la difesa del Golfo tra il 1703 ed il 1706 su una precedente torre spagnola per ordine del viceré Juan Manuel Fernando Pacheco, marchese di Villena, da cui prese il nome, oggi diruto. Era usato anche per la pratica di artiglieria che dovevano fare gli alunni della Regia Accademia Militare della Nunziatella, istituita nel 1787. Fu distrutto in parte nei moti rivoluzionari del 1799 (Amirante, 2008:72). Nella vicina spiaggia nel 1818 fu costruito il primo battello a vapore, Ferdinando 1; poi nella zona circostante nel corso del’800 furono edificati numerosi opifici che dettero il volto a quella che oggi è chiamata la “zona industriale” (Sirago, 2022a).

La città era collegata dal Ponte della Maddalena, ingresso ufficiale della città sul lato della costa. Era stato allestito nel 1555 da don Bernardino de Mendoza a ridosso delle mura e del Castello di Sant’Erasmo (oggi borgo di Sant’Erasmo),  in una zona paludosa, detta Borgo di Loreto, in cui sfociava il fiume Sebeto, lodato dal poeta Jacopo Sannazaro (ora nascosto sotto gli edifici). Qui era stata posta la statua di San Gennaro a protezione della città dalla lava, ancora esistente (de la Ville Sur-Yllon, 1898).

Fig. 2 Ponte della Maddalena, Pianta del Duca di Noja Giovanni Catafa particolare, 1775 (Biblioteca Nazionale, Napoli)

Ponte della Maddalena, Pianta del Duca di Noja Giovanni Catafa particolare, 1775 (Biblioteca Nazionale, Napoli)

Verso il 1830, con lo sviluppo della balneazione, furono realizzati dei bagni popolari al Ponte della Maddalena; e dopo l’Unità, verso il 1862, erano menzionati due stabilimenti presso il ”fiume Sebeto alle Paludi”, nella fascia costiera degli odierni quartieri di Gianturco e Sant’Erasmo. Nel 1897 si contavano 4 stabilimenti nella zona dei Granili, ridotti a due nel 1904, quando la zona si stava industrializzando (Sirago, 2010 e 2013). 

In quel territorio era stato costruito l’edificio dei Granili, un deposito per il grano e le vettovaglie pubblici, secondo il progetto dell’architetto Ferdinando Fuga, completato nel 1778. In questo edificio si conservavano anche materiali di artiglieria e vi era pure una fabbrica di cordami. Danneggiato durante la Seconda guerra mondiale il fabbricato è stato demolito nel 1953. Vicino ai Granili verso il 1790 fu eretta per volere della regina Maria Carolina anche una Casina cinese, raffigurata tra l’altro in un piatto del “Servizio dell’Oca” commissionato dalla regina tra il 1792 e il 1795 e conservato nel Museo di Capodimonte. Forse ospitava gli uffici di direzione o quelli della Dogana della farina, che aveva sede al Mandracchio (porto commerciale), in un locale eretto nel 1596 da Domenico Fontana per ordine del viceré conte d’Olivares, quando il grano era conservato nelle Fosse. Nell’Ottocento venne usata come alloggio di soldati quando i Granili furono in parte usati come caserma (Di Mauro, 2002). 

Fig. 3 Granili, palazzo e spiaggia

Granili, palazzo e spiaggia

Il Borgo di Loreto, che aveva preso il nome dalla chiesa di Santa Maria del Loreto, eretta nel 1565, con la spiaggia della Marinella si trovava tra il ponte della Maddalena ed il Carmine. 

Il territorio anticamente era quasi disabitato ma ricco di mulini per l’acqua abbondante che vi era nella zona, molto paludosa. Nel 1731 in epoca austriaca, il viceré Aloys Thomas Raimund von Harrach aveva collegato il Borgo con la “Strada Nuova” «fatta appianare, lastricare e abbellire con fontane». In quel borgo era fiorente l’“Arte de’ Vasai di creta”, molto sviluppata a fine Settecento. Vi era una fontana con quattro cavalli marini che “buttavano acqua” fatti trasportare dallo stesso viceré da una fontana più antica che era davanti alla porta del Castel Nuovo (Maschio Angioino) nel luogo detto Piazza Francese. Presso la chiesa era stato fondato dal sacerdote Giovanni di Tappia il Real Conservatorio per orfani e orfane. Poi al tempo di Alfonso Carafa le orfane furono trasferite nei Conservatori dell’Annunziata a Sant’Eligio. Nel 1565 i fanciulli furono affidati ai padri somaschi per istruirli (Sigismondo, 1789: 120-124).

Borgo di Loreto con la spiaggia della Marinella

Borgo di Loreto con la spiaggia della Marinella

Nel Conservatorio si insegnava il mestiere dell’arte della seta: gli orfani imparavano quella di trenettaro (lavorante di trine), filatore, berrettaio. Alcuni erano istruiti anche nella musica, soprattutto nel teatro musicale. Il conservatorio diventò tanto importante da essere affidato nel 1689 al maestro Alessandro Scarlatti che vi insegnò per un anno (Del Prete, 2022: 121-130 e163). Gli orfani dediti alla musica partecipavano anche a particolari feste marine, come gli “spassi di Posillipo”, una sfilata di barche di nobili che seguivano la scia della gondola vicereale al suono di musica e canto (Sirago, 2022b: 51ss.).  Nel 1749 Carlo di Borbone creò nel conservatorio anche una scuola nautica per istruire i figli degli ufficiali di marina (Sirago, 2022c: 205).

Nel Borgo vi erano molti artigiani ma anche categorie professionali legate “all’arte del mare”, padroni di barche, marinai, pescivendoli ma soprattutto pescatori “rezzaioli” (pescatori con varie reti), “sciabicari” (che pescavano con una rete a sacco detta “sciabica”), “palangresari” (pescatori col palangrese, un paniere pieno di ami): i pescatori e marinai che dai primi del Cinquecento si erano riuniti per raccogliere fondi per pagare un medico e un cerusico (barbiere) per curare i pescatori e marinai malati. Poi avevano creato nella parrocchia di Sant’Arcangelo all’Arena, sita nello stesso borgo, nella Cappella dell’Immacolata Concezione “sotto titolo dell’Arcangelo Raffaele” un “Monte (o Confraternita) puramente laicale” di marinai e pescatori, ottenendo il regio assenso nel 1766, riconfermato venti anni dopo.

L’approdo e la spiaggia della Marinella, fine Settecento

L’approdo e la spiaggia della Marinella, fine Settecento

Il Monte era simile a quelli creati lungo tutta la fascia costiera napoletana e dei golfi di Napoli e Salerno. Questi Monti avevano fini previdenziali più che assistenziali poiché prevaleva l’aspetto mutualistico su quello caritativo. La loro natura era privatistica ma riconosciuta dallo Stato: venivano costituiti attraverso un atto notarile, in cui si accludeva il regolamento, ma dovevano conseguire il regio assenso. Erano gestiti dai Governatori, da due a quattro, eletti dagli associati, che dovevano far osservare il regolamento, raccogliere le quote stabilite, cospicue per i rischi del mestiere, ed erogare le somme dovute per i defunti, per gli ammalati, per i maritaggi (doti delle figlie) e per il riscatto dai turchi o barbareschi, un evento molto comune in quel tempo, visto che le coste erano continuamente assalite dai nemici (Sirago, 2022d).

Nel corso dell’Ottocento con lo sviluppo della balneazione nella spiaggia prospiciente il Ponte della Maddalena e su quella della Marinella, furono costruiti degli stabilimenti balneari con “camerini” o spogliatoi. nel 1838 si contavano tre stabilimenti nella spiaggia della Marinella, aumentati a sei nel 1862, usati dai ceti popolari. Erano definiti dalla giornalista Matilde Serao “bagni popolarissimi” ed erano sconsigliati nella guida di Karl Baedeker del 1875. 

Fig. 6 Spiaggia della Marinella “Guaglioni” al bagno, Vincenzo Caprile, 1887, Museo Nacional de Bellas Artes, Buenos Aires

Spiaggia della Marinella “Guaglioni” al bagno, Vincenzo Caprile, 1887, Museo Nacional de Bellas Artes, Buenos Aires

Qui nascevano continui contenziosi con i pescatori, che vedevano ridotti gli spazi per stendere le reti e le loro mogli, che praticavano il mestiere di lavandaie e non potevano più stendere i panni ad asciugare. 

Verso il 1870 per risolvere il problema delle precarie condizioni igieniche il Municipio  propose di costruire alla Marinella dei bagni in muratura gratuiti per i poveri in modo da diffondere le cure idroterapiche che potevano prevenire le malattie causate dalla mancanza di igiene. Lo stabilimento progettato dall’ingegnere francese Emilio Pelard non fu però costruito dal Comune per mancanza di fondi.

 Spiaggia della Marinella, lavandaie, fine Ottocento

Spiaggia della Marinella, lavandaie, fine Ottocento

Quando scoppiò il colera, nel 1884, il Municipio stipulò una convenzione con Andrea Lombardo per fargli aprire un “bagno popolare” gratuito con 15 camerini per le donne e 30 spogliatoi per gli uomini, uno stabilimento per l’utenza popolare alla Marinella da far diffondere pubblicizzato con un manifesto firmato dal sindaco Nicola Amore (Sirago, 2010 e 2013).

 

Matilde Serao: lo stabilimento balneare “popolarissimo” (Il Giorno, 14/7/1905) 

Da quanti hanni (sic!) sorge, o donna, con la gloria dei suoi pennoni stinti, sì, ma vittoriosi, e dai suoi lenzuoli d’un dubbio candore, ma infiniti, sterminati, palpitanti alla brezza in lunghi filari? I nonni andavano là, come ci vanno i nipoti, ed oggi, come allora, all’ingresso sorge la tradizionale banca dell’acquaiuolo, che vende l’acqua sulfurea, l’acqua ferrata, con un continuo versare delle lucide mummarelle (brocche) rossicce, intorno alle quali i limoni si ergono a piramidi e si distendono in festoni; ed oggi, come allora, nella sala d’aspetto, un po’ piccina, sempre piena di gente, il tarallaro (venditore di taralli) tiene in mostra la sua piccola merce, sulla quale ondeggia con moto isocrono, lo scacciamosche di carta gialla e rossa. Bagno popolarissimo! Il caffè-concerto, che aveva tentato di modernizzarlo, non vi ha attecchito, il pianoforte non vi ha successo. Tutt’al più, alla domenica, due poveri esseri sbilenchi, un vecchio storpio e una fanciulla rachitica, vi miagolano delle canzoni vecchie anch’esse, canzoni di tempi lontani, che noi non ricordiamo più; sono le canzoni dei nostri nonni, che bevevano anch’essi, là, la loro mummarella d’acqua ferrata e prendevano anch’essi il bagno in quell’acqua verdognola, un po’ oleosa su cui qualche torsolo di spiga naviga, tacitamente, come una gondola solitaria in canal Grande, a notte. Bagno popolarissimo! Tutte le mamme della nostra piccola borghesia, tutte le operaie che vogliono un’ora di freschezza, dopo il lavoro estenuante, vanno là. E quante conversazioni, sulla rotonda, mentre si chiamano i numeri [della tombola]; quale cicaleccio femminile incessante, intrammezzato dagli strilli dei bambini che si acciuffano e si ruzzolano per terra, disputandosi un tarallino o mezza galletta … Tutti i fatti di casa, sono portati lassù, su quelle assi vacillanti, e tutti i fatti degli altri sono inchiodati a quelle pareti stinte, ed esaminati ed anatomizzati spietatamente… E la conversazione, ogni tanto, è interrotta … – Cinquantasette! – Signò – prumettete [permettete] … È il numero che teniamo noi … Titì, te muove o no? E ghiamme ca è notte! [andiamo, che si fa notte] … – E le superstiti del crocchio profittano subito del momento per cominciare a lavorarsi l’amante. Bagno pettegolassimo! Del resto, non facevano così anche i nonni?

 Carlo Brancaccio, barche sulla spiaggia della Marinella, fine Ottocento

Carlo Brancaccio, barche sulla spiaggia della Marinella, fine Ottocento

Durante il Risanamento, a fine Ottocento, il Borgo fu trasformato (Alisio, 1980). Poi nei bombardamenti della Seconda guerra mondiale è stato completamente distrutto, compresa la chiesa di Santa Maria di Loreto, visto che era a ridosso del porto. Oggi resta solo il toponimo dell’ospedale Loreto mare e una via antistante l’ospedale, Piazzetta Orticello a Loreto.

Il Borgo di Loreto confinava con la fortificazione del Carmine, detta anche “sperone”, eretta in epoca angioina, di cui oggi resta solo un torrione. Al Carmine si accedeva dall’omonima porta, prospiciente alla chiesa del Carmine.  Le costruzioni per risistemare le fortificazioni “alla moderna”, dovute al cambio dell’arte della guerra, iniziarono a partire dal 1532, con il viceré don Pedro, rimasto in carica per circa un ventennio, chiamato per la sua alacrità nella riorganizzazione del territorio urbano il “viceré urbanista”. In questo contesto si inserisce la fortificazione del Carmine, primo baluardo per la difesa costiera, che si estendeva fino al molo, difeso dal Maschio Angioino (Pessolano, 2005). 

 Il Vado (ingresso) del Carmine dalla strada Marina, XIX secolo, Giovanni Serritelli

Il Vado (ingresso) del Carmine dalla strada Marina, XIX secolo, Giovanni Serritelli

Il torrione, distrutto da un’alluvione nel 1566, fu fatto ricostruire ed includere in una struttura quadrangolare più ampia dal viceré Parafan de Rivera, duca di Alcalà, Nel corso del Seicento i viceré manifestarono un progressivo disinteresse alla struttura, privata anche della guarnigione di soldati. Solo dopo la rivolta venne riorganizzato e dopo che venne occupata una parte del convento dei Carmelitani si fecero dei lavori per separare i due edifici. Il funzionamento del forte durò per tutto il Settecento ma nel 1789 furono formulate proposte per il suo abbattimento, per abbellire la città. Il progetto fu ripreso negli anni Trenta dell’Ottocento per creare un migliore sistema viario. Negli anni Quaranta iniziò la costruzione della nuova arteria, che andava dalla Marinella alla porta del Carmine, completata nel 1860 (odierno Corso Garibaldi). In quel periodo cominciò ad essere demolita una parte dell’antico castello per far proseguire la strada fino alla Marina (Rusciano, 2008).

Fig. 10 La spiaggia del Carmine lungo la strada Marina, XIX secolo, Giovanni Serritelli

La spiaggia del Carmine lungo la strada Marina, XIX secolo, Giovanni Serritelli

Lungo la Strada della Marina, “abbellita” da Carlo di Borbone, vi erano numerose porte marine dove si scaricavano le merci trasportate dalla costa sorrentina dalle barche che approdavano nel bacino, soprattutto derrate alimentari per l’approvvigionamento della città, vendute nella piazza Mercato, sita accanto a quella del Carmine. 

Fig. 11 Piazza del Mercato (Amirante Pessolano, 2005)

Piazza del Mercato (Amirante Pessolano, 2005)

Le porte lungo la via Marina, riorganizzata ed abbellita da Carlo di Borbone,  erano quella di Mezzo, dello Sperone del Sale, detta così perché vi erano grandi magazzini per il sale, ma detta anche dei bottari, perché si lavoravano le botti della Mandra, presso vico Mandrone, dove venivano fatte sbarcare le mandrie, presso l’arco di Sant’Eligio, quella della Conceria (dove si conciavano le pelli) e di Santa Maria a Parete (dal nome di una cappella), nei  pressi di piazza Mercato,  la porta del pesce, dove vi era “la Pietra del Pesce”, detta anche della Loggia (dall’antica Loggia dei Genovesi), luogo di vendita del pescato, nel quartiere degli Orefici, borgo ancora esistente, quella dei Tornieri (lavoranti di vasi col tornio), unica rimasta, con un arco di piperno, oggi ingresso di un bar sito all’angolo tra via Marina e via Duomo (Sigismondo, 1789; Doria, 1970). 

Nel territorio del Carmine e nella adiacente piazza del Mercato fin dall’epoca normanno-sveva vi erano numerosi fondaci di varie “nazioni”, tra cui i pisani, gli amalfitani e scalesi, che avevano fondato una chiesa. In epoca angioina, dopo la costruzione del nuovo porto,  dell’arsenale e del castello, la zona mercantile si era ulteriormente ampliata, verso l’odierna via Toledo, una via creata dal viceré don Pedro verso il 1530, si erano stanziati numerosi  forestieri che avevano costruito le loro logge, spazi aperti dove si trattavano le questioni inerenti i traffici marittimi, quella dei genovesi, nella zona degli orefici, quella dei pisani, fondata nel 1238 (oggi in corrispondenza di una traversa di via De Pretis), quella dei mercanti toscani, senesi, lucchesi, ecc. separati dai fiorentini che avevano una loro loggia, quella dei catalani e dei lombardi (di cui restano tracce nella toponomastica cittadina) (Colletta, 2006: 181ss.). I fiorentini e catalani, molto presenti in epoca aragonese, durante il viceregno non riuscirono a mantenere la posizione egemone, sostituiti pian piano dalla “natione genovese”, i banchieri della monarchia spagnola. Furono comunque confermati i privilegi alle “nazioni” fiamminga, fiorentina, veneziana, ragusea (con i suoi abili commercianti e capitani di Ragusa, odierna Dubrovnik) e, dopo la ratifica della pace (1804) a quella inglese. Invece, anche se vi era un continuo scambio con Marsiglia, dati i continui momenti di guerra, sorgevano spesso contrasti.

Carmine, sbarcatoio, foto di fine Ottocento

Carmine, sbarcatoio, foto di fine Ottocento

La situazione migliorò con l’arrivo di Carlo di Borbone, quando il regno ritrovò la sua indipendenza: furono emanate leggi per incrementare la marina mercantile e si cominciarono ad esportare e importare merci con naviglio napoletano, che aveva imparato a navigare anche in terre lontane grazie agli studi effettuati nel collegio dei pilotini di San Giuseppe a Chiaia. Dagli anni Quaranta furono stipulati trattati di Commercio con La Porta Ottomana, Tunisi, Olanda Svezia, Danimarca Russia, per cui il commercio si incrementò notevolmente e furono nominati numerosi consoli stranieri, spagnoli, inglesi, olandesi, francesi, austriaci, ragusei, danesi, russi sia nella Capitale che in tutto il regno, residenti nella zona del Mercato e in quelle limitrofe. (Sirago, 2004: 25ss.).       

Anche i gerosolimitani, poi cavalieri di Malta, avevano avuto la concessione di fondare una loro chiesa, con un ospedale, dedicata a San Giovanni Battista: era stata costruita di fronte al mare, dopo il portico di Sant’Eligio, che prendeva il nome dall’omonima chiesa e immetteva nella piazza del Mercato. In essa il 24 giugno si svolgeva la festa in onore di San Giovanni, di origini pagane, durante la quale ci si gettava a mare in ricordo del battesimo. La festa era organizzata in epoca vicereale dall’Eletto del Popolo, coadiuvato dagli artefici (in primis gli orefici e argentieri) e mercanti che finanziavano il costoso apparato, composto da sfarzose scenografie, creando anche fontane di vino e ricche cuccagne, spesso con cibi ittici forniti dai mercanti delle Pietre del Pesce (mercati) del Lavinaio o Loggia (dei genovesi) e del Porto (Sirago, 2022: 73-81).

 Pietra del Pesce o della Loggia al Lavinaio, inizi del ‘700 (Amirante Pessolano, 2005)

Pietra del Pesce o della Loggia al Lavinaio, inizi del ‘700 (Amirante Pessolano, 2005)

L’itinerario dei luoghi in cui si svolgeva la festa era l’asse portante mercantile della città, tra il Carmine e il porto: il viceré, scortato dall’Eletto del Popolo, cavalcava dal Largo di Palazzo (odierna Piazza Plebiscito) fino alla Chiesa di San Giovanni, omaggiato e riverito, Una delle soste era alla Porta del Caputo, dove venivano allestite la fontana da cui sgorgava vino e la cuccagna, assalita dai popolani al comando del viceré. Vi era anche la deviazione alla Pietra del pesce o della Loggia, dove i mercanti del pesce offrivano un lauto banchetto a base di prodotti ittici (Colletta, 2006: 388ss.; Sirago, 2022: 73-81). Molti luoghi di questo itinerario non corrispondono o restano solo dei toponimi poiché il territorio è stato modificato a fine Ottocento durante i lavori per il Risanamento (Alisio, 1980). 

Itinerario della festa di San Giovanni

Rua Catalana, Dogana, Fontana della Piazza di Porto, Piazza Majo, strada dei Lanzieri, strada di San Pietro Martire, piazza Larga, strada Orefici, Largo Loggia dei Genovesi, Fontana della piazza Pietra del Pesce, Strada Spetiaria antica, Strada dei Gipponari, Rua Francesca, Rua Campana, piazza Pendino-Sellaria, strada degli Armieri, Porta e piazza dei Caputo, Chiesa di San Giovanni a Mare

Fig. 14 Percorso della festa di San Giovanni. Particolare della pianta di Alessandro Baratta (1629), Biblioteca di Storia Patria, Napoli)

Percorso della festa di San Giovanni. Particolare della pianta di Alessandro Baratta (1629), Biblioteca di Storia Patria, Napoli)

La vendita del pescato era regolata da rigide norme: i parsonali o capi paranza, incettatori di pesce sul mercato, quasi sempre di Santa Lucia, dove avevano fondato un “Monte”, davano degli anticipi ai padroni delle barche da pesca chiamate gozzi o feluche. Questi a loro volta dividevano il prodotto della pesca in 12 parti, la metà per loro e il resto diviso tra le persone dell’equipaggio. Inoltre, i capiparanza esigevano altri diritti tra cui uno per la mediazione tra i padroni ed i pescivendoli che andavano in giro a vendere per le vie. Il pescato veniva portato nei luoghi deputati per la vendita, le pietre del pesce site al Lavinaio o della Loggia, al Mandracchio (porto commerciale), a Santa Lucia e a Chiaia, dove i parsonali trattenevano la parte migliore per venderla in loco, cedendo il residuo ai bazzarioti o venditori ambulanti. Questo sistema generava un’enorme miseria tra i pescatori; perciò a fine Settecento fu proposto di abolire l’assisa e dare precise norme sulla libertà del commercio del pesce (Sirago, 2018b). 

 Il Carmine, pesca al chiaro di luna

Il Carmine, pesca al chiaro di luna

Durante il Carnevale nelle quattro pietre del pesce della Loggia, del Porto, di Santa Lucia e di Chiaia l’Eletto del Popolo insieme con i capiparanza organizzava i festeggiamenti ed allestiva delle cuccagne con i migliori prodotti ittici. Durante la festa venivano distribuiti alla popolazione dei “cartelli di quadriglia”, fogli volanti, conservati presso la Società di Storia Patria di Napoli o presso la Biblioteca Nazionale di Napoli. Su questi fogli erano stampati componimenti letterari che appartenevano al genere dei canti carnevaleschi (sul modello di quello di Lorenzo il Magnifico “Quant’è bella giovinezza…, diffusi in Toscana), di cui vi sono testimonianze dalla metà del Seicento. Questi fogli si diffusero enormemente nel corso del Settecento, quando il Carnevale era organizzato dai più importanti mercanti impegnati nel rifornimento alimentare, come i fornai, i macellai, i “cedrangolari” (venditori di agrumi). I canti erano composti da poeti di mestiere, con un certo grado di cultura, esibita con dotte citazioni, probabilmente notai.  Il titolo del componimento riportava la categoria del mestiere (la Pietra della Loggia, per i pescivendoli), e il testo si concludeva con una lode ai sovrani, che permettevano lo svolgimento della festa.

Fig. 16 Costruzioni di imbarcazioni sulla spiaggia del Carmine, Anton Smimk van Pitloo

Costruzioni di imbarcazioni sulla spiaggia del Carmine, Anton Smimk van Pitloo

A titolo di esempio nella “Quatriglia de li piesciavienole de la Preta de la Loggia” del 1767, scritta come canto amebeo su modello delle Ecloghe piscatorie del poeta Jacopo Sannazaro, i due personaggi, Antuono e Minineco dialogavano amabilmente tra loro, magnificando la “Preta” e gli ottimi prodotti che si vendevano, “li pisce cchiu stimate”. Migliori di quelli venduti dai Luciani (i pescivendoli di Santa Lucia). E in quella dell’anno seguente venivano elencate tutte le specie vendute e si ricordava che durante la prossima Quaresima i mercanti avrebbero aumentato il loro guadagno, data la bontà della merce (Colella, 2006: 2019/2020).

Lungo la marina del Carmine si praticava qualche piccola attività di costruzione di imbarcazione di modesta portata, di solito peschereccia. Tuttavia le costruzioni si effettuavano al Mandracchio.

Nel corso dell’Ottocento sulla spiaggia, piena di panni stesi ad asciugare tra le barche, le reti e le nasse, come al Borgo di Loreto cominciò a svilupparsi la balneazione: nel 1862 tra il Carmine e la marina furono infatti costruiti due stabilimenti popolari per le cure idroterapiche (Sirago, 2010). 

 Spiaggia del Carmine, fine Ottocento

Spiaggia del Carmine, fine Ottocento

Il quartiere del Porto comprendeva il Porto militare e il Mandracchio, o porto mercantile (l’antico porto greco de Arcina), I commerci erano controllati dal Mastro Portolano di Napoli e Terra di Lavoro e dai suoi ufficiali. Vi era anche l’edificio della Dogana e Maggior Fondaco di Napoli, in cui risiedevano il Doganiere ed i suoi ufficiali.

La zona portuale durante il viceregno spagnolo (1503-1707) assunse una importanza notevole poiché la capitale partenopea, il regno meridionale e la Sicilia avevano assunto la funzione di antemurale a difesa degli attacchi turchi e barbareschi. Il viceré Toledo nel suo ventennio di governo riorganizzò la città con un preciso piano urbanistico, riorganizzando anche l’area portuale. Poi verso il 1560 il viceré duca di Alcalà, Pedro Afan de Ribera, dette incarico a Giovanni Merliano da Nola di costruire sulla punta del molo grande (oggi scomparso, sostituito dalla Stazione Marittima) una magnifica fontana, la “Fontana dei Quattro al Molo”, ornata di delfini. Il nome derivava dalle quattro statue che rappresentavano i principali fiumi, Gange, Tigri, Nilo, Eufrate. Poi dalla vasca sporgeva un cippo tondo su cui erano effigiati Apollo, dio della poesia, il Sebeto, il fiume di Napoli cantato dal poeta Jacopo Sannazaro e le Sirene, altro richiamo a Partenope. La fontana venne fatta abbattere nel 1666 dal viceré Pedro Anton de Aragona per far spazio alla nuova darsena e le statue, il cui utilizzo previsto era per la darsena, furono trasportate in Spagna dal viceré e collocate nei giardini della sua villa (Carletti, 1789: 83-84; Sirago, 2018b: 301ss.).

Dagli anni Sessanta, mentre incalzava la guerra tra turchi e barbareschi, culminata nell’assedio di Malta del 1565, l’arsenale napoletano divenne un grande cantiere navale, dove si lavorava alacremente alla costruzione delle galere da unire alla flotta spagnola. Qui furono allestite 30 galere che parteciparono alla vittoriosa battaglia di Lepanto (1571). Ma poiché ormai l’arsenale era obsoleto per la sua poca capienza, nel 1578 fu ricostruito tra la torre di San Vincenzo e il Castel dell’Ovo, nello spazio antistante il Maschio Angioino, su progetto del padre servita fra’ Vincenzo Casali e completato nel 1584.

 La darsena, Gaspare Vanvitelli, inizi del Settecento, con uno scorcio sull’arsenale

La darsena, Gaspare Vanvitelli, inizi del Settecento, con uno scorcio sull’arsenale

Verso il 1598 si decise di riorganizzare anche il porto, per il quale furono stilati vari progetti, tra cui quello dell’architetto papalino Domenico Fontana, che ai primi del Seicento ebbe l’incarico di costruire il palazzo reale. Il progetto del Fontana, ritenuto troppo oneroso non fu realizzato e non lo furono neanche gli altri, per cui si continuò a provvedere solo a lavori di ordinaria manutenzione (Pessolano, 1993). L’unico intervento fu quello della costruzione della darsena, incuneata nello spazio tra l’arsenale, un bastione di Castelnuovo e la torre di San Vincenzo, iniziata nel 1666 e inaugurata due anni dopo (Sirago, 2018b: 301ss.) 

La darsena era necessaria per la riparazione dei vascelli dell’Armata napoletana del Mar Oceano, creata nel 1623. Ma i vascelli erano costruiti nei porti di Castellammare o Baia, più profondi, visto che nell’arsenale si potevano costruire solo le galere. Anche durante il viceregno austriaco (1707-1734) si provvide solo all’ordinaria manutenzione. 

La Regia Dogana, inizi del Settecento (Amirante Pessolano 2005)

La Regia Dogana, inizi del Settecento (Amirante Pessolano 2005)

Nel porto si pagavano i diritti di ancoraggio, uniti a quelli per la dogana, usati per le riparazioni portuali. Inoltre, si pagavano diritti di lanternaggio per l’illuminazione della lanterna del Molo, o faro. La lanterna, già presente ai tempi di Carlo II d’Angiò, verso il 1307, fu riedificata da Luca Bengiamo nel 1487, quando fu ampliato il molo, che come compenso per le spese di costruzione e il suo mantenimento aveva ottenuto lo “ius lanternae”, esatto dalle navi che approdavano in porto. La torre fu distrutta ai primi del Cinquecento, durante la guerra tra spagnoli e francesi, ma ricostruita e il diritto, riconfermato da Ferdinando il Cattolico, fu ricomprato da Giovanni De Bassis. Nel 1626 fu distrutta dai fuochi artificiali durante una “festa a mare” per cui venne nuovamente ricostruita. Agli inizi del Settecento passò in gestione alla famiglia Capano, poi nel periodo borbonico passò sotto la direzione del Monastero dei Santi Severino e Sossio (odierno Archivio di Stato). Nell’Ottocento, con l’abolizione della feudalità, rientrò nelle competenze portuali e nel 1843 fu aumentata in altezza e potenziata in luminosità. Nel 1932 fu abbattuta per fare spazio alla nuova Stazione Marittima. Oggi resta la sola base, utilizzata dalla Marina Militare per Convegni (Pessoano 1993; Sirago, 1993 e 2004; Adriani Gravagnuolo, 1994;  Colletta, 2006). 

 Il molo con la lanterna, 1792-95, Museo di Capodimonte, Napoli, “Servizio dell’oca”

Il molo con la lanterna, 1792-95, Museo di Capodimonte, Napoli, “Servizio dell’oca”

Si pagavano poi al Monastero di San Lorenzo i diritti feudali di falangaggio (approdo con le falanghe o bitte) nella “spiaggia del mare” e alla Casa Santa dell’Annunziata il falangaggio e una decima sulla pesca alla “marina del vino”.

Con l’arrivo di Carlo di Borbone (1734) e l’inizio del regno indipendente la situazione cambiò. Il re ed i suoi ministri attuarono una politica mercantilistica volta ad incrementare i commerci, per cui fu deciso di riorganizzare il porto militare della Capitale e tutti i più importanti porti del regno, soprattutto quelli pugliesi, da dove arrivavano le derrate agricole necessarie per la popolosa Capitale (circa 320.000 verso il 1750). I lavori iniziarono nel 1739 sotto la direzione dell’ingegnere Giovanni Bompiede, capitano del porto napoletano, e si protrassero per altri cinque anni su progetto del regio ingegnere maggiore Giovanni Antonio Medrano e del regio ingegnere Domenico Vaccaro (Sirago, 2004).

Fig. 21 La strada del Porto, inizi del Settecento (Amirante Pessolano 2005)

La strada del Porto, inizi del Settecento (Amirante Pessolano 2005)

Nel porto nel 1740 fu innalzata anche una fontana vicino alla lanterna o faro, alla fine del molo, composta da una piramide quadrangolare al centro di una grande tazza, contornata da mostri marini. Sulla piramide di marmo vi era una piramide che rappresentava la Nautica con una cornucopia di frutti sulla destra e un timone sulla sinistra, distrutta a fine secolo (Carletti, 1789: 83-84). La fontana a fine Settecento fu demolita ma una testimonianza è nel dipinto di Antonio Joli intitolato La via del Molo, eseguito verso il 1740. 

La strada del Molo, Antonio Joli, 1740, Napoli, Museo di San Martino

La strada del Molo, Antonio Joli, 1740, Napoli, Museo di San Martino

Nell’area portuale vennero riorganizzati anche gli edifici principali, come la Dogana Grande, e quello della Deputazione della Salute, necessario per impedire il diffondersi di malattie come peste e colera dopo “lo spurgo” o quarantena effettuato nel lazzaretto di Nisida (Pessolano, 1993; Sirago, 2004). Negli anni 40 del Settecento il re incaricò l’ingegnere Domenico Antonio Vaccaro di costruire una struttura monumentale tra la calata del Piliero e quella della Porta di Massa da adibire ad ufficio per la Deputazione della Salute, il cosiddetto Palazzo dell’Immacolatella. I lavori furono eseguiti quando fu risistemato il fronte a mare tra il molo grande e il castello del Carmine. Fu collocato di fronte al Mandracchio su un molo e collegato tramite due ponti che racchiudevano il piccolo bacino. (Donadono, 2024). 

Il palazzo dell’Immacolatella

Il palazzo dell’Immacolatella

Una svolta nelle opere portuali si ebbe in epoca francese, a partire dal 1808, quando il re Murat istituì il “Corpo degli Ingegneri di Ponti e Strade”, su modello francese, creando nel 1811 una “Scuola di applicazione” (futura facoltà di Ingegneria): da quel momento cominciarono gli studi in ambito portuale e fu sperimentato anche un modo per riorganizzare gli arsenali di Napoli e Castellammare per costruire i vascelli ad 80 cannoni. Gli studi continuarono dopo la Restaurazione e furono incrementati dopo i moti del 1820-1821 sotto la guida dell’ingegnere Carlo Afan de Rivera, direttore del “Corpo di Ponti e Strade”. Nel 1828 iniziò la costruzione della Dogana Nuova e vennero ristrutturati il molo grande e il Mandracchio. Un ulteriore sviluppo dei lavori si ebbe a partire dal 1830, all’epoca di Ferdinando II, che diede ordine di porre i porti commerciali sotto il controllo del Corpo dei Ponti e Strade, per cui nel 1836 iniziò la ristrutturazione del Mandracchio, completata dodici anni dopo. Si dette anche attenzione al porto militare, da adeguare alle nuove tipologie delle imbarcazioni, vascelli a 80 cannoni e navi a vapore. Il primo pacchetto (dal francese paquebot) fu impostato a Vigliena da un imprenditore francese nel 1818 per posta e passeggeri, poi seguirono altre società che si occupavano del collegamento Napoli Palermo. Ma un incremento si ebbe proprio a partire dagli anni Trenta, con la costruzione dei nuovi “cavafondi” a vapore, necessari per ripulire i porti, aggregati alla flotta. Il porto militare fu così ampliato con la costruzione del molo di San Vincenzo. Ma i lavori si protrassero a lungo, e furono completati solo nel 1892 (Sirago, 2004). Infine, nel 1850 fu iniziata la costruzione del bacino di raddobbo, completato due anni dopo; esso era necessario per riparare e carenare i velieri e le nuove unità da guerra a vapore come la pirofregata Ettore Fieramosca, una unità composta dallo scafo costruito a Castellammare e dal motore costruito nel Regio Opificio di Pietrarsa (Sirago Rasterelli, 2024). 

 Bacino di raddobbo, inizio dei lavori, Giovanni Serritelli, 1850

Bacino di raddobbo, inizio dei lavori, Giovanni Serritelli, 1850

Nello stesso tempo fu ristrutturato il lazzaretto di Nisida per lo “spurgo” (quarantena) delle merci. A partire dagli anni Quaranta furono edificati vari fari col nuovo sistema lenticolare; il primo sul molo della capitale nel 1843, poi se ne costruirono altri in tutta la costa del regno (Sirago, 2004).

Nel porto commerciale, il Mandracchio, venivano scaricate le vettovaglie destinate all’approvvigionamento cittadino, portate in piazza Mercato attraverso le porte che si trovavano lungo la fascia costiera, nella via Marina, di seguito a quelle del Carmine, distinte per tipologie merceologiche. Vi erano la porta del Caputo, costruita da una famiglia amalfitana, da cui si accedeva al sedile del popolo (di cui resta il toponimo, dietro Piazza della Borsa), quella  d’Olivares, fatta costruire dal viceré Enrique de Guzmán, conte d’Olivares, e quella di Sant’Andrea “delli scopari” detta così per la vicina chiesa,  nei pressi dell’odierno Corso Umberto, della Marina del Vino, dove si sbarcava il vino, da cui si arrivava al sedile di Portanova (resta solo la piazza di Portanova), di Massa, antistante il Mandracchio, presso la chiesa di San Pietro martire, dove venivano scaricate le merci trasportate da Massa Lubrense con le feluche, soprattutto latticini e carni (di cui esiste il toponimo), del molo piccolo, o di Portosalvo con la Pietra del Pesce, del Porto, della Calce, detta così perché si scaricava la calce prodotta a Vico Equense, (Doria, 1970). 

 Fig. 25 Il Molo piccolo, inizi Settecento (Amirante Pessolano, 2005)

Il Molo piccolo, inizi Settecento (Amirante Pessolano, 2005)

Il Mandracchio e il suo quartiere in cui risiedevano i marinai, poteva essere raggiunto dalla strada costiera del Piliero, aperta nel 1596, che prese il nome dalla chiesetta innalzata dai marinai e pescatori della Porta della Calce nel 1602 dedicata a Santa Maria del Pilar (odierna via Nuova Marina).

Nella zona litoranea tra il Carmine e il porto vi era anche una modesta attività di costruzione di imbarcazioni, di solito barche pescherecce o dedite al commercio di cabotaggio, di piccola stazza. Ma molte maestranze lavoravano nell’arsenale regio dove si costruivano le imbarcazioni per la flotta.

Via Marina, la Porta del vino, fine Ottocento. foto

Via Marina, la Porta del vino, fine Ottocento. foto

Gli addetti alle costruzioni di imbarcazioni avevano fondato il “Monte degli Assientisti di mare e terra” (quelli che stipulavano contratti per le costruzioni di imbarcazioni, anche regie), quello degli “Armatori”, dei “Proprietari di bastimenti”, quello dei “Costruttori impresari di bastimento”, quello “Mastri d’ascia di mare” (falegnami), quello dei !remolari” (costruttori di remi), a San Nicola alla Dogana, e quello dei “Mastri calafati di navi” nella cappella dell’Immacolata Concezione a Santa Brigida, il più antico (Sirago, 2022d).

Tra il 1752 ed il 1761 furono costruite tra Napoli, la marina del Mandracchio e quella di Chiaia 4 imbarcazioni, di cui una per un padrone di Torre del Greco. Ma altri sei napoletani, “pubblici negozianti”, fecero costruire le loro imbarcazioni nei cantieri del Golfo, 4 a Castellammare (tra i 3000 e 1 5000 tomoli), una a Procida (di 3000 tomoli) e un pinco a Piano di 5500 tomoli.

Costruzioni di imbarcazioni a Napoli 1752-1761 

Luogo Imbarcazione tomoli Luogo Imbarcazione tomoli
Napoli tartana Mandracchio Marticana 3000
Chiaia marina Pinco Mandracchio Marticana 3000
 Veduta della nuova strada del Piliero presa dal ponte dell’Immacolatella

Veduta della nuova strada del Piliero presa dal ponte dell’Immacolatella

Anche nei dati di fine secolo, tra il 1782 ed il 1799, si rileva una simile tendenza: i 43 armatori, di cui 7 pubblici negozianti, fecero costruire 7 imbarcazioni a Napoli e le altre nei cantieri del golfo, 11 a Castellammare, 3 a Vico, 5 a Meta (Alimuri), 7 a Piano (Cassano), 11 a Procida, 3 a Gaeta. Il numero di armatori era alquanto elevato, anche se di solito gli imprenditori erano più numerosi a Castellammare, Piano, Meta e Procida (Sirago, 2022). Ma fino ad ora uno studio sistematico per Napoli non è stato fatto, visto che molti documenti sono stati distrutti dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale che hanno colpito duramente l’Archivio di Stato di Napoli, sito in prossimità del Porto (Sirago, 2021 e 2024). 

Costruzioni di imbarcazioni a Napoli 1782-1799 

Luogo Navi Luogo Navi Luogo Navi
Mandracchio 5 Piliero marina 1 Carmine marina 1
Molo Immacolatella, Fontana gigante

Molo Immacolatella, Fontana gigante

Lungo la fascia costiera si esercitava anche la pesca. In epoca vicereale e borbonica si pagavano vari diritti feudali in possesso di monasteri e chiese, concessi in epoca angioina per la loro sussistenza, diritti aboliti nel 1806, dopo la promulgazione della legge eversiva della feudalità. I pescatori pagavano al Monastero di San Sebastiano un diritto per la pesca praticata dal Capo di San Vincenzo, presso il Castel dell’Ovo, fino alla Caiola (Posillipo), diritto poi acquistato da Carlo di Borbone per praticare la pesca, divenuto “sito reale”.. In epoca spagnola il generale delle galere possedeva altri diritti feudale, l’affitto della taverna del molo, quelli sul gioco e sulla pesca esercitata in quella zona.

A fine Settecento si calava anche una tonnara, detta di San Sebastiano, possesso regio, affittata annualmente (Sirago, 1993: 331ss.). Dato lo sviluppo di questo tipo di pesca si era costituita una confraternita dell’«Arte delle scancarature di tonnina». Vi erano poi altre confraternite di pescatori “nella rada di porto”, di “pescatori del mare del Generale delle Galere”, nella chiesa di Santa Maria delle Grazie a Caponapoli, di “pescatori e pescivendoli”, di “gongolari del quartiere Porto” (pescatori di vongole e frutti di mare, ricci, cannolicchi, ostriche) nella chiesa di Santa Caterina (dal 1576). La confraternita dei “gongolari” controllava la pesca dei frutti di mare lungo tutto il litorale, tra San Giovanni e il capo Posillipo, praticata coi rastrelli. Era una pesca specializzata perché si configurava come una pratica di coltivazione del mare il cui raccolto era il risultato di un lavoro pregresso che giustificava il controllo delle aree “coltivate”.

Nel 1661 era stato stilato un nuovo statuto per regolamentare la pesca dei cannolicchi, praticata di solito dai pescatori di Chiaia, ed era stato proibito l’uso dei “rastrelli a mangano”, che distruggevano la fetazione. A questa confraternita erano iscritti anche i pescivendoli e i cannucciari (pescatori con la canna e l’amo). Il contenzioso in merito all’uso dei rastrelli e alla difesa del territorio si protrasse fino ai primi dell’Ottocento. Quando furono abolite le corporazioni, nel 1825, i “vongolari” chiesero che nelle nuove leggi si stabilisse che pesca doveva essere effettuata secondo gli antichi sistemi previsti dagli statuti per preservare la pesca, controllata dai dodici “guardiamari” preposti al controllo.

La vendita del pescato era praticata secondo le modalità stabilite per le quattro pietre del pesce, o mercati, della Loggia (Carmine), Porto,   Santa Lucia e Chiaia dove a fine Settecento i pescivendoli organizzavano un “Carnevale marino”: nella “Quatriglia della Preta de Puorto” del 1768 si magnifica la “preta Marmora” (del Porto) definita “mirabilia”, in cui si vendevano i pesci più pregiati, adatti ai “goliose” (golosi) e gravite (donne incinte), ricordando, come in quella della Loggia, che nella prossima Quaresima ci sarebbe stato ulteriore guadagno per la vendita di “pesci addorosi e morbidi”. Infine l’autore invocava Apollo con la sua “dotta cetola (cetra)” perché gli desse “ingenio” (ispirazione) per creare un “bello carmine … per sta gente Pescivendola” (Colella, 2006: 2029-2020)

Altre confraternite o “Monti” di padroni di barche marinai e “fellucari barcaioli” (padroni di feluche) erano state fondate dal ceto marinaro e mercantile: un Monte per marinai al Molo piccolo, al Piliero, presso la cappella della Madonna del Pilar, non più esistente (dal 1615), alla Marina del vino, alla Pietra del Pesce, alla Porta della Calce e San Nicola al Molo (dal 1615), al Sedile di Porto (dal 1689, presso l’odierna piazza della Borsa), nelle chiese di Santa Maria di Portosalvo eretta nel 1554 dai padroni di barche e marinai), di Santa Maria delle Grazie a Caponapoli (odierno Corso Umberto), di San Giacomo degli Italiani. Oggi il territorio che corrisponde alla via Cristoforo Colombo e al Corso Umberto, appare completamente trasformato dopo i lavori del “Risanamento” di fine Ottocento (Sirago, 1993: 331ss. e 2022d).

Anche nella spiaggia del Mandracchio a fine ‘800 si diffuse la balneazione per cui nel 1862 furono aperti, tre stabilimenti balneari al Porto e due a Porta di Massa nel 1862. Anche qui come nelle altre marine popolari sorgevano contenziosi tra i pescatori, privati degli spazi per stendere le reti, e  “bagnaiuoli”. Nel 1889 il sindaco Nicola Amore stipulò una convenzione per aprire uno stabilimento balneare popolare come nelle altre marine del Carmine e della Marinella. Ma con la trasformazione delle strutture portuali questi stabilimenti vennero pian piano dismessi (Sirago, 2010).

Dopo l’Unità si decise di costruire una Villa del Popolo nella via Nuova Marina, nell’area compresa tra il largo Piazzetta Masaniello, all’altezza della basilica del Carmine, e la chiesa di Santa Maria di Portosalvo, un’area oggi occupata dai silos del porto.

I giardini del Molosiglio

I giardini del Molosiglio

La Villa, il cui ricordo si è conservato nel nome delle due darsene chiamate “Calata Villa del popolo”, fu progettata come alternativa popolare alla elegante Villa Reale realizzata a fine Settecento nella Riviera di Chiaia. Per la costruzione della Villa del Popolo venne rifatta via Marina e furono abbattute le porte della antica murazione angioina, quella dei Tornieri, inglobata in un edificio all’angolo di via Duomo, la porta di Santa Maria a parete (Apparente) e quella di Massa. I lavori fatti secondo il progetto del Risanamento cambiarono il volto di tutta l’area prospiciente il mare, poiché furono abbattute le vecchie abitazioni civili per ingrandire la zona. In questo spazio nel 1876 fu realizzata la Villa del Popolo, una piccola oasi verde destinata ai ceti popolari. Voluta dal sindaco Gennaro Sambiase Sanseverino duca di San Donato, fu inaugurata un anno dopo.

Al suo interno fu posta la fontana del Gigante, poi spostata a Santa Lucia, quando la Villa fu smantellata per dare posto alle rotaie per i treni che collegavano la stazione col porto, posizionate nel 1889 («Rivista d’epoca», 1898).

L’ultima parte del porto, il molo Beverello (detto così per le numerose fonti d’acqua) con i giardini del Molosiglio (dallo spagnolo molo sencillo), è un piccolo approdo al confine con Santa Lucia, sito nella parte inferiore del Palazzo Reale, usato da re Ferdinando quando scendeva a “natare” (nuotare) o a pescare (Sirago, 2023). Oggi ospita il “Circolo Canottieri Napoli” e la Lega Navale. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025 
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Maria Sirago, dal 1988 è stata insegnante di italiano e latino presso il Liceo Classico Jacopo Sannazaro di Napoli. Dal primo settembre 2017 è in pensione. Affiliazione: Nav Lab (Laboratorio di Storia Marittima e Navale), Genova. Membro della Società Italiana degli Storici dell’Economia, della Società Italiana degli Storici, della Società Napoletana di Storia Patria, Napoli, della Società Italiana di Storia Militare. Ha scritto alcuni saggi e numerosi lavori sulla storia marittima del regno meridionale in età moderna. Tra gli ultimi suoi studi si segnalano: La scoperta del mare. La nascita e lo sviluppo della balneazione a Napoli e nel suo golfo tra ‘800 e ‘900, edizioni Intra Moenia, Napoli, 2013; Gente di mare Storia della pesca sulle coste campane, edizioni Intra Moenia, Napoli, 2014; Il mare in festa Musica balli e cibi nella Napoli viceregnale (1503-1734), Kinetés edizioni, Benevento, 2022.

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