di Annalisa Di Nuzzo
Una complessa definizione tra passato e presente
Napoli è un universo ambivalente e contraddittorio, città soglia tra diverse culture, cuore di Mediterraneo, crocevia di incontri/scontri. Benjamin la definì una grande spugna mediterranea, città porosa, protagonista tra utopie, biografie eroiche, rivoluzioni e restaurazioni, cadute e rinascite. Si è offerta allo sguardo di molti che l’hanno attraversata, vissuta, studiata, respirata, guidata: filosofi, viaggiatori, intellettuali, narratori, fino ai politici contemporanei.
Molti dunque i modi di interpretarla, definirla, comprenderla; io stessa continuo a guardarla e a studiarla da diversi decenni e in queste pagine cerco di darne un’immagine che attraversa passato e presente; una sorta di etnografia longitudinale che utilizza diversi approcci: dal testo filosofico alla letteratura, alla ricerca sul campo, dando vita alle complesse interpretazioni della vita delle diverse Napoli che in questo percorso hanno un unico filo comune: l’ambivalenza di una città virtuosa o dannata, di una comunità politica tra utopia, distopia ed eterotopia.
Pasolini ha sostenuto che i napoletani non cambieranno mai, nonostante le ininterrotte contaminazioni che hanno respirato nel corso del tempo. Se questa riflessione ha una significativa aderenza per ritrovare il fondamento di questa unicità, ha anche, paradossalmente, dato vita a luoghi comuni, stereotipizzazioni che continuano ad essere molto diffusi e invasivi. A voler ritrovare il filo antico di queste definizioni e descrizioni della città, ho scelto due istantanee che offrono una singolare etnografia attraverso registri linguistici ed epistemologici apparentemente lontani ma che affondano nelle antiche radici della città e restituiscono la sua profonda ambivalenza tra utopia ed eterotopia, fino ad includere una esperienza di concreta conduzione politica, osservata attraverso la ricerca sul campo, per poter definire quella “Rinascenza napoletana” che, negli anni Novanta del secolo scorso, ha segnato un momento di discontinuità seppure ancora una volta caratterizzato da profonde contraddizioni.
Due testi filosofici rappresentano fin dal genere letterario scelto dagli autori, il segno di una osservazione/descrizione della città radicalmente diversa e tuttavia congruente. Mi riferisco alla Napoli di Giordano Bruno descritta nella commedia filosofica Il Candelaio e la Napoli del dialogo utopico–filosofico della Città del sole di Campanella. Ciascuno racconta il suo punto di vista a partire dalla sua Napoli, dai suoi vissuti e dal suo modo di essere filosofo e persona. La loro biografia racconta di come siano stati fuggitivi e blasfemi, visionari e maghi, messi sotto accusa, arrestati, processati per le loro idee anche e soprattutto politiche.
Siamo nella seconda metà del Cinquecento, Napoli è una delle più popolose città dell’Europa, entrambi le riconoscono un ruolo di primo piano negli equilibri politici del tempo. Una città in bilico tra utopie, palingenesi, violente rivolte. La Napoli descritta da Giordano Bruno nel Candelaio è notturna, dionisiaca, il filosofo nolano dimostra che il teatro può essere filosofia, e la vita pulsante diventa la scena della rappresentazione rimescolando i piani anche attraverso espedienti teatrali di coinvolgimento del pubblico, una sorta di rappresentazione nella rappresentazione. Il dionisiaco che emerge non è oscenità e disordine. Bruno stesso si presenta e si racconta nel prologo per poter chiarire attraverso il teatro ciò che non è riuscito a descrivere nei suoi saggi filosofici: un mondo rovesciato ma realistico fino ad essere identificabile in una forma di eterotopia.
Così come ne Il Candelaio le eterotopie inquietano, perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni, perché devastano anzi tempo la «sintassi» e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma quella meno manifesta che fa «tenere insieme» le parole e le cose. È per questo che le utopie consentono le favole e i discorsi: si collocano nel rettifilo del linguaggio, nella dimensione fondamentale della fabula; le eterotopie (come quelle che troviamo nel Candelaio) inaridiscono il discorso, bloccano le parole su se stesse, contestano, fin dalla sua radice, ogni possibilità di grammatica, dipanano i miti e rendono sterile il lirismo delle frasi. Una eterotopia dunque che si esprime anche e soprattutto in una parola ostica.
La cruda, complessa, difficile parola di Bruno ci racconta di una Napoli nella sua brutalità e nel suo realismo ai limiti dell’oscenità e del turpiloquio; di una città che contiene l’universo dei sentimenti e delle contraddizioni, fino ad identificarla con se stesso, con quella inquietudine continua che lo accompagnerà per tutta la vita oltre ogni limite. Descrive i luoghi in cui vive alla sua maniera, la città riflette il disordine della realtà ma anche la ricerca di un ordine superiore intellettivo e irraggiungibile. Quando scrive Il Candelaio Bruno sa che forse non sarà mai rappresentata, eppure è prodigo di espedienti teatrali: c’è un anti prologo, un prologo, e luoghi e situazioni che aveva conosciuto e vissuto profondamente. Così scrive nell’anti prologo:
«A me è stato commesso il prologo; vi giuro ch’è tanto intricato ed indiavolato, che son quattro giorni che vi ho sudato sopra, e dì e notte, che non bastano tutti i trombetti e tamburi delle muse puttane d’Elicona a ficcarmene una pagliuca dentro la memoria. Or va’ e fa il prologo:
L’autore, si voi lo conoscete, dirreste ch’ave una fisionomia smarrita: par che sii sempre in contemplazione delle pene dell’inferno, par sii stato alla pressa come le barrette: un che ride sol per far comme fan gli altri: per il più lo vedrete fastidito, restio e bizzarro: non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio d’ottantanni…».
E ancora
«Signori la commedia sarrà senza prologo: … questa è una specie di tela, ch’ha ordimento e tessitura insieme: chi la può capir, la capisca, chi la vuol intendere, l’intenda. Ma non lascerò per questo di avertirvi che dovete pensare di essere nella regalissima città di Napoli, vicino al seggio di Nilo. Questa casa che vedete qua formata, per questa notte servirrà per certi barri (bricconi), furbi e mariuoli – guardatevi, pur voi, che non vi faccian mancare di qualcosa che portate adosso – qua costoro stenderanno le loro reti …. Vedrete ancora la prosopopea e maestà d’un omo masculini generis, un instauratore di quel latino antico, un emulatore di Demostene, un approvatore di epigrammi greci, latini, ebrei, italiani, francesi, spagnoli, un che mastica dottrina, sputa sentenze… vedrete ancora in confuso tratti di marioli, stratagemmi di birbanti, imprese di furfanti, piaceri amari, determinazione folle, giudizi grandi e gravi in fatti altrui, poco sentimento nei propi, femmine virili, effeminati maschii, chi più di tutti crede, più si inganna. In conclusione, vedrete in tutto non essere cosa di sicuro, ma assai negocio, difetto a bastanza, poco di bello, e nulla di buono» [1].
Il ritmo incalzante delle parole, intersecano descrizioni della caleidoscopica umanità che abita Napoli e i diversi luoghi del centro della città. Primo tra tutti c’è Piazzetta Nilo dove è presente la statua del Cuorp ‘e Napoli, vero simbolo delle diverse anime della città che vengono descritte ed elencate fino a dare il senso della sua ipertrofia ambivalente e fluida in cui c’è tutto e il contrario di tutto, quel caos potente e tuttavia paradossalmente ordinato. E ancora Palazzo Pignatelli di Toritto, sede del seggio di Nilo ma ci sono anche i luoghi fuori Napoli come Posillipo, Pomigliano d’Arco. A Santa Maria la Nova viene descritta l’osteria del Cerriglio, frequentatissima da molti altri intellettuali, in particolare Caravaggio subirà un’aggressione e fu sfregiato. Sembra una etnografia popolare quella di Bruno, in termini di geografie legate ai postriboli e alle potenti contraddizioni e ai contrasti che regolano la vita: ordine/disordine, sacro/profano, lecito/illecito. L’eterotopia è definita, Napoli ne è la concreta manifestazione.
Tuttavia specularmente quella stessa Napoli diventa parte dell’Utopia politica che Campanella scrive quasi nello stesso momento. Il frate domenicano è alla ricerca per tutta la sua vita di una soluzione politica da realizzare, si sente investito da una missione politica da compiere, ne vive le trame, ne ordina gli elementi, riflette sulle categorie dell’utopia e su tutto ancora Napoli. Una vita eroica secondo alcuni o un uomo machiavellico, libertino e cospiratore, per altri, cattolico medievalizzante, utopista o teocratico, filospagnolo o filofrancese, in ogni caso insofferente verso il disordine del mondo e alla ricerca di una forma politica giusta.
La città del sole è utopica ma concreta e Campanella la descrive nelle sue diverse attività in cui esiste: comunismo, educazione, divisione del lavoro senza escludere una precisa e attenta analisi della città di Napoli, dei suoi limiti e delle sue debolezze sociopolitiche. Un’etnografia che ci riconduce alle stereotipizzazioni ma anche ad un ineccepibile analisi della città. La composizione di questo dialogo utopico scritto in italiano è strettamente legata al suo desiderio di fondare uno Stato nuovo e giusto. Il viaggiatore genovese naufragato e il cavaliere dell’ordine di Malta si confrontano su tutti i temi di una organizzazione politica. Così il dialogo:
Ospitalario: Or dimmi delle attività e dell’educazione e del modo come si vive.
Genovese: Io non so disputare, ma ti dico c’hanno tanto amore alla patria loro, che è una cosa stupenda, …perché è bello a vedere, che tra di loro non ponno donarsi cosa alcuna, perché tutto hanno del commune . E l’amico si conosce tra di loro nelle guerre, nell’infirmità, nelle scienze, dove studiano e s’insegnano l’un l’altro. E tutti li giovani s’appellan fratelli, e quei che son quindici anni più di loro, padri, e quindici meno, figli. E poi vi stanno l’officiali a tutte cose attenti, che nessuno possa all’altro far torto nella fratellanza… la superbia è tenuta in gran peccato onde nessuno reputa viltà servire in mensa, in cucina o altrove, ma lo chiamano imparare, e dicono che è onore al piede camminare, come all’occhio guardare; onde chi è deputato a qualche attività, lo fa come cosa onoratissima, e non tengono schiavi, perché essi bastano a se stessi. Ma noi non così, perché in Napoli son da trecento mila anime, e non faticano che cinquantamila; e questi patiscono fatica assai e si struggono; e l’oziosi si perdono anche per l’ozio, avarizia, lascivia e usura, e guastano molta gente, tenendoli in servitù e povertà, o facendoli partecipi dei loro vizi, talché manca il servizio pubblico, e non si può il campo, la milizia o l’arte fare, se non male e con stento. Ma invece tra loro, ripartendosi le attività a tutti e le arti e fatiche, non tocca faticare che quattro ore il giorno per uno; così ben tutto il resto è imparare giocando, disputando, leggendo, insegnando, camminando, e sempre con gaudio» [2].
Il desiderio di Tommaso di costruire una città vivibile muove dall’analisi della mancata distribuzione del lavoro, della forte presenza della violenza e dell’arroganza e dunque della necessità di avviare una palingenesi che resterà una costante a distanza di secoli dell’utopia politica, come vedremo in seguito. L’educazione dei giovani, la ritrovata collaborazione della comunità sociale per realizzare un progetto comune che includa soprattutto chi guida e governa, sono gli elementi di una rinascita di cui la città di Napoli deve essere protagonista. Nel corso dei secoli successivi violente rivolte, cruente rivoluzioni, silenziose e disperate acquiescenze hanno di volta in volta ripresentato questo scenario. Lo stesso Novecento ne è una testimonianza pregnante ed è da questo che riparto per le riflessioni successive.
La Rinascita nella contemporaneità
Nel 1994 durante le celebrazioni della rivoluzione napoletana del 1799, si dichiarava da più parti che la terza rinascita napoletana era ormai cominciata. La città era proiettata verso il pieno recupero di se stessa, della sua identità, così com’era accaduto dopo il ‘99 e dopo il ‘45. La giunta Bassolino, insediata da pochi mesi, aveva avviato un mutamento per molti versi inatteso.
Bassolino presto diventa ad un tempo simbolo e artefice della nuova immagine della città. Dimensione utopica e azione politica costituiscono i due cardini fondamentali della definizione della rinascenza, ma è sul primo di questi cardini che vorrei proporre una mia riflessione, seppure non può essere disgiunto l’altro che costituisce il limite e l’esaltazione del politico. Nell’esaminare i discorsi, le linee programmatiche del suo governo per la città, il materiale elettorale, le lettere, cercherò di definire lo spazio utopico della Napoli bassoliniana, il suo rapporto con le utopie cittadine dell’età moderna ma soprattutto della post-modernità, insieme con la tradizione popolare napoletana che crea eroi, re, santi e capipopolo.
Questa dimensione possiede un tratto emergente costituito dal continuo ed estenuante misurarsi di una doppia tensione del reale (essere) e del suo superamento (dover essere) che definisce lo spazio utopico in una immagine assoluta sospesa tra ideologia, sogno ed azione politica. Così si delinea il “sogno” di Antonio Bassolino, che si plasma e si trasmette ai napoletani e al mondo rendendosi tangibile e virtuale allo stesso tempo.
Ciò che conta ai fini della mia analisi esula da una valutazione da politologi, ma esplora un immaginario che è stato condiviso e che ha svolto un ruolo decisivo nella rifondazione/cambiamento della città seppure temporaneo. Si coniugano topoi dell’Utopia filosofica come quella campanelliana e topoi appartenenti alla tradizione della cultura popolare che a Napoli hanno caratteristiche peculiari e che Bassolino ha attraversato e interpretato con una sua originalità. Ha utilizzato parole pre-potenti nella loro semplicità che implicavano un altrove utopico e hanno avuto sufficiente autorità seppure non radicate in sistemi filosofici fortemente ideologizzanti, ma aventi la forza di rendere percepibile come vero un altrove immaginario.
Così il mito della rifondazione è il primo grande elemento utopico. Tutte le utopie politiche partono da una scoperta o fondazione di un nuovo luogo, incontaminato o che ha bisogno di de-contaminarsi, attraverso un preciso e drastico rito a cui tutti gli abitanti sono tenuti a partecipare sotto il controllo di una rigorosa ed autorevole guida, così la Napoli bassoliniana deve dare il senso di questo rito ed identificarlo attraverso tempi e luoghi. Il proclama dei cento giorni è il simbolo di questa sintesi.
Le diverse Napoli da inventare e ritrovare
Nel discorso di insediamento tenuto dal Sindaco nel 1993 emergono la prime grandi metafore delle Napoli da ritrovare. Un primo elemento è il riferimento alla normalità. La Napoli della normalità in contrapposizione ad uno stereotipo consolidato, ossia la città del disordine, dell’emergenza, della tumultuosa ordinarietà, che configurava una capacità di invenzione o presunta creatività. La normalità nel sogno bassoliniano riaccende il desiderio di una palingenesi, di una rifondazione per questi nuovi cittadini: il ritrovare regole certe e ripristinarle nella quotidianità come una burocrazia efficiente ed ordinata attraverso una dimensione di serenità ed equilibrio.
Ma il sogno della normalità si dilata, diventa progetto organico e forse per molti irrealizzabile, come per gli indirizzi urbanistici del discorso.
«Prendere il sole su di una spiaggia che per quasi un secolo è stata all’ombra delle ciminiere, passeggiare in un grande parco che confina con la spiaggia, lavorare in aziende non inquinanti; ed ancora, scendere al mare senza sbattere contro muraglie e cancelli, stare nel centro storico ma non sentirsi condannati al degrado, usare mezzi pubblici su ferro come succede a Parigi o ad Hannover, vivere in condizioni ordinarie di normalità» [3],
tutto questo suonava come una vera rivoluzione, facendo acquisire alla normalità, che nel linguaggio corrente non assume spessore epico, il valore della battaglia per la conquista di un’isola felice per tutti i napoletani.
Nel richiamo alla Napoli della Legalità si doveva invertire lo stereotipo della capitale dell’illegalità e del malaffare ed è questa l’immagine che è continuamente segnalata nel discorso ma più ancora nelle dichiarazioni ai giornali, nelle interviste televisive e nei discorsi pubblici. Legalità intesa come grande contenitore della possibilità di identificare il sapere inteso come tecné politiché ed etica, possibilità di conciliare l’aporia tra la forma Stato come efficienza organizzativa e la forma progetto nella dimensione, più altamente etica, del bene supremo.
«Da questo bisogna partire per un pieno rispetto della legalità. Deve partire un processo che favorisca una nuova legalità. Efficienza, efficacia, trasparenza amministrativa, rispetto dei diritti devono caratterizzare il nuovo rapporto tra cittadini e Comune, tra rappresentanti e rappresentati…deve riconoscersi al cittadino il ruolo di protagonista delle scelte che vengono compiute»[4].
Tra rappresentanti e rappresentati, dunque, si compie la mitica sinergia che produce e riconosce il bene comune, il richiamo ad altre utopie politiche è presente nella formazione di Bassolino, la sua matrice marxista, il sogno della partecipazione, dell’egualitarismo e della giustizia sociale. Il suo sogno stinge le connotazioni del marxismo operaistico ed egualitario per assumere i toni più pacati e più pragmatici della post-modernità, dell’utopia democratico-liberale di matrice anche americana, senza perdere di vista la giustizia sociale. Giustizia giusta e trasparenza che rende spesso rigorosa, talvolta rigida, l’azione politico-amministrativa, ma che continua a delineare l’immagine di una guida sicura ed inflessibile, nell’immaginario popolare il re buono che tutto controlla e che non assolve nessuno.
Un episodio emblematico è quello della negazione di un permesso di costruire in una scuola del centro, entro un cortile interno, una serra, semplicemente perché gli indirizzi urbanistici vietavano qualsiasi tipo di intervento in tal senso. I bambini si recarono a manifestare sotto le finestre di palazzo S. Giacomo e quella Napoli dei bambini, di cui Bassolino aveva più volte parlato e scritto, sembrò, nei fatti, negata. Ma le regole e la trasparenza dell’azione politica, il senso del progetto generale (forma progetto), la politica non come risposta immediata, ma come realizzazione di ampio respiro, sembrava realizzarsi.
La Napoli dei bambini resta fortemente presente nei discorsi bassoliniani, rafforzando la dimensione utopica di un futuro certo giusto, affidato alle nuove generazioni allevate in armonia con le nuove regole della Città.
«Una scuola che diventi luogo di aggregazione e di riferimento delle giovani generazioni, una Casa della Cultura, aperta in ogni quartiere. Dentro la scuola che deve diventare una Comunità educante, i bambini di Napoli debbono trovare l’ambiente e le possibilità per diventare tutti dei cittadini a pieno titolo» [5].
Dalle case del popolo marxiste alla paideia della Repubblica platonica, alla Città del sole campanelliana, c’è in ogni sogno politico la trasmissione del sapere, attraverso un preciso progetto pedagogico, che dovrà poi identificarsi con il potere politico e radicarsi in esso, armonizzarsi nell’orizzonte etico. Per fare ciò occorre che tutti obbediscano al progetto. Se Sapere e Potere potessero coincidere nel segno della Tecnica, avremmo lo Stato perfetto, questo è il programma e il fine che la forma utopica consegna alla modernità e che Bassolino interiorizza. Si circonda di tecnici, di personalità sganciate dai partiti, inimicandosi spesso i suoi stessi alleati: Napoli come capitale della competenza, della ricerca, della cultura, come le grandi città europee, in particolare pensa a Barcellona.
Il centro storico diventa allora il Luogo attraverso il quale nei cento giorni a disposizione, si manifesta il sogno della rinascita. Simbolo di quest’indirizzo è ormai unanimemente percepita Piazza del Plebiscito; liberata dai parcheggi diventerà spazio aperto ad un utilizzo polifunzionale, luogo di aggregazione civica, museo all’aperto, arena per grandi eventi musicali, per i giochi della tradizione popolare. Così come deve essere tutta la città della post-modernità, policentrica, senza una sola identità asfittica e paralizzante, deve coniugare più anime che sono il segno della complessità. «Come ogni città europea, Napoli non può che essere una realtà complessa: industriale, terziaria, d’arte e turistica»[6].
Ma è su Bagnoli che il suo progetto politico subisce una trasformazione radicale, in considerazione della sua formazione marxista, e che tuttavia ripropone la profonda e insanabile frattura tra realtà e ambiguità dell’utopia. Qui il politico-centauro misura la sua solitudine e la sua difficoltà a trasmettere il sogno, qui lo spazio utopico diventa frattura tra finito ed infinito. La prima decisione in controtendenza è quella di non sottoscrivere il piano di reinvestimenti industriali per Bagnoli, per la difesa dei posti di lavoro; un uomo che aveva condiviso gran parte delle lotte operaie della città, assume su di sé il peso di una decisione apparentemente impopolare, difendibile solo dai ceti più abbienti.
L’urbanistica e l’arte della realizzazione di un sogno
L’approvazione della Variante di salvaguardia, lo strumento immediato. Il sogno ha un artefice e la determinazione impopolare bassoliniana si concretizza. L’utopia della post-modernità da potenzialità diventa azione politica suffragata da un ideale. Tuttavia, operare significa irrimediabilmente ed intrinsecamente diventare altro da sé. Il discorso su Bagnoli diventa arduo, difficile, pieno d’insidie, l’azione politica libera forze estranee al soggetto e sulle quali si può ben poco. La città felice ed efficiente deve dare
«la priorità sostanziale negli interventi di riqualificazione urbana alle periferie, là si concentra il disagio sociale, è là che si giocano le partite decisive….è nel contesto della riqualificazione delle periferie ad est e ad ovest che vanno collocate le scelte per il recupero urbano delle aree industriali dismesse o da dismettere…La riorganizzazione dei tessuti urbani e la riconfigurazione delle residenze deve accompagnarsi contestualmente all’introduzione di attività economiche, di funzioni urbane e di componenti sociali diversificate ed integrate»[7].
Queste nuove funzioni urbane sono anche e principalmente la Napoli dei Parchi scientifici, centro e periferia si coniugano, la città del Sapere è trasversale ed è condivisibile e produttrice di benessere e di attività compatibili con l’ambiente. La città del Sole ritorna ad essere tale anche nelle zone degradate, la spiaggia di Coroglio ridiventa un litorale balneabile; ricerca scientifica, vivibilità, rispetto dell’ambiente danno spazio anche alla città dei lavori, della telecomunicazione, della telematica. Il centauro e il politico sembrano riavvicinarsi. Le Napoli da ridefinire si moltiplicano. Il mare bagna Napoli e diventa percepibile ai suoi abitanti, così come alla burocrazia dell’efficienza di Bassolino, tanto da istituire un assessorato al mare.
Etica della Responsabilità e Etica della Convinzione rafforzano il sogno ma non lo realizzano interamente. Dopo quattro anni Bassolino parla e scrive, evocando testardamente il suo sogno, a testa bassa, oltre le critiche e i primi scollamenti del suo elettorato che non gli perdona quello iato incolmabile tra teoria e prassi. Il programma dei cento giorni diventa dei Cento fatti, l’appello diventa inevitabilmente esaltazione di sé, del suo operato, della capacità di aver sprigionato energie poderose.
«Oggi abbiamo ritrovato la dignità pubblica, il coraggio civile, l’orgoglio della nostra identità. Napoli è tornata ad essere, in Italia e nel mondo, una città da visitare, vivere, amare…Per raggiungere la meta, Napoli ha bisogno di te. Dobbiamo tutti rimboccarci le maniche, metterci insieme in viaggio. Il viaggio non sarà facile. Ma, per chi crede in quello che fa, il viaggio è già la meta».
Al di là della propaganda (appello di stampo americano Napoli ha bisogno di te), si avverte la consapevolezza di un ritardo, di un inevitabile logoramento, di essere stato capace di invertire uno stereotipo in una immagine che deve essere ancora consolidata in profondità; così tutto il Programma politico, presentato nel 1997, si delinea attraverso questa ambiguità utopica che comincia a diventare inefficace. La Napoli onesta deve diventare la Città dei Lavori, della giustizia sociale ma è quella ancora da realizzare, ciò che è stato de-finito è stato in gran parte la virtualità di una immagine veicolata attraverso una interpretazione di più ruoli sovrapposti da parte di un attore d’eccezione.
Il Sindaco di tutti i napoletani, il principe, il capo popolo, l’imperatore insonne, l’ultimo eroe
Il sogno si insinua nelle parole, nei gesti, nelle tecniche di accondiscendenza che rendono possibile la condivisione del sogno diventato di molti napoletani. Le prime dichiarazioni rese ai giornali da Bassolino sono tutte contrassegnate da una breve premessa, il voler essere: Il sindaco di tutti i napoletani. Il richiamo è a tutte le città utopiche che vivono senza fratture e sono armonicamente guidate per tentare di definire e soprattutto di comunicare di poter interpretare al meglio un capo saggio e sensibile, attento a tutte le esigenze del suo “popolo”. Per trasmettere questo, Bassolino evocherà figure simboliche, riti, gesti che lo renderanno parte di quel sogno di rigenerazione della città, trasformandolo in icona del possibile cambiamento.
L’ 8 dicembre del 1993, il primo giorno da sindaco, è il primo esempio di questa sua capacità di coinvolgimento dei napoletani. Bassolino sale con la scala dei vigili del fuoco sulla sommità dell’obelisco di piazza del Gesù, alto 40 metri, per deporre la corona di fiori in occasione della festa religiosa dell’Immacolata. In questo gesto si condensano elementi vecchi e nuovi della più radicata cultura della città. La storia di Napoli ha più volte ribadito che l’unanimità e la forte condivisione ad un progetto politico passano attraverso la contaminazione dei riti popolari con quelli più squisitamente teoretico-filosofici della razionalità borghese; così sfila nella processione per San Gennaro ed è in chiesa per partecipare alla veglia che precede il miracolo, quasi a voler sancire la legittimazione religiosa del suo operato. Tant’è che il cardinale Giordano invita tutti i cattolici della città ad “aiutare il Sindaco” nel difficile lavoro di restituire alla città la sua dignità.
La lezione di Championnet è istintivamente condivisa da Bassolino: il generale francese, entrando a Napoli nel 1799, aveva reso omaggio a S. Gennaro ricevendo in cambio una grande disponibilità da parte dei lazzari a condividere la sua idea di uguaglianza e libertà. Tanto da essere assimilato, napoletanizzato, adottato dalla stessa plebe e riconosciuto come capo indiscusso. Meccanismi di comunicazione che gli consentono di elevare il grado di unanimità di valori e credenze condivise; come un predicatore popolare riesce a calarsi senza sforzo dentro gli schemi della cultura popolare, a veicolare un istrionismo verbale e gestuale, un’ironia dissacrante.
In una conferenza stampa risponde ad un giornalista che gli chiede più volte risposte sul caos derivato dal nuovo piano alla viabilità: «sto buttando il sangue pure io», con l’immediatezza di chi riesce a comunicare di che lacrime grondi e di che sangue il progetto di tracciare il disegno di una organizzazione sociale e politica in grado di soddisfare tutte le esigenze poste dalle necessità della vita.
In quest’ottica il suo sogno è paradossalmente realistico e vicino a tutti. Così riesce ad essere sempre presente in tutte le iniziative della città e dovunque consegue un successo immediato. Ad un convegno nazionale del C.I.D.I. (insegnanti democratici), tenutosi nel 1995, il discorso inaugurale diventa un’ovazione da parte della platea in piedi con un applauso di circa 15 minuti. La classe media intellettuale lo identifica allo stesso modo dei devoti di piazza del Gesù, come il principe garante dell’idealità e del sapere gestito attraverso il potere percepibile epidermicamente da parte di tutti quelli presenti. Sfoggia disinvoltura e capacità mediatiche nei grandi concerti di Piazza Plebiscito, duetta abilmente con Pino Daniele sul palco. Viene assunto come icona sacralizzata nel presepe, tra i pastori di S. Gregorio Armeno, attraverso la tradizionale commistione di sacro e profano della cultura popolare, insieme a Totò ed Eduardo.
Così il sindaco di tutti i napoletani incarna il sogno. Il sottoproletariato che ha una “intimità” [8] antica con il potere del re buono e santo, affrontato in maniera personale, con venature profonde di egualitarismo anarcoide, lo assume nel suo orizzonte mitico, ma gli stessi moderati della post-modernità, che colgono nell’efficienza e nella tecnica razionalistica e utopisticamente neutra il segno della realizzazione dello Stato, lo ritengono unico depositario del cambiamento. La sua candidatura era apparsa impraticabile perché lontana da quella borghesia moderata che era intimorita dalle radici comuniste e comunque estranee alle grandi famiglie della Napoli che conta; ma la singolare “fraternizzazione” tra la borghesia illuminata e il sottoproletariato sedimentata da tempo nella città, avrebbe fatto la differenza e creato una diffusa base al consenso.
Bassolino assume su di sé (almeno per una breve stagione) il ruolo salvifico delle guide utopiche e ne resta vittima proiettando ulteriori immagini del suo ruolo: decisionismo, caparbietà, bonapartismo sono ulteriori ingredienti del suo sogno; ascolta i suoi collaboratori, ma come l’imperatore insonne, figura mitico-religiosa, sembra poter controllare ogni aspetto della macchina statale e ogni iniziativa della città. Il sogno bassoliniano soddisfa non solo quell’esigenza di utopia quale modello costruito dalla ragione che nasce dalla convinzione che si possono risolvere i problemi del presente storico solo mediante un’azione rigorosa di pianificazione, ma anche il bisogno atavico di difendersi dall’anarchia, di sopprimere il caos e di strutturare un ordine capace di assicurare pace e tranquillità. E così ‘o sindaco quando si ricandida per un secondo mandato ottiene la percentuale bulgara del 73 % dando una concreta illusione di incarnare il sogno.
L’utopia post-moderna non può però più contemplare un dato fondamentale della tradizione utopica, ossia l’assenza di mutamento della struttura sociale. Le nuove città utopiche sono guidate da quell’ “ultimo eroe” che, consapevole dell’arcipelago quale nuova topografia dell’altrove, non costruisce alte mura di fortificazione a difesa dell’isola ma mantiene un continuo contatto tra le isole divenute penisole dell’arcipelago. Un eroe guida che non ritiene di poter risolvere la contraddizione weberiana tra etica della Responsabilità ed etica della Convinzione, ma colui che
«più consapevolmente la patisce, colui che esperimenta costantemente come le proprie speranze naufraghino contro l’inerzia della “macchina”, e ad un tempo sa che nessuna sua speranza potrà mai più realizzarsi se non attraverso l’operare senz’anima…reggere anche di fronte all’estremo fallimento, eppure giocare tutto se stesso sul piano dell’effettualità….Il politico deve tentare e ritentare di realizzare l’impossibile, e il non riuscirci è per esso fallimento e sconfitta soltanto» [9].
L’Utopia critica [10] diventa una possibile strada per ripensare l’utopia nella post- modernità, densa anche di inevitabili crepe ed ambiguità con connotazioni diverse, apparentemente contrastanti con i significati consolidati, così come necessariamente avviene all’interno di ogni epoca.
Sogno, utopia critica, azione politica. L’eredità di Bassolino
Negli ultimi cinquant’anni due stagioni politiche, fortemente distinte hanno caratterizzato una diversa percezione della possibilità dell’Utopia: una stagione “calda” ed una “fredda”, entrambe fortemente presenti nella storia politica di Bassolino. Gli anni sessanta, caratterizzati da una rinascita e rivalutazione del pensiero libertario utopico, di cui la gioventù si sentiva unica depositaria e ne ridefiniva i luoghi e i tempi (il ‘67 nelle università americane e poi il ‘68 in Europa). Volontà di rottura, esplosione, lacerazione dell’ordine prestabilito. Il secondo momento è segnato dagli anni del terrorismo e dalla caduta del muro di Berlino.
Bassolino vive questi due momenti che continuano a coesistere nel sogno. Ora si può sognare con la consapevolezza che realtà e sogno si contaminano a vicenda, che l’alterità non deve essere esclusa dall’isola di Utopia, che il limite dell’azione politica e della fattualità sono il supporto necessario per continuare a sognare. Bassolino riesce a condividere con lucida schizofrenia i due momenti. La procedura politica per realizzare la trasformazione di Bagnoli non è quella per Napoli est. Coniuga la prassi rigorosa delle conferenze di servizio, strumento efficace per dare respiro ad una burocrazia efficiente e consapevole dei suoi strumenti di organizzazione della cosa pubblica in una città dove la burocrazia era da sempre parassita e poco incline alla gestione, insieme al patrocinio per il restauro della statua d’ Cuorp’ e’ Napoli, mitica identificazione della voce del popolo di Napoli.
Il sogno è dunque ciò che altrove è normale procedura della cosa pubblica, è governare il caos per una città che per secoli è stata nell’immaginario collettivo il caos. Gli immaginari consolidati da efficaci metafore sono tanti: la Calcutta d’Europa, “un monumentale parassita”. Dagli anni cinquanta agli anni ottanta le metafore si moltiplicano, consolidando una percezione della città come Città mostruosa, teatro di miseria profonda e diffusa quanto aneddotica. I titoli giornalistici di quegli anni possono riassumersi in Napoli: un morto al giorno, Città-vicoli-eroina. La città camorra.
L’utopia bassoliniana li ha invertiti, determinando quella frattura decisa che è il segno di ogni utopia, costruendo l’immagine di quella Napoli della legalità, dell’efficienza, capitale della cultura e dell’arte, di quello che in altre città è stato solo programma politico, assumendo, qui, lo spessore ingombrante ed esaltante di un sogno che continua ma che non si realizzerà.
Da qualche anno si fa strada la definizione, in verità già logora e abusata, di Napoli come città complessa, ove la Babele dei segni e la varia congestione /commistione funzionale, possano essere considerati risorse oltre che vincoli. Bassolino ha tentato di coniugare in questo luogo doppio il valore di questa ambivalenza, anche se non sempre l’ha poi condivisa come valore, ma piuttosto come necessità per regolamentare il caos che non ha dato i risultati sperati.
L’eredità che ha lasciato è ambigua, a tratti ingombrante come il suo sogno. Uomo legato alla tradizione popolare ed operaia non incline al populismo, tuttavia ne ha respirato le dinamiche, si è avvicinato pericolosamente ad esso, ne ha condiviso in parte i suoi umori, anche se è riuscito, a tratti, a veicolare significativi valori che sono stati accolti attraverso la sua mediazione, ma non consapevolmente interiorizzati.
La città continua ad essere commistione di età, epoche, classi, miti. È sconcertante come l’eroe politico della post-modernità ha lasciato aperto il segno della possibilità del sogno ma ha anche dato la disillusione di esso, così che può essere definito come colui che dovrebbe coniugare ancora una volta, come è stato scritto, quel sistema di opposizioni, che fa convivere l’inganno e la frode con lo scambio costruttivo, che vede inadempienti, eppure mai rinnegati, gli impulsi alla socialità, che mescola lo spirito di cooperazione con la pratica della violenza. Tutto ciò che continua ad essere Napoli.
Populismi e distopie l’evanescente rientro in scena
La dimensione utopica più volte inseguita si è ancora una volta infranta rapidamente a partire dalla stessa storia politica di Bassolino. Negli anni successivi non si avvertirà più quella mobilitazione ideale, pur avendo avuto l’opportunità di altri incarichi di governo seguiti da ritorni a Napoli, sia in veste di sindaco che di presidente della regione. L’utopia, la progettualità politica nella post-modernità si interseca indistricabilmente con forme di populismo se non assume addirittura sembianze di forme distopiche o di nuovi totalitarismi. La costruzione del consenso diventa nelle forme politiche della post-modernità un universo de-ideologizzato, biecamente costruito sul momento della comunicazione e del soddisfacimento del contingente ed effimero bisogno; un hic et nunc senza prospettive a lungo termine, una sorta di istantaneo nichilismo politico che risolve emergenze ma che non attinge a prospettive di tempo lungo.
L’ipertrofica rapidità delle labili connessioni e relazioni, e le prospettive catastrofiche assumono sempre più consistenza e alimentano gli scenari distopici. I recenti avvenimenti sia della pandemia che della guerra russo-ucraina sembrano ulteriori tappe di uno scenario apocalittico irreversibile. Il glocale cerca di ritrovare percorsi sedimentati e presunte conferme con ritorni a momenti del recente passato. Bassolino incarna uno di questi ritorni. Uomo del passato, e tuttavia consapevole conoscitore del presente, diventa un evanescente annunciatore del futuro possibile. La decisione di ricandidarsi, dopo undici anni di assenza e a ventidue da quando ha lasciato la poltrona di Sindaco, per le recenti elezioni comunali, appare ancora una volta il sintomo dell’ambivalenza della città e straniante conferma della definizione pasoliniana dei napoletani. Ci riprova fuori dai partiti e dalle coalizioni tradizionali. Sintomo e simbolo della crisi delle appartenenze partitiche. In questo assume la dimensione di uomo del presente ma i topoi a cui si richiama lo riconducono al passato e assumono i toni sfocati di un populismo di buone prassi. Per i suoi sostenitori che forse nostalgicamente evocano quel sogno è l’unico in grado di amministrare una città difficile come Napoli, per i detrattori la sua candidatura è a metà strada tra l’orgogliosa rivincita e la rancorosa vendetta. Queste le parole del suo comizio in Piazza carità a Napoli:
«Da 11 anni non ho alcun incarico, ma mi muovo dentro la città, compagne e compagni, amiche e amici, cittadini di Napoli. La vostra partecipazione dimostra che si è colto il senso di questa iniziativa, un comizio classico, la politica dev’essere fatta di social ma anche di rapporto umano. Così molti di noi abbiamo imparato a fare politica, arte nobile dell’umanità. Da tanto tempo non si faceva un comizio ed è per Napoli che oggi noi siamo qui. Non mi stancherò, so salire, ma soprattutto scendere. Sempre “passo dopo passo”» [11].
In questo incipit tutte le ambivalenze della sua storia personale e della sua città. Lo ascoltano in cinquecento, ripropone il suo motto coniato nel momento iniziale del suo sogno politico, quel passo dopo passo che indicava tenacia e responsabilità, realismo e voglia di cambiare ma quel passo la città non lo riesce a percepire, non aderisce ai bisogni reali insieme a quel suo modo di far coincidere la politica con la vita.
La città e il politico si attraggono e si respingono, dando vita a dinamiche ambivalenti fatte di aspirazioni, desideri, azioni, sogni. Cambiare per entrambi e invertire il loro rapporto è stato un ultimo atto e una nuova sfida. Una dura battaglia contro antiche abitudini, riflessi condizionati, stereotipi, inadempienze.
Resta infine un’ultima riflessione conclusiva sul rapporto tra l’uomo politico e la sua città. Al sindaco di tutti i napoletani dopo un lungo e faticoso travaglio nelle istituzioni, dopo l’assedio ininterrotto del pubblico, restano la solitudine e il silenzio del proprio io privato che non riesce ad intercettare quello che c’è fuori, che non si accorge dei mutamenti radicali intercorsi e di quanto fuori dalla politica ci sia tutto un mondo che ha bisogno delle nostre passioni. Il viaggio dentro se stesso di un uomo controverso a tutt’oggi molto criticato ma anche molto amato, che ha tentato continuamente di dare corpo alle sue utopie politiche, incarna la stessa contraddizione della città che ha guidato e che ha voluto ancora provare a ritrovare e sentire come sua, ma che non era da tempo più in sintonia con il suo sogno politico, orfani entrambi di una rinascenza che Napoli continuerà ad inseguire offrendo la scena ad altri protagonisti.
Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022
Note
[1] G. Bruno, Il Candelaio, (a cura di I. Guerrini Angrisani) Rizzoli, Milano,1976: 50-53
[2] T. Campanella, La città del Sole (a cura di L. Firpo), Laterza Bari, 1997: 23-24
[3] De Lucia, Vezio, Napoli. Cronache urbanistiche 1994-1997, Baldini &Castoldi, Milano, 1998
[4] In Proposta di indirizzi generali di governo-Consiglio comunale di Napoli, Seduta del 16.12. 1993
[5] Ivi: 12
[6] De Lucia, Vezio, cit.: 99
[7] In Proposta di indirizzi generali di governo-Consiglio comunale di Napoli, Seduta del 16.12.1993.
[8] Scafoglio Domenico, Lazzari e Giacobini, Gentile editore, Salerno, 1998
[9] Cacciari Massimo, L’Arcipelago, Adelphi, Milano, 1997: 112
[10] Fortunati Vita, L’ambigua alterità dell’altrove utopico, Per una topografia dell’Altrove, Liguori, Napoli, 1995: 209
[11] Intervista Corriere del Mezzogiorno, di Simona Brandolini, 1 ottobre 2021
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Annalisa Di Nuzzo, docente di Antropologia culturale, insegna Geografia delle lingue e delle migrazioni al Suor Orsola Benincasa; già professore a contratto di Antropologia culturale presso DISUFF Università di Salerno, e membro del Laboratorio antropologico per la comunicazione interculturale della stessa università fino al 2020- Ha conseguito il PhD in Antropologia culturale, processi migratori e diritti umani. È membro dell’Osservatorio Memoria storica, Intercultura, Diritti Umani e Sviluppo Sostenibile “MInDS” Univ. di Cassino, socia del Centro di Ricerca Interuniversitario I_LAND (Identity, Language and Diversity) nonché del Centro Interuniversitario di Studi e ricerche sulla storia delle paste alimentari in Italia (CISPAI). I suoi campi d’indagine sono l’antropologia delle migrazioni e del turismo, antropologia e letteratura, antropologia e genere, antropologia urbana. È autrice di numerose monografie, tra le ultime pubblicazioni si segnalano: Il mare, la torre, le alici: il caso Cetara. Una comunità mediterranea tra ricostruzione della memoria, percorsi migratori e turismo sostenibile, Roma Studium 2014; Fuori da casa. Migrazioni di minori non accompagnati, Carocci, Roma, 2013; Conversioni all’Islam all’ombra del Vesuvio, CISU, Roma, 2020; Minori Migranti. Nuove identità transculturali, Carocci, Roma, 2020.
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