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Narrative del conflitto e conflitto di narrative intorno al pogrom di Hamas e al massacro di Gaza

Università de L'Aquila

Università de L’Aquila (ph. Antonello Ciccozzi)

di Antonello Ciccozzi 

Antefatto

Seguendo gli stessi pattern che si sono diffusi in Occidente a partire dalle proteste nei campus americani, da un paio di settimane anche a L’Aquila, nel parchetto antistante al dipartimento universitario dove lavoro come professore associato di Antropologia culturale, c’è un’accampata di giovani pro-Palestina. C’è anche qualche mio studente, perlopiù si tratta di ragazze e ragazzi della sinistra radicale-arcobaleno, variamente idealista e rivoluzionaria, che orbitano intorno al centro sociale “Casematte” (che frequento da una quindicina di anni, ovvero dalla fondazione, e con cui ho collaborato a diverse iniziative, anche se solitamente non da una postura estremista). Insieme a loro, soprattutto i primi giorni, sono comparsi alcuni giovani arabi a sostegno dell’iniziativa. I presidianti hanno piazzato una decina di tende, qualche bandiera palestinese e degli striscioni. Uno chiede la liberazione della Palestina tutta, insieme a quella di un ragazzo palestinese arrestato in città con l’accusa di collaborare con le Brigate dei martiri di Al-Aqsa per pianificare attentati suicidi [1]; e lo fa a chiosa della sentenza che «la resistenza non è un crimine [ma] il genocidio sì» (in riferimento implicito ma inequivocabile al pogrom del 7 ottobre 2023 messo in atto da Hamas contro Israele da un lato, e al massacro della popolazione civile palestinese conseguente alla reazione israeliana dall’altro). Un altro striscione accusa l’ateneo aquilano di finanziare il genocidio dei palestinesi (a partire dai rapporti con l’azienda produttrice di armi “Leonardo”, presente in città con uno stabilimento).

I manifestanti hanno inviato una severa lettera al Rettore e al Direttore Generale, per «riportare all’interno dell’Università un dibattito serio e profondo sull’orizzonte valoriale che fa da base ad un luogo di cultura come questo», chiedendo che l’Ateneo prenda posizione «contro la guerra e il genocidio in atto ai danni del popolo palestinese», che «recida immediatamente tutti gli accordi universitari con atenei e aziende ubicate in Israele e il boicottaggio totale del sistema accademico israeliano» e che «interrompa i rapporti con la Leonardo, una tra le maggiori aziende di produzione e ricerca in campo bellico, che produce le stesse armi usate dall’IDF nel genocidio palestinese». Il Rettore ha risposto che è falso che l’Università non avrebbe preso posizione, che la posizione è quella della CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università italiane), ovvero di richiesta di «un’immediata cessazione delle ostilità e del rilascio degli ostaggi sequestrati nel corso del disumano attacco del 7 ottobre» [2], che non intende interrompere i rapporti con le università israeliane «perché sono all’insegna del rispetto della ricerca scientifica che garantisce progresso e avanzamenti in vari campi del sapere umano», né quelli di collaborazione con Leonardo S.p.a. in quanto non riguardano  «progetti di ricerca che abbiano applicazioni o finalità militari» [3].

L'Aquila, Tende al campus universitario

L’Aquila, Tende al campus universitario (ph. Antonello Ciccozzi)

Personalmente non ho firmato l’appello proposto dai contestatori, anche se comprendo alcune loro ragioni e le condivido in parte. Nello specifico, pur ritenendo spaventosa la mattanza della popolazione di Gaza, penso che sia parziale e scorretto parlare di “genocidio palestinese”. Infatti, credo che in questa vicenda ci siano due genocidi variamente in potenza, ovvero che si sia di fronte a due diverse pulsioni genocidarie. Questa diversità rimanda prima di tutto a un dislivello facilmente misurabile, di tipo tecnologico, quello inerente alla netta superiorità militare israeliana. Meno facilmente misurabile è il dislivello culturale che, a partire da opposte e complementari concezioni etnico-religiose di diritto al possesso esclusivo del territorio, eleva a valore supremo la cacciata o l’eliminazione del nemico, disponendo quindi alla pulizia etnica o anche al genocidio. Seppure in diverse misure, tale ideale è diffuso sia nel sionismo israeliano che nell’islamismo palestinese e si fonda in entrambi i casi su una concezione religiosa dell’appartenenza, che rimanda a un piano culturale di etnocentrismo e a un piano politico di fascismo, e che è diffusa e in crescita in entrambi i lati degli schieramenti.

Poi mi pare che quello che al momento è inequivocabilmente un massacro della popolazione di Gaza implichi delle responsabilità non solo dell’esercito israeliano ma anche di Hamas. Questo nella misura in cui l’esercito israeliano non si fa scrupoli nel colpire la popolazione civile pur di arrivare ad Hamas, tanto quanto Hamas non si fa scrupoli di farsi scudo della popolazione civile pur di avversare Israele e macchiarlo di efferatezza di fronte all’opinione mondiale [4]. In merito ho ritenuto non condivisibile il fatto che questo appello non abbia menzionato il pogrom del 7 ottobre; e anzi ritengo inaccettabile che – come sta diffusamente avvenendo nel mondo occidentale in simili consessi – gli slogan della protesta lo riducano ed elevino sostanzialmente ad atto di legittima resistenza. D’altra parte, questa chiave di lettura non fa altro che riprodurre pedissequamente quella espressa in ambito woke statunitense (il campo controculturale attualmente egemonico in Occidente), a partire da leader intellettuali progressisti radicali come Judith Butler [5].

In tal senso sono dell’opinione che un pacifismo che si focalizzi solo sulla richiesta a Israele del “cessate il fuoco”, rifiutando al contempo di chiedere ai palestinesi di allontanarsi da Hamas, finisca con il fare indirettamente il gioco di Hamas. Questo a partire dall’elementare considerazione generale per cui, se in un contenzioso si critica solo una parte, ci si dispone come corollario in una relazione di alleanza esclusiva – tanto indiretta, implicita quanto effettiva, funzionale – con la controparte. Per questo direi che i manifestanti prima di chiedersi se l’Università è alleata con il sionismo israeliano, dovrebbero chiedersi se la loro postura non li rende involontari alleati dell’islamismo di Hamas.

Più in generale, in termini di posizionamento, la mia opinione personale riguardo a una possibilità di risoluzione del conflitto è che l’unica via, per quanto difficile e sempre più remota, sia quella iniziale e mai realizzata del “due popoli e due Stati” (ciò a partire dalla mesta constatazione del fatto che i presupposti per cui i due popoli possano convivere democraticamente e nel riconoscimento reciproco in uno Stato laico appaiono ormai ancora più minati della pur impervia soluzione della separazione). Fuori da questa prospettiva – che ora più che mai richiederebbe uno schieramento di forze di pace internazionali e un’opera diplomatica globale concretamente capace di fermare tutti e due i nemici e chi gli briga intorno – vi è solo lo scenario dell’annientamento di una delle due parti in conflitto, o di una guerra eterna che le logorerà entrambi in una relazione sempre più compromessa da reciproci semi dell’odio.

Il tutto all’ombra di un rischio di un contagio bellico, di un’escalation verso una guerra dell’Occidente contro i Paesi dominati dall’Islam politico, che potrebbe diventare anche nucleare. Il tutto nell’orizzonte di rischio globale di un presente finito improvvisamente su un piano inclinato apocalittico, segnato da un dilagare diffuso di invasamento bellico in cui è tornata ad emergere con prepotenza l’idea che la morte per la Patria, per la Terra, per i Confini, per Dio, sia un valore supremo, una condizione sempre e comunque necessaria per una “buona vita”; ciò in un tempo tarato da una nevrosi di massa dove il contagio del furore bellico si diffonde come corsa alla militarizzazione della politica, dell’economia e della società, come emergere di un’estetica e di una cultura della guerra (Ciccozzi 2022).

Comunque, tornando allo specifico dell’accampata, per spiegare la mia posizione ho raccolto un invito a parlare al presidio, e ho tenuto una lezione con dibattito finale sotto gli alberi dell’accampamento il 19 giugno 2024. Riporto qui in seguito la prima parte, variamente rielaborata, dei punti principali di questo mio intervento. 

segnicita-fabrilita-procreazioneRappresentazioni “buone da pensare”

Prima di tutto voglio dire che di fronte alle guerre, come di fronte a qualsiasi altra dinamica conflittuale, si dovrebbe prestare particolare attenzione ai modi cui le rappresentazioni sociali delle ostilità si trasformano in cultura antropologica e finiscono coll’alimentare divisioni meta-tribali del senso comune, col definire e riprodurre i confini valoriali di differenti ambiti culturali separati da diversità di interpretazioni e di obiettivi. Soprattutto ritengo in merito che sia necessario riflettere sulla presenza di due piani narrativi particolarmente problematici. Da un lato si dovrebbe evitare la tentazione dell’apriorismo manicheo dato dal separare sempre e comunque in modo netto e aprioristico buoni e cattivi, oppressi e oppressori, vittime e carnefici. Dall’altro andrebbe evitata l’opposta tentazione a un indeterminismo relativizzante dogmatico, che risolve tutto nell’idea che ci siano ragioni e torti da entrambi i lati, che traduce questa compresenza di crediti e debiti in un’equipollenza totale, per consolarsi nel disimpegno di un “pari e patta”, di un “tutti colpevoli, nessuno colpevole”.

Riprendo in merito a questo una metafora che mi è cara: Cirese (1984: 31) ci diceva che i dislivelli di cultura non stanno «come l’olio sull’acqua». Direi che ciò vale anche per i dislivelli morali: raramente buoni e cattivi sono separati da confini netti, ovvero raramente le rappresentazioni manichee – quelle che separano totalmente il bene dal male – corrispondono alla realtà. Come pure però, all’opposto, raramente il positivo e il negativo sono equamente distribuiti tra le parti, in una emulsione pura e totalmente indifferenziata. I modelli binari dualistico-manichei però funzionano bene, funzionano in quanto sono degli ottimi riduttori di complessità, sono dispositivi che rispondono a un bisogno primordiale di semplificare l’esistenza. Sono «buoni da pensare», per ricordare una fortunata formula che Claude Lévi-Strauss (1964:26) usò nello specifico in opposto al «buono da mangiare». Dicendo “buono da pensare” nel senso più ampio possibile, si può sottolineare che le scelte umane si fanno anche in funzione della capacità degli elementi che si scelgono di rispondere a un bisogno simbolico di ordinamento concettuale della realtà, di confermare strutture di valori, visioni del mondo. Ciò che ci connette a una struttura di senso, a un ambito di valore con cui vogliamo essere connessi è “buono da pensare”; e ciò che è buono da pensare è buono in quanto è buono per non pensare troppo, perché è già stato pensato. In questo senso il “buono da pensare” è un po’ come del cibo mentale preconfezionato, che ci evita la fatica di cucinare, che volendo è già pronto all’uso, senza elaborazioni necessarie. Diciamo che sono buone da pensare le strutture di senso elementari e le forme già consolidate in una tradizione di pensiero. Pensandole facciamo meno fatica a pensare e, circolarmente, le riproduciamo.

A ben vedere, le narrazioni basate su una struttura assiologica manichea che divide il bene e il male con un confine netto – che preserva la purezza dell’opposizione, che impedisce ambiguità e ambivalenze – evocano certe trame disneyane a cui ci hanno abituati da piccoli, dove la fata è sempre e solo buona e la strega è sempre e solo cattiva, dove tutto ciò che è morale è ordinato, dove sfumature e contraddizioni sono bandite. Questo non avviene a caso ma semplicemente perché quelle trame rimandano alla struttura profonda e antica delle fiabe, in cui, come ci ha spiegato un secolo fa il folklorista russo Vladimir Propp, i ruoli di buoni, cattivi, vittime ed eroi che le salvano dai carnefici sono nitidamente distinti (Propp 2000). Qui c’è da anticipare che, se i bambini vanno cognitivamente svezzati con semplificazioni morali, gli adulti dovrebbero essere in grado di riconoscere la complessità del reale, che a volte è fatta di contraddizioni, di ambivalenze, di ambiguità, di retroazioni.

Questo spesso non avviene, e di quelle semplificazioni abbiamo bisogno: in un certo senso in qualche misura abbiamo sempre bisogno di “credere alle favole” perché abbiamo bisogno della loro struttura. In un certo senso è un bisogno nostalgico: sentiamo la mancanza della tendenza ancestrale a dividere il mondo in sistemi di metà, a sederci sul comfort rappresentazionale di cosmologie aborigene che spaccano la realtà in due essenze puramente separate; e, comunque avendo risorse segniche limitate, non possiamo comprendere tutta la complessità del reale, quindi arriva sempre il punto in cui lo tagliamo in due per bisogno di semplificazione.

11In aggiunta a ciò, mi viene in mente che, per ricordarci che la percezione e il linguaggio non sono oggettivi, Korzybski (1933) diceva che «una mappa non è il territorio che rappresenta». In tal senso va inteso che la complessità del reale eccede sempre in varia misura quella dei modelli con cui la rappresentiamo per cercare di comprenderla, di prenderla-a-noi, di catturarla per mezzo di semplificazioni spesso orientate più dai nostri sistemi di valori che dalle proprietà che emergono dai fenomeni stessi. O comunque va inteso che le nostre rappresentazioni, quelle che creiamo e adottiamo, sono sempre in tensione, in lotta tra come vorremmo che la realtà fosse e come la realtà è. Il punto è che spesso il mondo è meno nettamente diviso in due e quasi sempre inesorabilmente più complesso di come lo rappresentiamo.

Certo, c’è da dire che a volte nella storia la realtà sociale tende davvero ad avvicinarsi molto a questi modelli di semplificazione binaria. Forse è stato il nazismo e la Shoah il momento della Storia in cui la realtà e la morale si sono avvicinate di più ai modelli dualistici e manichei con cui cerchiamo di semplificarle: in quella circostanza Hitler ha incarnato inequivocabilmente il male puro ed era puro bene salvare gli ebrei e il mondo da lui; tutto in un momento terribile dove vittime e carnefici, oppressi e oppressori sono emersi in forma nitida. Non a caso Hitler è diventato un conio del male, e la reductio ad hitlerum appare come la sua eredità più beffarda: affermare che il nemico “è come Hitler” è un modo per demonizzarlo, per ridurlo a male assoluto, e giustificare quindi la violenza contro di lui come atto di difesa necessario. È un’etichetta che può funzionare ma che, dato che sanzionare qualcuno come il male assoluto è il modo migliore per eliminarlo, rischia di funzionare alla rovescia nella misura in cui non coincide con l’essenza di chi viene etichettato. Non a caso, il dispositivo retorico della reductio ad hitlerum è stato ampiamente usato come strategia politico-propagandistica occidentale contro i capi di Stato del Medioriente, e negli ultimi anni se ne sta abusando per i conflitti tra Russia e Ucraina e tra Israele e Palestina. In generale da tre quarti di secolo capita che sempre più spesso in qualsiasi conflitto le parti in causa si accusino a vicenda di essere come Hitler; e lo fanno per giustificare reciproche reazioni violente verso la rispettiva controparte. Insomma, la reductio ad hitlerum è diventata la metafora più efficace per istituire un piano morale manicheo, che separa nettamente il bene e il male, «come l’olio sull’acqua».

Quello che voglio evidenziare con questo discorso è che spesso nessuno è il male assoluto, e non è quindi il bene assoluto ciò che ad esso si oppone. Sicché, nel caso di Palestina e Israele – oggi attraversato da reciproche accuse di volontà genocidarie, prima che da una lunga sequenza di vicendevoli ostilità – la semplificazione tra oppressi e oppressori pensata come linea di confine pura finisce con il nascondere molte, troppe contraddizioni e ambivalenze; finisce con il ridurre a un processo lineare del tipo ‘causa>effetto’ una dinamica prevalentemente circolare di disconoscimenti e violenze reciproche. In questa vicenda forse torti e ragioni sono variamente distribuiti tra le parti in causa; non abbastanza da porter dire che si equivalgono, ma abbastanza da poter prendere le distanze dai modelli dualistici, binari, manichei con cui vengono rappresentate. E questo processo rappresentazionale avanza fino a configurare una situazione in cui due diverse narrazioni del conflitto opposte e complementari determinano un conflitto di narrazioni, una guerra di simboli che si sovrappone alla guerra delle armi e ne condiziona gli esiti.

41fueiym-lForme dell’impegno intellettuale

In tutto questo mi pare che oggi il campo intellettuale sia sempre più tentato verso un engagement accomodato su un cliché foucaultiano che sottende una trappola manichea. Mi riferisco con ciò alla nota massima attribuita a Michel Foucault che recita che «il sapere non è fatto per comprendere ma è fatto per prendere posizione», e al conseguente riflesso condizionato che vuole che i saperi “buoni” siano quelli messi a disposizione dell’emancipazione dei popoli oppressi, come se la linea tra sfruttamento ed emancipazione, oppressi e oppressori fosse sempre e comunque una proprietà oggettiva della realtà, un fatto del tutto autoevidente; come se “l’oppresso” non sia mai in qualche misura una costruzione concettuale ma sempre e comunque un’essenza oggettivabile, separabile nettamente dall’oppressore.

Così, una volta essenzializzati oppressi e oppressori, e appurato che saperi e poteri sono correlati e che non esistono saperi neutrali, il tutto finisce anche in questo caso in una griglia binaria dove esiste solo il sapere buono (schierato in modo polare a favore degli oppressi) e il sapere cattivo (che per fare il gioco degli oppressori non si schiera, o che addirittura si schiera palesemente con gli oppressori). Non è ammesso che possa esistere un continuum di diverse gradazioni di politicizzazione dei saperi, e soprattutto non è ammesso che ci possa essere un impegno intellettuale, un posizionamento che sia contingente e critico-problematizzante rispetto alle polarizzazioni; che vada a discuterle e non a riprodurle. Non a caso questa massima foucaultiana è stata apertamente ripresa e rimessa in gioco come slogan politico proprio nel campo delle proteste studentesche pro-Palestina [6].  Il pattern di fondo è il seguente: esiste un oppresso e un oppressore; l’oppresso è la Palestina e l’oppressore è Israele; il solo schieramento buono e giusto è quello per la Palestina e contro Israele. 

Invece penso che questa sia una falsa conclusione derivata da una falsa premessa, e ritengo che se il disimpegno consiste nell’indifferenza rispetto a un problema, l’impegno si giochi in un posizionamento tra due forme, una delle quali rimane spesso nascosta: non c’è solo l’impegno nello schieramento di parte (con una parte contro l’altra, per il suo predominio, per vincere la guerra) ma ci può essere anche l’impegno nel posizionamento orientato all’interpretazione del gioco tra le parti (contro l’opposizione stessa, per il suo superamento, per fermare la guerra). Vale a dire che l’impegno non è solo schieramento militante ma può essere anche postura critico-problematizzante. Ci può essere un posizionamento intellettuale fuori dall’obbligo a irreggimentarsi con chi ritiene di poter mettere i punti esclamativi alla storia, segnando subito e senza dubbi dove sono i buoni e i cattivi. Ci può essere un diverso posizionamento che su quella linea mette invece dei punti interrogativi, che non assume come premessa assiomatica che esista una separazione totale tra oppressi e oppressori come dato di fatto, ma discute proprio questo assunto. Ci può essere anche un impegno scettico e antidogmatico, che si interroga sulle rispettive ragioni e torti di ciascuna delle parti in causa, senza selezionare degli apriori di comodo per mettere tutto il bene da una parte e il male dall’altra, “come l’olio sull’acqua”; e senza tantomeno risolvere tutto in un relativismo morale di ripiego.

In fondo l’idea che il sapere non è fatto per comprendere ma per prendere posizione è probabilmente la stessa che portò Foucault a simpatizzare per l’islamismo iraniano dell’ayatollah Khomeyni, rimuovendo tutti i suoi aspetti perturbanti per elevarlo a forma di resistenza contro l’imperialismo dell’Occidente (Afary, Anderson 2005). Ciò anticipava un’algebra intersezionale grottesca per cui, dato che “il nemico del nemico è amico”, chi si oppone all’imperialismo capitalista, al fascismo dell’Occidente egemonico, viene elevato ad alleato; questo in un processo associativo automatico, come riflesso ideologicamente condizionato, senza chiedersi se il suo sia solo un antimperialismo, un antifascismo o se invece nasconda anche un altro imperialismo e un altro fascismo, un fascismo esotico che non vuole tanto liberare l’umanità quanto sostituire delle catene con altre catene. Tutto questo torna oggi negli schieramenti queer e LGBTQ+ pro-Palestina, che accusano Israele di «pink washing» [7], ovvero di essere tollerante verso di loro solo per fini strumentali, e marciano per la Palestina ignorando che quella realtà è impregnata di un islamismo radicalmente intollerante verso il loro mondo, che li vorrebbe morti, che li uccide [8] (e non a caso sui social vari utenti commentano con amara ironia che “queers for Palestine” è un po’ come “jews for Hitler” o “chickens for KFC”) [9]

È che nel mondo antisistemico e controculturale della sinistra radicale occidentale la Palestina è da decenni un simbolo dominante di resistenza antimperialista e anticoloniale, sicché, dato che l’engagement filo-palestinese e anti-israeliano è “buono da pensare” in quanto profondamente sedimentato nella tradizione controculturale e antisistemica occidentale, e dato che la nostalgia per la passata Palestina laica di Arafat copre con un’aura romantica la presente Palestina islamista di Hamas, si finisce in quest’algebra di apparentamenti tribali dove, appunto, “il nemico del nemico diventa amico”. È in fondo la sindrome beduina delle alleanze posizionali nei sistemi segmentari, rette dall’algoritmo ben espresso dal seguente proverbio: “io contro mio fratello; io e mio fratello contro nostro cugino; io, mio fratello e nostro cugino contro il resto della tribù; la nostra tribù contro le altre tribù; tutte le nostre tribù contro tutti quelli che non sono beduini”.

Per tutto questo, rispetto al tema qui discusso, non mi interessa ridurre a slogan tranchant il Foucault (1998) che ci ricorda che il linguaggio non è tanto legato alla conoscenza delle cose ma alla libertà degli uomini in quanto – e questo è basilare – esso è uno strumento di potere che determina ciò che è pensabile e dicibile. Penso che sia meglio risalire al Foucault (1972) che ci aiuta a capire che la produzione sociale dei discorsi riguarda procedure di selezione, organizzazione e distribuzione finalizzate alla gestione del potere. In tal senso le regole del gioco discorsivo rimandano a regimi di verità che escludono i discorsi pericolosi a partire da tabù di interdizione, che li riducono a follia da rigettare, che pretendono di dividere nettamente il vero dal falso (quando vero e falso rispetto alla storia sono contingenti e sostenuti da istituzioni che costruiscono la verità accettabile, anche con varie forme di costrizione).

Penso che ciò non valga solo per la parte egemonica della società ma che rimandi anche a sotto-ambiti controculturali variamente subalterni o a diverse orbite sociali egemoniche in contrapposizione. Ogni ambito ideologico ha i suoi regimi di verità; e, se non è corretto mettere sullo stesso piano gruppi separati da dislivelli di potere, non è corretto nemmeno pensare che il potere si divida solo tra chi lo ha tutto e chi non ne ha per niente: che ci siano regimi di verità egemonici non implica che non ci siano regimi di verità subalterni, che sono meno potenti ma che possono essere altrettanto coercitivi. Questi conflitti tra regimi di verità si giocano in un’ecologia delle narrazioni dove il senso della Storia non è mai definitivamente dato ma è in continuo movimento, presidiato dai vincitori e arrembato dai vinti, in una incessante negoziazione di significati, di interpretazioni in conflitto.

Quindi, soprattutto quando la storia è in fieri, essere convinti di stare “dalla parte giusta della Storia” si configura già come un atto di potere, come una prepotenza segnica, che consiste proprio nella pretesa di tagliare in due il presente tra buoni e cattivi, tra bene e male.  E, non a caso, la Lega Araba ha ringraziato gli Stati che riconoscono la Palestina, sentenziando che sarebbero «dalla parte giusta della Storia» [10]; questo quando Salman Rushdie – lo scrittore su cui pende una condanna a morte degli islamisti – ha osservato che riconoscere in questo momento uno Stato palestinese senza chiedere in cambio alla Palestina di allontanarsi da Hamas significherebbe di fatto riconoscere uno Stato talebano, islamista, alleato dell’Iran contro l’Occidente, in una postura jihadista di guerra santa [11].

Ho anticipato tutto questo per affermare che l’ordine del discorso che contesto nello specifico come costrutto ideologico parziale è quello del regime di verità sostenuto dalle proteste occidentali pro-Palestina in sostanziale continuità con gli islamisti di Hamas, che ritiene che vi sia una linea netta di confine tra i palestinesi oppressi e gli ebrei oppressori, che sostiene che il pogrom di Hamas sia solo un atto di resistenza e liberazione, che stabilisce che chi sta «dalla parte gusta della storia» appoggia la Palestina e osteggia Israele. Questo non significa che appoggio l’ordine del discorso che si oppone a questa rappresentazione, elevando il massacro di Gaza a inevitabile battaglia di civiltà contro la barbarie. Ritengo queste due narrazioni siano essenzialmente parziali, nella misura in cui omettono gli elementi pericolosi per i rispettivi ordini del discorso che propagandano; e nella misura in cui contengono entrambe sia degli elementi di verità che di falsità, per quanto in forme differenziate e non equipollenti.

Il punto è che la guerra tra Israele e Palestina è profondamente condizionata dalle narrative del conflitto e connessa al conflitto tra queste narrative, in una dimensione simbolica sempre più colonizzata da una tendenza alla polarizzazione. Tutto ciò implica una disposizione al monismo narrativo, alla convinzione che vi sia una sola storia vera e giusta, allo squalificare totalmente la narrazione della controparte a menzogna per elevare la propria a verità totale. In tal senso direi che per recuperare la possibilità di un pluralismo narrativo sia necessario prima di tutto comprendere che certe dinamiche conflittuali non sono puramente lineari (l’aggressore contro l’aggredito) ma rimandano a processi in cui c’è una presenza significativa di dinamiche circolari (di aggressioni reciproche).

2560846238046_0_0_424_0_75La guerra (dei Roses): conflitti e schismogenesi

La guerra dei Roses (Adler 1990) è un romanzo americano, diventato poi un film di successo, che racconta di come due coniugi finiscono inviluppati in una escalation di aggressività reciproca, in un circuito di doni e contro-doni di violenza che, nel puntuale fallimento di vari tentativi di riappacificamento, si conclude con la morte di entrambi. L’avvocato che racconta questa storia dirà che «quando una coppia comincia a segnare i punti non ci sono vincitori, ci sono solo livelli di sconfitta». Le ragioni dei due coniugi di certo non si equivalgono, ma dall’esterno è impossibile distinguere tra chi è vittima e chi è carnefice, è tanto impossibile quanto ciascun coniuge in fondo ritiene di stare da solo dalla parte della ragione. Se il titolo La guerra dei Roses ammicca alla “guerra delle due rose” – il sanguinoso scontro dinastico avvenuto nell’Inghilterra del XV sec. tra i Lancaster e gli York – va notato che il nucleo di questa tragicommedia è un buon esempio di un concetto che può aiutare molto a comprendere questa guerra e le guerre in generale: si tratta del concetto di «schismogenesi», teorizzato dall’antropologo Gregory Bateson (1977).

Con “schismogenesi” Bateson indica i processi conflittuali di fissione, di rottura, di separazione di qualsiasi unità culturale, sociale, psicologica, mentale, in due parti, ritendendo che essi siano innescati dal fatto che le parti in causa finiscono intrappolate in cornici di senso paradossali che chiama di «doppio vincolo» (o «doppio legame»), in cui sono presenti dei piani di contraddizioni logiche. Qui va osservato che una situazione di doppio vincolo è senz’altro quella in cui uno spazio fisico è occupato da due popolazioni che ritengono di avere prima di tutto da Dio – un dio che sarebbe lo stesso ma testimoniato da diversi profeti – un diritto esclusivo all’occupazione di quello spazio. Per Bateson ci sono due tipi di processi schismogenetici, quelli «complementari» e quelli «simmetrici»; e l’antropologo ci dice che, se non vengono disinnescati, questi processi sono entrambi (auto)distruttivi.

La “schismogenesi complementare” riguarda dei comportamenti di segno diverso, in continua contrapposizione, del tipo aggressivo-remissivo, autorità-sottomissione. In questa dinamica l’arrendevolezza di una parte stimola l’animosità dell’altra e, circolarmente, quell’animosità aumenta l’arrendevolezza della controparte. La “schismogenesi simmetrica” invece riguarda comportamenti di segno analogo, in continua sovrapposizione, del tipo aggressivo-aggressivo, autorità-autorità. In questa dinamica l’ostilità di una parte stimola l’ostilità dell’altra, circolarmente. Entrambi questi processi ineriscono alla perdita di uno stato di equilibrio; a un passaggio da un assetto omeostatico a uno morfogenetico, da una condizione di stabilità a una di catastrofe. Ciò avviene in quanto essi si amplificano progressivamente alimentandosi a vicenda in una polarizzazione esplosiva, in una reciprocità di risposte incrociate fino alla distruzione della parte remissiva o di quella più debole, o di entrambe.

Se il rapporto tra i nazisti e gli ebrei era di tipo marcatamente complementare, il rapporto tra gli ebrei e i palestinesi somiglia di più a un rapporto di tipo simmetrico, in cui le vittime non sono del tutto distinguibili dai carnefici e dove si assiste a una escalation di reciproche violenze, In simili casi, seppure non necessariamente in parti uguali, spesso i ruoli risultano invertiti: le vittime diventano carnefici e viceversa. Mente i conflitti basati su processi di schismogenesi complementare sono abbastanza facilmente inquadrabili in termini morali, questo non avviene con i processi di schismogenesi simmetrica, in cui può capitare che ciascun attore tenda a rappresentare il conflitto in modo complementare, mettendosi i panni esclusivi della vittima; o, per dirla meglio, entrambi gli attori possono essere tentati a praticare la strategia mimetica del vittimismo, ovvero a mascherarsi da pure vittime e a rimuovere i momenti in cui si comportano da carnefici. Ciò sottolineando che la distinzione tra complementarità e simmetricità può inerire a varie forme di mescolamento, ovvero che raramente esiste una complementarità o una simmetricità in forma assoluta (se non altro in quanto i processi simmetrici sono dati dall’oscillazione, dall’alternanza, di sottoperiodi complementari più o meno estesi). Poi, può avvenire anche che i panni della vittima siano indossati dal polo aggressivo di una relazione di schismogenesi complementare al fine di mascherare la sua indole esclusivamente violenta, ma è in questo caso è più difficile essere credibili (anche i nazisti si ritenevano vittime di un complotto degli ebrei, ma questo appariva assai poco verosimile).

Questo nel conflitto tra Israele e Palestina avviene in modo sistematico dal 1948: ciascuna parte si rappresenta come vittima della controparte e motiva il suo agire come violenza necessaria alla libertà, alla sopravvivenza, alla vita. Tutto questo amplifica una spirale di ostilità in cui ciascuno si ritiene senza colpa e quindi in diritto di scagliare pietre (razzi o missili) sulla controparte, colpevole di aver aggredito. Sistematicamente ogni aggressione viene motivata come risposta di un’aggressione della controparte. Considerando che siamo nei luoghi dove si praticava l’“occhio per occhio, dente per dente”, si può azzardare timidamente l’ipotesi che il tutto avvenga in un contesto culturale in cui si è sedimentata storicamente una certa inclinazione alla vendetta. Lasciando da parte la suggestione della “Legge del Taglione”, va detto che probabilmente il conflitto tra palestinesi e israeliani non è puramente simmetrico: le ostilità reciproche non si riducono ad un gioco a somma zero, soprattutto, come vedremo, per la superiorità tecnologica di Israele, ma questo non significa che si tratti di una conflittualità che rimanda a un processo schismogenetico puramente complementare, dove, appunto, gli oppressori stanno agli oppressi “come l’olio sull’acqua”.

og__id12579_w800_t1662964505__1xSulla scorta della riflessione di Bateson sappiamo poi che, se si sta di fronte a due litiganti e ci si pone lo scopo di far finire il litigio in una qualche riconciliazione, è abbastanza inutile se non proprio controproducente stabilire chi ha iniziato, non solo perché il problema non è tanto chi ha iniziato ma quanto che si litiga, ma anche perché ciascuna delle due parti scaverebbe per trovare un episodio più remoto come vera ragione iniziale; come pure è ugualmente inutile mettersi a sentenziare chi è il buono e chi è il cattivo, separando nettamente torti e ragioni. Chi fa così durante un litigio in fondo non vuole mediare ma schierarsi: vuole l’affermazione di una parte contro l’altra. Così come chi vuole giungere a una possibilità di riconciliazione pensa prima di tutto ad allontanare, a disarmare entrambi i litiganti. Questo perché in molti litigi, più che il “buono” contro il “cattivo” sono tutti un po’ “buoni e cattivi”, e tutti finiscono variamente incattiviti dal circolo vizioso di ostilità con cui procede l’atto del litigare: come dicevo spesso torti e ragioni non sono totalmente separati, come pure altrettanto raramente si equivalgono. Come pure spesso i litigi degenerano non tanto perché le persone non sanno andare d’accordo ma perché non sanno litigare: litigare ogni tanto è inevitabile in una relazione, e saper gestire i litigi significa essere in grado di portarli a termine attraverso il raggiungimento di compromessi.

Tutto questo per dire che, quanto più l’opposizione tra oppressi e oppressori, tra invasi e invasori, tra aggrediti e aggressori non è data da una linea netta, tanto più le guerre andrebbero fermate più che vinte. In tal senso il posizionamento terzo, quello di chi non è coinvolto direttamente nel conflitto, dovrebbe puntare più a decostruire le contrapposte ragioni della contrapposizione che a sostenere una parte contro l’altra, più a mediare che a schierarsi, più a patteggiare che a prendere parte. Gli ebrei non avrebbero potuto arrendersi di fronte a Hitler per evitare lo sterminio per la sola colpa di essere nati. Per questo, se di fronte ad Hitler non vi era nessuna possibilità di mediazione, in quasi tutti gli altri casi si dovrebbe in qualche misura mediare; nella consapevolezza che comunque mediare non significa dividere necessariamente torti e ragioni a metà, ma evitare che, all’opposto, il posizionamento esterno si risolva nell’assegnare in blocco tutte le ragioni a una parte e tutti i torti all’altra. In tutto ciò c’è qualcosa di elementare e banale ma è inquietante che, di fronte a questa guerra, ci sia una predominante tentazione allo schieramento, contro la scelta della mediazione. Non a caso è stato osservato che il conflitto tra arabi e sionisti – che va avanti da oltre un secolo come ultimo episodio di quello tra musulmani ed ebrei – «quasi dal primo momento, è stato trattato con manifesta partigianeria da commentatori e storici di entrambi gli schieramenti, oltre che dagli osservatori stranieri» (Morris 2016).

È proprio in merito a ciò che mi pare che sia il caso di non accontentarsi di un monismo narrativo fatto di spiegazioni unidirezionali pensate in modo esclusivo, ovvero di riconoscere che siamo di fronte a un fenomeno complesso in cui si intrecciano e si scontrano decodifiche molteplici che dovrebbero essere tutte prese in considerazione e valutate, in luogo di escludere a priori i discorsi pericolosi per il regime di verità a cui si partecipa in una postura di schieramento polarizzante. Andrebbe riconosciuto in tal senso che siamo di fronte a un pluralismo narrativo che esiste solo in potenza in quanto è tanto sostanzialmente presente quanto formalmente interdetto ad esternarsi come coralità; in una situazione in cui ciascuna storia lotta in una pretesa monistica, per escludere le altre dal primato della verità, per annullare qualsiasi posizionalità, qualsiasi diversità di vedute, e imporre uno sguardo unico. Andrebbe problematizzato criticamente questo punto, riconoscendo che è un piano del conflitto.

9788807882067_0_536_0_75Orientalismo alla rovescia e redwashing

Nel mondo progressista controculturale occidentale vi è da decenni un predominio ermeneutico del paradigma della critica postcoloniale (Ciccozzi 2023b). In questa cornice di senso l’idea della lotta palestinese come liberazione coloniale diventa la chiave di lettura esclusiva che adombra la caratterizzazione etnico-religiosa di questo conflitto (in più il vizio al monismo interpretativo per cui si tende ad accogliere una spiegazione sola, contribuisce ad escludere tendenzialmente del tutto questi fattori dall’orizzonte causale con cui si spiega il conflitto). Quando dico che la questione palestinese è “buona da pensare”, intendo che da decenni la Palestina vista dall’Occidente controculturale è un luogo mitico, un topos antisistemico fondamentale che, a partire dalla kefiah, simboleggia in modo monumentale il Sud del mondo contro il Nord del mondo (di cui Israele è inteso come avamposto, soprattutto dal mondo arabo), l’Oriente contro l’Occidente, la subalternità contro l’egemonia, la rivoluzione contro il capitalismo.

In tal modo la decodifica politico-ideologica “verticale” oppressi/oppressori satura tutti i piani rappresentazionali, escludendo quella etnico-religiosa “orizzontale” dei monoteismi in conflitto, che al più viene derubricata a dettaglio sullo sfondo, a epifenomeno di scarso rilievo. Così tutto viene ridotto e mitizzato nella forma di una giusta guerra di resistenza contro lo strapotere coloniale del neoliberismo occidentale; e questa chiave di lettura attualmente si rinnova privilegiando il piano interpretativo infrastrutturale della conflittualità inerente al potere del capitalismo fossile, alla questione della transizione energetica globale, alla crisi di accumulazione del geo-capitalismo (Grasso, Padovan 2024). Non dico che queste ragioni siano prive di senso ma sostengo che è eccessivo pensarle come cause uniche, e omettere così il peso dei condizionamenti sovrastrutturali, ideologici, di tipo etnico-religioso che alimentano questa spirale di conflittualità.

In tal senso la spiegazione della guerra per le risorse, la riduzione del conflitto alla monocausalità dell’energia a mio parere sottende un bias interpretativo essenzialmente etnocentrico, una miopia da disincanto del mondo, da laicità progressista che non ci fa comprendere che le nostre categorie secolarizzate non sono le categorie di altre parti del mondo. Semplicemente, per noi la religione non conta più nulla nelle questioni politiche, e attribuiamo anche a popoli diversi da noi la nostra scala di valori, non capendo che in Oriente e Terrasanta la religione conta molto di più di quanto conta nell’Occidente contemporaneo. Forse non conta tanto da diventare causa unica di conflitto, ma conta abbastanza per essere una causa fondamentale del sangue che oggi, ancora una volta, vediamo copiosamente versato in quelle terre. Per non dire che, mentre rileggo queste pagine, apprendo che a a Mecca durante l’Hajj, l’annuale pellegrinaggio islamico, sono morte 1300 persone per il caldo [12]: in molti luoghi fuori dall’Occidente la religione conta più che mai abbastanza da segnare il confine tra la vita e la morte.

Voglio intendere che la spiegazione della liberazione coloniale, della resistenza partigiana palestinese contro l’invasore israeliano nel suo essere “buona da pensare” produce una transcodifica etnocentrica di questa conflittualità che sottende una sorta di orientalismo paradossale. Se per Said (1991) l’orientalismo è in sostanza un bias negativo, etnocentrico, una distorsione posizionale occidentale consistente nell’essenzializzare l’Oriente in costrutti inferiorizzanti finalizzati al suo dominio, in ambito controculturale occidentale si assiste a un orientalismo paradossale, alla rovescia, per cui il mondo musulmano viene essenzializzato in bias positivi, esotisti, tradotto in categorie ammirevoli, pienamente compatibili con gli orizzonti della cultura antisistemica. Vi è in fondo a tutto ciò una sindrome esotista da “mito del buon selvaggio”, un’inversione rousseauiana per cui lo stereotipo dell’altro-inferiore viene rovesciato in un contro-stereotipo positivo che diventa una forma di venerazione, sicché il mujahidin arabo viene tradotto dall’orientalismo progressista come partigiano liberatore; in una decodifica contrapposta a quella dell’orientalismo conservatore che vi vede solo un terrorista sanguinario. Se l’orientalismo consiste in ultima istanza in una aprioristica tendenza – xenofoba ed etnocentrica – alla barbarizzazione dell’umanità altrui, questo orientalismo paradossale implica una tendenza altrettanto aprioristica – ma di segno xenofilo ed esotista – all’umanizzazione della barbarie altrui. In questo modo il jihadismo, la guerra santa in una prospettiva etnico-religiosa, viene fraintesa come solo e soltanto liberazione coloniale, si esaurisce in resistenza politica contro l’imperialismo e nulla più: così il militante di Hamas da combattente religioso che uccide gli infedeli e si immola come martire per la gloria del suo Dio finisce con il trasfigurarsi in un eroe liberatore, non solo della sua terra ma del mondo intero redimendolo dalla morsa coloniale dell’Occidente.

Non a caso un manifestante quarantenne dell’accampata pro-Palestina che ha assistito alla mia lezione durante il dibattito finale ha controbattuto che non vi sarebbe nessuna connotazione religiosa del conflitto, che il 7 ottobre per lui è «come via Rasella» (paragonando una strage generalizzata di civili a un attacco mirato contro dei militari), e che comunque il giudizio su quello che è successo quel giorno «non spetta a noi ma ai palestinesi» (questo dettaglio è davvero allucinante: seguendo questa logica si potrebbe dire che il giudizio sul massacro di Gaza spetterebbe solo agli Israeliani). Per completezza devo comunque aggiungere che, tranne questo caso, la maggior parte del dibattito successivo alla mia esposizione è stata caratterizzata da osservazioni e obiezioni sensate, nel rispetto reciproco della diversità di opinioni.

Più in generale in questo senso mi pare che tutta la questione palestinese sottenda una forma di taqiyya (che nell’orizzonte religioso musulmano significa “dissimulazione di fronte al nemico”), di doppiezza, di inganno nella compresenza di un progetto di jihad globale che viene velato nel monismo narrativo della liberazione coloniale locale, nascosto in una edulcorazione controculturale in cui le rappresentazioni della difesa, della resistenza, occultano pratiche e progetti orientati all’attacco dell’Occidente. Si tratta di una volontà di imposizione di una sottomissione religiosa globale che rimanda a un progetto che la cultura antisistemica del progressismo radicale occidentale non vede, perché traduce solo come partigiani politici quelli che sono prima di tutto dei martiri religiosi. Quello che voglio dire è che il pogrom del 7 ottobre non è solo una reazione difensiva contro l’apartheid di Gaza che diventa eccesso efferato; il 7 ottobre è anche un attacco contro l’Occidente, a partire dal fatto che dal punto di vista musulmano gli israeliani sono occidentali. I ragazzi massacrati nel rave del Nova Festival somigliano in tutto e per tutto ai ragazzi che gli islamisti hanno massacrato nel Bataclan; e i ragazzi di questa accampata pro-Palestina mi pare che somiglino più ai loro coetanei del Nova Festival che agli assassini che li hanno massacrati (dei quali, con il loro pacifismo selettivo, stanno sostanzialmente facendo il gioco).

Comunque, gli islamisti hanno capito bene questo vizio della cultura progressista, questa incomprensione del “loro” punto di vista, questo costante tradurlo inconsapevolmente con le “nostre” categorie laiche occidentali, questo confondere una nostra rappresentazione dell’altro con l’altro. Non a caso lo statuto di Hamas, mentre delinea in dettaglio una divisa radicalmente religiosa, si appunta un badge laico e inclusivo come specchietto per le allodole. Lo fa – in un contrasto grottesco con il resto del testo – dichiarando che «il Movimento di Resistenza Islamico è un movimento umanistico, si occupa dei diritti umani, e si impegna a mantenere la tolleranza islamica nei confronti dei seguaci di altre religioni» [13]. Come pure non a caso, proprio nei giorni in cui scrivo queste righe, ascolto su YouTube la versione palestinese di “Bella ciao” [14] registrata all’indomani del pogrom del 7 ottobre, per scoprire che sotto queste vesti ostentatamente partigiane e antifasciste c’è nel testo l’esaltazione tutta islamista a «diventare un martire».

Insomma: il tema della “resistenza degli oppressi”, dal momento in cui diventa chiave di lettura unica finisce con il fare da cavallo di Troia che nasconde il fine della “sottomissione degli infedeli”. Questo trucco ha successo dal momento in cui siamo abituati alle spiegazioni monocausali, alle logiche esclusive dell’“o-o”, siamo interdetti alle spiegazioni policausali, alle logiche inclusive “e-e”, a pensare che non si tratta di scegliere tra spiegare quello che succede solo come “resistenza degli oppressi” o come “sottomissione degli infedeli”, ma che si tratta di accogliere l’eventualità che si può essere di fronte a una “resistenza degli oppressi e sottomissione degli infedeli”.

In tal senso mi pare che questa strategia del tradurre tutti i piani di conflittualità tra Palestina e Israele nell’opposizione oppressi/oppressori, per ridurre l’agire bellico palestinese a mera resistenza partigiana di liberazione contro l’occupante coloniale, configuri una forma di redwashing islamista, con cui il verde del fondamentalismo islamista si traveste di rosso progressista, nel mascheramento di un agire orientato prevalentemente da logiche religiose aggressive jihadiste attraverso vesti fittizie date da termini laici e progressisti di una difesa che si presenta come antifascista mentre veicola un fascismo altro. Questa non è comunque la sola forma di redwashing in gioco: dal lato opposto si assiste a un redwashing sionista consistente nella transcodifica progressista e laica data dal presentare unicamente come guerra di civiltà contro la barbarie l’attuale feroce reazione contro Gaza, data dal sorvolare su una serie di responsabilità coloniali (che non possono essere ignorate semplicemente ricordando che comunque nel 1948 furono gli arabi a rifiutare la soluzione “due popoli, due Stati” e ad attaccare Israele), data dal nascondere un invasamento sionista che di suo canto rifiuta radicalmente qualsiasi possibilità di convivenza democratica con i palestinesi a partire da una concezione etnico-religiosa di proprietà esclusiva del territorio.

Non voglio dire che questa strategia di mascheramento viene praticata dalle due parti in conflitto nella stessa misura, ma voglio sottolineare da entrambi i lati vi sono segni che ci indicano la sua presenza. D’altro canto, abbiamo detto che ciascuna delle due fazioni in lotta usa la retorica della reductio ad hitlerum per presentare l’avversario come incarnazione assoluta del male e porsi in termini di combattente antifascista; e l’essenza del redwashing di cui parlo è proprio questa. Se non fosse che in questa vicenda da questo punto di vista non c’è tanto uno scontro tra fascismo e antifascismo in cui ognuno dice che il fascista è l’altro, ma una faida tra il fascismo sionista e quello islamista. 

31306388485Monoteismi, etnocentrismi, fascismi

Se gli israeliani rivendicano il possesso originario di una terra da cui furono cacciati, e che è stata poi occupata dagli arabi che hanno a loro volta cacciati quando vi sono tornati, entrambi i popoli sono radicalmente separati da un suggello religioso che hanno posto a tutela di una diversità etnica che, in larga parte, coltivano da sempre. E se gli ebrei ebbero l’idea di elevare al cielo un Dio unico, che escludeva altre divinità e che li avrebbe eletti a unico popolo, i musulmani rivendicarono l’ultima versione profetica di quella divinità impossessandosene altrettanto esclusivamente. Questo quando l’Islam si politicizza in islamismo, in una prospettiva di conquista militare del mondo intero che a quella divinità – e quindi a loro – si sarebbe dovuto sottomettere. E, se l’etnocentrismo (Sumner 1962) è la primordiale e universale attitudine umana a considerare il proprio gruppo superiore agli altri – a considerare la propria umanità la sola umanità, a usare il proprio metro di misura per misurare gli altri – il monoteismo, l’idea del dio unico, è la trasfigurazione su un piano trascendente di questo pernicioso sentimento culturale; è il modo più efficace per suggellare quella pretesa di superiorità mettendola su un piano sovraumano. Attraverso l’equazione “il nostro Dio è l’unico Dio vero; quindi, noi siamo l’unico popolo degno” si sacralizza il proprio gruppo contro gli altri, si segna solennemente un confine di primazia. In merito Francesco Remotti (2001) ha notato come «coloro stessi che si armano a difesa dell’unicità del proprio dio, e quindi del principio della propria identità, finiscano per produrre un’“alterità” intollerabile: da reinglobare o da sterminare».

Va detto chiaramente che oggi queste visioni radicali della religione non riguardano certo tutti gli ebrei e tutti i musulmani, ma esse permangono nelle loro rispettive parti estremiste, quella sionista e quella islamista. In merito Enzo Pace (2024) ha chiarito come nella crisi tra Israele e Palestina la questione etnico-religiosa si pone come fattore conflittuale primario, responsabile della radicalizzazione di entrambe le posizioni. Da un lato lo Stato di Israele nasce in una divisione interna: gli ebrei moderati lo vorrebbero laico, pluralista, inclusivo, mentre all’opposto «il sionismo religioso si configura come un movimento etno-nazionalista che considera i territori della Palestina parte integrante e inalienabile di Eretz Israel, la biblica Terra promessa. Non c’è spazio, allora, per uno Stato palestinese». Nel 1974 la nascita del Gush Emunim (il “Blocco dei Fedeli” alla Terra Promessa) delineerà formalmente una pretesa di possesso esclusivo del territorio di Israele come aspettativa messianica non negoziabile. Dal lato palestinese nel 1987 nasceva Hamas, il movimento della resistenza islamica che considera la Palestina come «terra donata da Dio al suo popolo, dunque, sacra, inviolabile e indivisibile. Nessuno poteva arrogarsi il diritto di negoziarne la cessione di una sola zolla pur di ottenere la pace con l’odiato nemico sionista. Lo Stato d’Israele, perciò, andava distrutto, facendo appello al dovere religioso della jihad che gravava su ogni credente, incitando a formare milizie di combattenti pronti al sacrificio della propria vita. Il corpo del martire diventava così un’arma, non impropria, per colpire indiscriminatamente la popolazione civile. Non potendo competere militarmente con un esercito più potente, l’ideologia militarista di Hamas ha così adottato sin dalla sua nascita il metodo terroristico di fare la guerra».

Il problema è che oggi è conclamato un processo di polarizzazione in cui il radicalismo religioso ha contagiato gran parte delle due fazioni in lotta. L’islamismo dilaga tra i palestinesi come pure nel campo israeliano gli ideali sionisti trovano sempre più consenso. E, nella sua natura etnocentrica, l’estremismo monoteista, quale sia il Dio a cui tributa reverenza, è essenzialmente una forma di fascismo; questo nella misura in cui esso delinea un confine netto rispetto allo straniero, come linea di superiorità, di primazia, di diritto di predominio. Il processo di schismogenesi simmetrica, la spirale crescente di disconoscimento e ostilità reciproca in cui quelle terre sono inviluppate dal 1948 non ha fatto altro che far lievitare la parte fascista di ciascuno di questi due popoli. Non a caso secondo gli ultimi sondaggi l’80% dei palestinesi ha approvato il pogrom di Hamas [15], come pure l’80% degli ebrei ha approvato la reazione militare di Israele [16]. Sono cifre inquietanti.

E qui, rispetto al tema dell’islamismo, va chiarito che se è islamofobia fomentare paure irrazionali contro il mondo musulmano tutto, è miopia non comprendere la portata epocale della distinzione fondamentale tra Islam e islamismo (Ciccozzi 2023a): se l’Islam è la religione di tutti i musulmani, l’islamismo è l’uso sociale e politico che di questa religione fa una parte (minoritaria ma consistente e in crescita) dei musulmani, un uso orientato all’affermazione della sharia – la legge di Dio – sul diritto positivo; ciò in un ideale sostanzialmente militare di conquista religiosa globale in cui ogni credente è chiamato come soldato all’obbligo di realizzazione di questo obiettivo. Se il fascismo è una sostanza culturale e politica che assume forme sociali molteplici, dipendenti dal contesto storico-geografico in cui si manifesta, se tutti i gruppi umani sono a rischio del contagio del fascismo, allora va compreso che l’islamismo è la destra delle società musulmane, che l’islamismo è il fascismo dell’Islam. Non intendere che il passaggio della liberazione della Palestina in mani islamiste inerisce a un quadro politico più ampio e più fosco, che rimanda anche a un’aggressività religiosa fondamentalista rivolta contro l’Occidente, significa vivere in una dimensione illusoria di wishful thinking, di pensiero desiderante, che sogna una realtà inventata o al più nostalgica e ormai inesistente. In questo senso dico che la Palestina di oggi è la Palestina di Hamas e non va confusa con quella di Arafat.

Oggi in Palestina non si gioca solo una partita di liberazione coloniale: quel campo è anche un luogo di affermazione islamista. E, comunque, anche rispetto alla chiave di lettura postcoloniale penso che sia necessario chiederci se all’oppresso è concesso tutto. Ci si dovrebbe domandare se, in nome della liberazione, si possono massacrare in massa intere famiglie inermi, violentare e seviziare ragazze portandole in parata sulle jeep come se fossero della selvaggina, tra la folla esultante. Se non altro dovremmo capire che il 7 ottobre non è stato solo messo in atto un pogrom contro gli ebrei ma è andato in scena un modello di vendetta postcoloniale che ha suscitato diffusa ammirazione, che rimanda a un piano di desiderio collettivo: nel Sud del mondo c’è tanta gente che vorrebbe tanti 7 ottobre contro il Nord del mondo degli occidentali, i “bianchi”. In questa dimensione l’islamismo cerca consensi, e qui il 7 ottobre ha funzionato come uno spot elettorale planetario. Quel giorno non solo una parte consistente dei palestinesi ha esultato, ha esultato anche una parte consistente del sud del lmondo, felice dello sterminio di tanti ebrei-occidentali. Inutile dire che questi sentimenti diffusi di odio crescente non li vediamo, illudendoci di poterne decretare in questo modo l’inesistenza. Non li vediamo, li copriamo con gli scongiuri apotropaici della rimozione cognitiva perché abbiamo paura di riconoscere che il fascismo può assumere anche forme esotiche rivolte contro uno straniero che siamo noi, gli occidentali (Ciccozzi 2023c).

È per tutto questo che mi pare che un pacifismo che chiede solo il “cessate il fuoco” di Israele pecchi di miopia e ingenuità se non di masochismo o di sadiche intenzioni; mi pare che nello specifico faccia il gioco di Hamas, per non dire che questa postura di sostegno è evidente, certificata di fronte ai ringraziamenti venuti dalla leadership di Hamas stessa verso gli studenti occidentali delle manifestazioni pro-Palestina [17]. Qui penso invece che per giungere alla pace bisognerebbe salvare i corpi dei palestinesi dai sionisti di Israele e le menti dei palestinesi dagli islamisti di Hamas; o meglio, si dovrebbero liberare i corpi dei palestinesi dai missili di Israele ma anche le menti dei palestinesi dall’odio islamista, tanto quanto si dovrebbero liberare i corpi degli israeliani dai razzi di Hamas e le menti degli israeliani dall’odio sionista. Prima ancora che decolonizzare la Palestina penso che si dovrebbe decolonizzare quella terra dal fascismo che ha attecchito, in forma di identitarismo etnico-religioso, nel cuore di tante persone di entrambe le fazioni in lotta.

Questo è particolarmente rilevante dal momento in cui il “cessate il fuoco” necessario per fermare il massacro della popolazione di Gaza non dipende solo dall’insistenza dell’Israele di Netanyahu a portare avanti un’operazione militare che sta radendo al suolo la Striscia e procurando migliaia di vittime. A ben vedere quel “cessate il fuoco” dipende anche dal fanatismo della Palestina di Sinwar, che ritiene che le vittime civili palestinesi siano un sacrificio necessario per gettare discredito su Israele, fargli perdere l’appoggio dell’Occidente e fomentare una reazione del mondo arabo per annientare Israele, cacciare gli ebrei, sterminarli. A ben vedere non c’è una sola responsabilità ma un intreccio di responsabilità che si alimentano in un circolo vizioso. 

Capacità di sterminio e volontà di sterminio

È per tutto questo che mi pare che dietro all’attuale scenario desolante del perdurante massacro della popolazione palestinese e della distruzione di Gaza, come reazione al pogrom contro la popolazione israeliana del 7 ottobre, covino due pulsioni genocidarie, condivise da entrambi i lati seppure in forme diverse. Qui, infatti, penso che si debba distinguere tra “capacità di sterminio” e “volontà di sterminio”, e ritengo che se Israele abbia un’elevata capacità tecnologica di sterminio frenata da una ridotta volontà ideologica di sterminio, nella Palestina egemonizzata da Hamas sia presente un’elevata volontà ideologica di stermino frenata da una ridotta capacità tecnologica di sterminio. Per spiegare meglio questa differenza faccio un breve esempio. Recentemente è stata pubblicata una statistica [18] con un grafico che titola – molto sensazionalisticamente – che ad oggi su Gaza sarebbero state sganciate addirittura «più bombe della Seconda guerra mondiale», per poi aggiustare il tiro nel sottotitolo e precisare che «l’ammontare dei dispositivi sganciati sull’enclave palestinese supera quelli dei bombardamenti di Dresda, Londra e Amburgo». Quindi le bombe su Gaza sarebbero più del doppio della somma di quelle sulle tre città menzionate. 

3Se questa rappresentazione statistica ha avuto una certa diffusione social tra utenti pro-Palestina, che l’hanno mostrata come prova oggettiva della brutalità e della volontà genocidaria di Israele, a ben vedere i dati in questione suggeriscono una realtà molto diversa: stando a quei numeri – e considerando approssimativamente i 150mila morti a Dresda, i 50mila a Londra e i 100mila ad Amburgo rispetto agli attuali 40mila a Gaza – abbiamo una mortalità palestinese che è circa un ventesimo di quella usata come pietra di paragone (senza considerare peraltro che i massacri di Londra, Amburgo e Dresda non avevano intenzioni genocidarie, che quelle erano riservate agli ebrei). E in questo va pure tenuta presente la capacità tecnologica israeliana di colpire con precisione i bersagli nemici, tanto elevata quanto lontana da quella dell’epoca bellica presa come paragone. Il punto è che questo esempio conferma un aspetto lapalissiano della questione: Israele avrebbe la capacità tecnologica di sterminare in massa l’intera popolazione palestinese, ma, non si sa se per scrupolo morale o per timore della reazione internazionale, non lo sta facendo. Di certo non si sta ponendo minimamente problemi, scrupoli morali o limiti nel massacrare i palestinesi che fanno, volenti o nolenti, da scudo umano ad Hamas; e, dalle brutalità diffuse dei militari israeliani che emergono sul web, è chiaro che l’esercito è pervaso da una crudeltà che ha una connotazione genocidaria, ma che emerge per lo più come sfogo rabbioso estemporaneo; per cui al massimo si può parlare di tattiche vendicative dal basso, difficilmente collegabili a una strategia genocidaria ufficiale.

Al momento la strategia israeliana appare più orientata allo stermino di chi li vorrebbe sterminare, ossia dei vertici e dei militanti di Hamas, che allo sterminio programmato e sistematico della popolazione tutta. Questo oltre che alla cacciata dei palestinesi da Gaza, alla pulizia etnica, forse anche per punire il loro appoggio ad Hamas. Intendiamoci: siamo comunque di fronte a un comportamento estremamente brutale e altrettanto orrendo, ispirato da un radicalismo sionista che estremizza le esigenze di difesa, che rivendica la proprietà esclusiva della terra, che rifiuta gli arabi in quanto tali, ma non è un genocidio. È complessivamente una soluzione prevalentemente disperata, dissennata e illusoria, che molto probabilmente non farà altro che aumentare la spirale della violenza, che non farà altro che peggiorare la situazione di Israele, circondato dall’odio crescente di milioni e milioni di islamisti e dalla disapprovazione del mondo: in questo momento l’assedio di Gaza è un eccesso, una follia ma non è un genocidio.

Viceversa, il pogrom di Hamas del 7 ottobre ha palesato in modo inequivocabile una strategia radicalmente eliminazionista, orientata a massimizzare il numero delle vittime, ad ammazzare tutti, in una plateale e insaziabile fame di morte che si è concretizzata in un’orgia autocompiaciuta di crudeltà assoluta, in una marea di sangue che si è fermata solo nel momento in cui è stata tamponata dalla reazione, per quanto tardiva, dell’esercito israeliano. D’altra parte, il 7 ottobre si stava ponendo in atto un proposito genocidario formalizzato dal 1988 nel primo statuto di Hamas [19], dove, nell’articolo 7, dichiarando di voler «corrispondere alle promesse di Allah», viene affermato che «l’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno» (e sottolineando nell’articolo 12 che tale lotta è «un obbligo individuale per ogni uomo e donna musulmani»). Per far fronte alle accuse di antisemitismo che stavano screditando il Movimento di fronte all’opinione pubblica mondiale, la nuova versione dello statuto del 2017 ricodificherà in modo criptico l’articolo 7, limitandolo a un «continueranno la loro missione finché non sarà rispettata la Promessa di Allah», ovvero rimuovendo l’esplicitazione di tale promessa presente nella prima stesura (e evidentemente vigente nell’animo di chi ha ordito e attuato il 7 ottobre).

7c509a2afc755ebfcd5eeef9a392eff2Questo suggerisce che al momento gli ebrei non vengono sterminati dal primo all’ultimo solo in quanto gli islamisti di Hamas non hanno (o non hanno ancora) la capacità tecnologica per farlo, non sono materialmente in grado di trasformare l’episodio del 7 ottobre in una procedura genocidaria generalizzata. Non dispongono della forza e della tecnologia necessarie per realizzare il progetto di liberare la Palestina “dal fiume al mare”, uccidendo gli ebrei tutti per punirli della loro boria coloniale, per fermarli dal loro presunto malefico progetto di conquista sionista del mondo (va sottolineato che l’articolo 32 del primo statuto di Hamas riesumava anche il “Protocollo degli Anziani di Sion”). Insomma: visto quello che sono riusciti a fare con i limitatissimi mezzi materiali a disposizione il 7 ottobre, è ragionevole ipotizzare che, se gli islamisti avessero avuto la disponibilità bellica di Israele, gli ebrei sarebbero stati sterminati dal primo all’ultimo.

Per tutto questo in generale penso che quando ci poniamo in termini di impegno, di partecipazione, di coinvolgimento intellettuale come spettatori di questo conflitto dovremmo farci carico di accogliere un pluralismo prospettico che sia capace di non accomodarsi su narrazioni monocausali, che siano quelle filoisraeliane della lotta della civiltà contro la barbarie o quelle filopalestinesi della lotta di liberazione coloniale.

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Note
[1] https://ilmanifesto.it/yaeesh-indagato-allaquila-pianificava-attentati-suicidi
[2] https://www.crui.it/archivio-notizie/cessate-il-fuoco.html 
[3] https://www.laquilablog.it/palestina-protesta-studentesca-il-rettore-alesse-falso-affermare-che-luniversita-non-abbia-preso-posizione/ 
[4] https://www.globalist.it/world/2024/06/11/sinwar-definisce-le-vittime-civili-di-gaza-sacrifici-necessari/
[5] https://www.lemonde.fr/en/opinion/article/2024/03/15/judith-butler-by-calling-hamas-attacks-an-act-of-armed-resistance-rekindles-controversy-on-the-left_6621775_23.html
[6] https://www.invictapalestina.org/archives/6410
[7] https://prismreports.org/2024/02/05/queer-people-organizing-solidarity-palestine/
[8] https://www.bbc.com/news/world-middle-east-63174835
[9] https://www.youtube.com/watch?v=O8OCvT4ysLI 
[10] https://www.unita.it/2024/05/22/spagna-irlanda-e-norvegia-riconoscono-la-palestina-netanyahu-non-ha-un-progetto-di-pace-e-israele-ritira-gli-ambasciatori/
[11] https://agenpress.it/2024/05/19/salman-rushdie-se-esistesse-uno-stato-palestinese-sarebbe-talebano-governato-da-hamas-e-stato-satellite-delliran/
[12] https://www.rainews.it/articoli/ultimora/Arabia-Saudita-1301-le-vittime-del-caldo-morte-durante-il-pellegrinaggio-alla-Mecca-055e69ed-fcda-4fa4-b4c2-7514e591a088.html#:~:text=L’Arabia%20Saudita%20ha%20reso,sottolineato%20le%20autorità%20di%20Riad.
[13] https://www.cesnur.org/2004/statuto_hamas.htm
[14] https://www.youtube.com/watch?v=0VAjt4MUjzA
[15] https://www.pcpsr.org/en/node/980
[16] https://www.pewresearch.org/global/2024/05/30/israeli-views-of-the-israel-hamas-war/
[17] https://www.memri.org/reports/hamas-leader-abroad-khaled-mashal-we-thank-great-student-flood-american-universities-we-want
[18] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/gaza-lo-scaricabarile-sulla-pace-177445?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTAAAR15ergPnGfpXj5XaR7oV2YCtCJRiYFl-qk_MtnUmtJeKov07u0ax0-8yvU_aem_UKzG5s4X8iDB168voporLg
[19] https://www.cesnur.org/2004/statuto_hamas.htm 
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Antonello Ciccozzi, è professore associato di Antropologia culturale presso Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi dell’Aquila. Si è laureato con una tesi sulla teoria ciresiana dei dislivelli di cultura. S’interessa dei processi di rappresentazione sociale della diversità culturale, di causalità culturale in ambito giuridico, di antropologia del rischio, dell’abitare, delle istituzioni, della scienza, delle migrazioni. Ha svolto ricerche etnografiche nell’Appennino rurale, in contesti di marginalità giovanile urbana, in ambito post-sismico, in luoghi di lavoro precario dei migranti.

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