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Natura, filosofia e conoscenza nel pensiero di Lucio Anneo Seneca

9788804569909-itdi Sarah Dierna 

Dobbiamo, dunque, dar poco peso a tutto e sopportare tutto con indulgenza: è più da uomini ridere della vita che piangerne.

(Seneca, De tranquillitate animi, 15, 2) 

La fortuna di un incontro 

L’incontro con il pensiero di Lucio Anneo Seneca è uno dei più fortunati che si possa fare. Che ci si accosti ai suoi testi da filologi o critici del testo, che lo si faccia con disposizione filosofica o per diletto, da Seneca si impara sempre una tranquillità e una saggezza utili alla vita prima ancora che a qualsiasi professione.

Seneca è infatti uno di quei pensatori universali che sfugge alle singole categorie così da potere dire che è stato un esponente dello stoicismo senza essere uno stoico; si è avvicinato con zelo all’epicureismo senza essere epicureo; fu precettore del giovane Nerone senza essere maestro altrui più di quanto lo fosse per se stesso. La filosofia si manifesta in lui non come il mero esercizio di una professione, bensì come un atto di libertà a guadagno di se stessi; poiché «non differtur in diem qui se illi subiecit et tradidit: statim circumagitur; hoc enim ipsum philosophiae servire libertas est» (Non subisce rimandi da un giorno all’altro chi si è sottomesso e consegnato alla filosofia: viene immediatamente emancipato, perché questo servire la filosofia è di per se stesso un atto di libertà) [1].

Se, come ci ha insegnato Platone, filosofare è prepararsi a morire, il pensiero di Seneca coglie in pieno il senso di questo compito mostrando il significato e il fine pratico della filosofia, ponendola al servizio dei nostri giorni, offrendosi come una fucina che aiuta la mente a saper vedere l’oro laddove c’è il fango.

31jq6jnvccl-_ac_uf10001000_ql80_Disattendendo le aspettative di coloro che scorgono in essa un mero sapere teorico e astratto, dai precetti di Seneca si impara a intendere l’esercizio filosofico come «un’arte di vivere, […] un atteggiamento concreto, […] uno stile di vita determinato, che impegna tutta l’esistenza» [2], un sapere il tempo, la morte, la vita, la virtù e la pratica della filosofia; argomenti che mai si escludono e sempre invece si fondono insieme sollecitandosi a vicenda «come a dire», afferma Carlo Carena, «che il mondo è troppo ricco e l’anima nostra troppo complessa, incostante, incoerente, per racchiuderli in pochi, forti e universali princìpi, mentre il tessuto stesso della vita obbliga il saggio, se lo è veramente, a misurarne la complessità e a guidare i suoi simili non lungo una linea retta, non entro una disciplina rigorosa, ma per meandri oscuri, per soprassalti in cui l’incontro con un’idea, con una situazione, fa zampillare la ricchezza della filosofia che è quale quella della vita stessa» [3]. 

Amor fati 

Nell’epicureismo, e più in generale nel pensiero antico, la filosofia si presenta come un’indagine fisica di cui l’etica è il riflesso prassico che scaturisce dalla conoscenza del mondo non quale dovrebbe essere ma quale effettivamente è. Più precisamente, l’intellettualismo etico costituisce il basamento sul quale è possibile pensare, intendere e praticare gli esercizi spirituali nei quali consiste la saggezza.

È convinzione di Seneca che «initium est salutis notitia peccati» (Inizio di salute è la consapevolezza dell’errore commesso), poiché «qui peccare se nescit corrigi non vult; deprehendas te oportet antequam emendes» (Chi non sa di sbagliare, non vuole neppure correggersi; conviene dunque che tu ti sorprenda in errore prima di cominciare a correggerti (III; 28, 9: 149).

c3a7d5fa40cf4f93b90102b7f7ba46c5-1Conoscere se stessi e il mondo, accettare il reale che ci spetta di vivere è la strada più sicura per mantenersi sereni dinnanzi agli imprevisti della Fortuna senza farsi trovare impreparati. Il Fato raccoglie tutto ciò che non è in nostro potere controllare e il suo peso si acuisce quando recapita un destino avverso e spesso difficile da sopportare. Una condizione che, a ben guardare – e Seneca preferisce ai precetti l’esempio –, definisce il nostro stare al mondo sempre esposto al caso, alla necessità della natura che difficilmente si può raggirare. La conoscenza, dal canto suo, non anticipa questi eventi prima che accadano ma ricorda alla vita l’imprevisto che è e alla quale è esposta.

L’intervento inaspettato del fato non è mai prevedibile e spesso il colpo inferto dipende non dal tocco imprevisto ma dalla sua natura distante, diversa e inattesa rispetto agli interessi, alle aspettative e alla significazione del mondo che la mente umana si prepara a sostenere. L’amico Sereno al quale Seneca si rivolge vivrebbe assai più pacificamente se ricordasse a se stesso che non sempre le cose andranno come egli desidera ma andranno certamente come pensa se il suo pensiero si accorda con l’accadere naturale del mondo. Detto altrimenti, «prospiciendo malorum omnium impetus molliet, qui ad praeparatos expectantesque nihil adferunt novi; securis et beata tantum spectantibus graves veniunt» (prevedendo tutto il possibile come se gli dovesse accadere, smorzerà ogni assalto delle sventure, che non costituiscono una novità per chi è preparato e se le aspetta, ma riescono gravose esclusivamente a chi si crede sicuro e si prospetta solo il bene) [4].  Aggiunge Seneca: 

«Morbus est, captivitas, ruina, ignis ; nihil horum repentinum est: sciebam, in quam tumultuosum me contubernium natura elusisset. Totiens in vicinia mea conclamatum est; totiens praeter limen immaturas exequias fax cereusque praecessit; saepe a latere ruentis aedificii fragor sonuit; multos ex iis, quos forum, curia, sermo mecum contraxerat, nox abstulit et iunctas sodalium manus capulus interscidit. Mirer ad me aliquando pericula accessisse, quae circa me semper erraverint? 
Capita una malattia, una prigionia, un crollo, un incendio: nulla di ciò mi coglie di sorpresa. Sapevo in che tumultuosa coabitazione natura m’aveva rinchiuso. Tante volte s’è gridato al fuoco nel vicinato, tante volte ho visto uscire dalle case funerali di giovinetti, con torce e ceri, tante volte m’è risuonato accanto il fragore d’un crollo d’edificio, tanti di quelli con i quali ho contatti nel foro, nella curia, nelle conversazioni, se li è portati via la morte in una notte e l’ho vista anche disgiungere strette di mano d’amici. Dovrei meravigliarmi d’essere stato raggiunto dai pericoli che m’ero sempre sentito ronzare attorno?»[5]. 

Prepararsi all’incedere dei mali futuri non significa trascinarsi nell’attesa spasmodica di ciò che ancora non c’è, bensì pensare e agire nella consapevolezza della natura fortuita del divenire. Amor fati è la formula più riuscita per indicare tutto questo.

La Fortuna non esclude la possibilità del Logos universale, il principio ordinatore del cosmo poiché ciò che alla mente umana appare imprevisto e casuale è solo ciò che le sfugge della comprensione dell’ordine cosmico. Un ordine il cui disegno non risponde a istanze umane ma corrisponde appunto alla perfezione del cosmo. La filosofia è l’esercizio che consente all’umano di intuire, di sapere e di accordarsi con questo schizzo:

«Semina in corporibus humanis divina dispersa sunt, quae si bonus cultor excipit, similia origini prodeunt et paria iis ex quibus orta sunt surgunt: si malus, non aliter quam humus sterilis ac palustris necat ac deinde creat purgamenta pro frugibus» (Semi divini sono sparsi in ogni corpo umano. Se un buon coltivatore li accoglie, producono germogli del tutto conformi alla loro origine e si sviluppano con caratteristiche uguali a quelle dell’essere da cui hanno tratto vita; se invece il coltivatore è inetto, ne provoca – non diversamente da un terreno sterile e paludoso – la morte e fa crescere erbacce invece di biade) (VIII; 73, 16: 417).

La verità di questo mondo non è lineare, bensì ricurva. Il principio generativo è anche un principio di distruzione e di trasformazione, il quale obbedisce alla legge ciclica (pensabile come l’eterno ritorno nietzscheano) che poi la fisica definirà Principio di conservazione della massa, e fa in modo che 

«nihil eorum quae ab oculis abeunt et in rerum naturam, ex qua prodierunt ac mox processura sunt, reconduntur consumi: desinunt ista, non pereunt, et mors, quam pertimescimus ac recusamus, intermittit vitam, non eripit […]. Observa orbem rerum in se remeantium: videbis nihil in hoc mundo extingui sed vicibus descendere ac surgere. Aestas abit, sed alter illam annus adducet; hiemps cecidit, referent illam sui menses; solem nox obruit, sed ipsam statim die abiget». 
Nessuno degli esseri che scompaiono dalla nostra vista per tornare nel grembo della natura, da cui sono venuti e da cui ben presto usciranno di nuovo allo scoperto, si riduce a nulla: raggiungono il loro termine, ma non periscono, e la morte, che noi temiamo e rifiutiamo, interrompe la vita, non la cancella. […] Ciò che sembra perire si trasforma […]. Osserva il ciclo delle cose che tornano al loro stato originario: vedrai che in questo universo nulla si estingue, ma alternativamente declina e risorge. L’estate se ne va, ma un anno nuovo la ricondurrà: l’inverno è bruscamente terminato, ma la sua stagione lo porterà di nuovo; il sole è subissato dalla notte, ma ben presto questa sarà cacciata dal giorno» (IV; 36, 10-11: 185). 

La natura ciclica del cosmo, essendo il Logos un principio di cui l’umano possiede il seme, si manifesta anche a livello esistenziale; il fenomeno umano si illude di compiere passi inediti, lineari e diretti versa una meta nuova non ancora solcata ma il suo cammino è invece ripetitivo e il suo approdo già raggiunto. 

«“Quousque eadem? Nempe expergiscar dormiam, edam esuriam, algebo aestuabo. Nullius rei finis est, sed in orbem nexa sunt omnia, fugiunt ac sequuntur; diem nox permit, dies nocte, aestas in autumnum desinit, autumn hiemps instat, quae vere conpescitur; omnia sic transeunt ut revertauntur. Nihil novi facio, nihil novi video: fit aliquando et huius rei nausea”. Multi sunt qui non acerbum iudicent vivere sed supervacuum.
“Per quanto tempo ancora le stesse cose? Dunque mi sveglierò, dormirò, avrò fame, sentirò freddo, sentirò caldo. Nulla volge al termine, ma tutti gli elementi della realtà sono connessi tra loro in un ciclo, fuggono e si susseguono. il giorno è incalzato dalla notte, la notte dal giorno, l’estate sfocia nell’autunno, l’autunno è rincorso dall’inverno, che, a sua volta, è sopraffatto dalla primavera. Così tutto passa e ritorna. Non faccio nulla di nuovo, nulla di nuovo io vedo. Talvolta si prova nausea anche di questo”. Sono molti coloro che non giudicano un’atrocità il vivere, ma qualcosa di assolutamente inutile» (III; 24, 26: 133). 

Tale meccanismo di ripetizione si può disinnescare soltanto comprendendone il gioco e osservandolo accadere. Diventa dunque chiaro perché la fisica occupi un posto privilegiato nella filosofia degli antichi. È la fisica, vale a dire la conoscenza veritiera del reale a indicare la strada per il retto agire e il retto pensare. La mente che ben pensa, per gli stoici, è infatti la mente che si accorda con la Ragione universale. Il sapiente, o per meglio dire il filo-sofo – essendo la sapienza un ideale rispetto al quale l’umano è sempre in cammino – deve prima di tutto abbandonare i troppo umani topoi mediante i quali l’intelletto aggiunge alla rappresentazione del reale le proprie impressioni, esito dei propri giudizi, delle proprie passioni e desideri. Bisogna abbandonare questa ‘appercezione’ troppo umana e sforzarsi invece di assumere una prospettiva cosmica e universale. Da questa distanza è possibile un’osservazione inedita e più conciliante: «Ora ciò che era noioso o terrificante», scrive un fine conoscitore del mondo antico quale fu Pierre Hadot, «assume un nuovo aspetto. Tutto diventa familiare all’uomo che identifica la sua visione con quella della natura: non è più uno straniero nell’universo. Nulla lo stupisce, poiché è nella sua patria, nell’ “amata città di Zeus”. […] La trasformazione dello sguardo apporta dunque una riconciliazione tra l’uomo e le cose. Agli occhi dell’uomo familiarizzato con la natura tutto ritrova una sua nuova bellezza» [6].  

9788804800019_0_0_536_0_75Amici del tempo, amici di se stessi 

La riconquista più difficile da tentare, in questo sguardo che ritrova nuova bellezza, è quella di noi stessi. Il destinatario del De brevitate vitae si accinge a lasciare l’attività pubblica e a ritirarsi a vita privata. Tale condotta non si raggiunge soltanto con il maturare degli anni; il significato più alto di questo ritiro consiste nel ristabilire la compagnia di se stessi, la pienezza del nostro tempo. L’essere umano è profondamente consapevole del destino mortale che determina la sua vita diffondendo nell’animo l’angoscia, il timore e l’ansia del finire.

È curioso che nonostante questa inevitabile condizione che dà al nostro tempo una scadenza – benché non ci sia dato sapere con precisione quale essa sia – l’umano sia più impegnato a sprecare il proprio tempo anziché viverlo in modo felice, sereno e onesto, vale a dire sui passi di un’autentica saggezza.  

«Omnia licet, quae umquam ingenia fulserunt, in hoc unum consentiant, numquam satis hanc humanarum mentium caliginem mirabuntur. Praedia sua occupari a nullo patiuntur et, si exigua contentio est de modo finium, ad lapides et arma discurrunt; in vitam suam incedere alios sinunt, immo vero ipsi etiam possessores eius futuros inducunt. Nemo invenitur, qui pecuniam suam dividere velit; vitam unusquisque quam multis distribuit! Adstricti sunt in continendo patrimonio, simul ad iacturam temporis ventum est, profusissimi in eo, cuius unius honesta avaritia est.
Tutti gli splendidi geni del passato – scrive Seneca a Pompeo Paolino – sebbene siano già d’accordo su questo punto, non finirebbero mai di stupirsi di codesta cecità mentale degli uomini: non permettono a nessuno di occupare i loro poderi e, se nasce la minima contesa di confine, danno di piglio ai sassi ed alle armi; intanto lasciano entrare gli altri nella loro vita, anzi, sono proprio loro ad introdurvi i futuri padroni; non se ne trova uno disposto a spartire il proprio denaro, ma tra quanti ciascuno ripartisce la propria vita! Sono economi nel tener stretto il loro patrimonio ma, non appena si tratta di perdere tempo, diventano quanto mai prodighi dell’unico bene di cui è bello essere avari» [7]. 

La nostra esistenza è troppo spesso una condotta di vita inattuale nella quale elaboriamo buoni propositi nel presente in vista di un futuro troppo incerto, imprevedibile e lontano perché ammetta dei progetti: 

«quem tandem longioris vitae praedem accipis? Quis ista sicut disponis ire patietur? Non pudet te reliquias vitae tibi reservare et id solum tempus bonae menti destinare, quod in nullam rem conferri possit? Quam serum est tune vivere incipere, eum desinendum est! Quae tam stulta mortalitatis oblivio in quinquagesimum et sexagesimum annum differre sana consilia et inde velle vitam inchoare, quo pauci perduxerunt!
Ma chi ti garantisce, a conti fatti, che la tua vita durerà di più? Chi farà andare le cose secondo questi tuoi progetti? Non ti vergogni di riservarti i rimasugli della vita e di destinare ai buoni pensieri soltanto quel tempo che non può essere devoluto a null’altro? Non è troppo tardi cominciare a vivere, quand’è ora di smettere? Non è stoltezza dimenticarsi d’essere mortali al punto di rinviare ai cinquanta o ai sessant’anni i saggi propositi, e voler cominciare la vita da un traguardo che pochi raggiungono?» [8]. 

Sono tutte domande giuste che aiutano a capire la percezione umana del tempo, il fuso orario esperienziale/esistenziale che dà l’impressione che il tempo sia poco e che la vita duri una manciata di secondi mentre assai più vero è che iniziamo a vivere tardi, quando ci accorgiamo che i granelli della clessidra rimasti sono pochi e alla base se ne sono accumulati molti. Siamo sempre preoccupati per una morta stagione che non esiste più, sulla quale qualsiasi rimuginio è sterile, oppure è il futuro a richiamare la nostra attenzione; nell’uno come nell’altro caso la nostra infelicità dipende comunque da una condizione che non esiste più o non esiste ancora; «nemo tantum praesentibus miser est. Nessuno è infelice soltanto per la situazione presente» (I, 5, 9: 19).

Ai prigionieri del futuro Seneca fa notare come spesso le circostanze che ci spaventano sono «più numerose di quelle che ci opprimono e soffriamo più spesso per la nostra immaginazione che per la realtà concreta» e raccomanda quindi a Lucilio come a noi «ne sis miser ante tempus, cum illa quae velut inminentia expavisti fortasse nunquam ventura sint, certe non venerint. Quaedam ergo nos magis torquent quam debent cum omnino non debeant; aut augemus dolorem aut praecimus aut fingimus» (di non affliggerti prima del tempo, perché quei mali che hai temuto come se ti pendessero sul capo, forse non verranno mai e, comunque, non si sono ancora presentati. Dunque certi stati d’animo ci tormentano più di quanto dovrebbero, altri ci assillano prima del tempo dovuto, altri ancora ci affliggono, mentre non lo dovrebbero affatto: o accresciamo il dolore o lo anticipiamo o lo immaginiamo) (I, 13, 4-5: 57); con la conseguenza di non occuparci invece dell’unica cosa che possediamo veramente: il nostro presente.

imagesIl tempo è inquieto anche perché è fugace. È un appena che custodisce dentro di sé anni, amori, affetti; che nella sua brevità custodisce la giovinezza e la vecchiaia, la vita che sembra agli umani che la percorrono un lungo intervallo e invece non è che un punto di cui «hoc minimum specie quadam longioris spatii natura derisit: aliud ex hoc infantiam fecit, aliud pueritiam, aliud adulescentiam, aliud inclinationem quandam ab adulescentia ad senectute, aliud ipsam senectutem. In quam angusto quodam quot gradus posuit!» (la natura si prese gioco anche di questo nonnulla facendolo apparire alquanto più lungo: lo divise in varie parti e in successione ne ricavò l’infanzia, la fanciullezza, l’età giovanile, la china che va dalla giovinezza alla vecchiezza, la stessa età senile. In un arco di tempo così angusto quanti tratti in salita!) (V, 49, 3: 237).

Anche a causa di questa brevità Seneca consiglia al suo Lucilio, e quindi a noi, di non rimandare nulla e di disporre il nostro animo come se fosse in ogni momento giunto al limite. Bisogna rimanere in pari con la vita, e cioè renderla completa giorno dopo giorno senza differire niente, senza niente rimandare perché 

«maximum vitae vitium est quod inperfecta semper est, quod [in] aliquid ex illa differtur. Qui cotidie vitae suae summam manum inposuit non indiget tempore; ex hac autem indigentia timor nascitur et cupiditas futuri exedens animum. Nihil est miserius dubitatione venientium quorsus evadant; quantum sit illud quod restata ut quale sollicita mens inexplicabili formidine agitatur;
il più grande difetto della vita consiste nell’essere sempre incompiuta e nel nostro differire a più tardi una parte di essa. Chi ogni giorno ha dato alla propria vita l’ultima rifinitura, non ha penuria di tempo. Proprio da questa penuria hanno origine la paura e il desiderio ardente di futuro, un sentimento, questo, che rode l’animo. Non v’è nulla di più compassionevole dell’incertezza che coinvolge l’esito di eventi futuri: angustiata per quel che ci resta della nostra esistenza o per la qualità della vita, la nostra mente si agita in preda a paure da cui non sa districarsi» (XVII, 101, 8: 793-795). 

Vivere nel presente significa non subire la vita passivamente, «hoc a me exige, ne velut per tenebras aevum ignobile emetiar, ut agam vitam, non ut praetervehar» (Devi esigere che io non percorra una squallida esistenza come attraverso le tenebre, che gestisca la mia vita, non che passi accanto a essa, passivamente) (XV, 93, 7: 677). La peculiarità dell’uomo saggio è infatti di riuscire a dominare la vita e a non lasciarsi trascinare da essa. Dominare la vita significa prima di tutto conoscere la natura nel suo complesso e la natura specifica dell’umano; significa quindi non obbedire alle sue leggi, ma essere d’accordo con esse, cosa ben diversa, e quindi seguirle. È veramente saggio ed è veramente felice non colui che spera, ma colui che accetta.

Una simile condotta di vita richiede all’umano di agire secondo ragione, di fare di essa – dirà Spinoza qualche secolo dopo – la passione più grande. Acquisire questa virtù significa allora attingere a una disposizione mentale nuova e capace di vivere in modo pacato, quieto e riappacificato con se stessi. Spesso l’altro nome di questa virtù è onestà; a essa non corrisponde soltanto un atteggiamento leale, corretto e giusto con gli altri ma anche con la verità. Il saggio è onesto perché rimane allineato con la verità, è in grado di vederla e quindi di sopportarla.

L’uomo saggio si nota infatti assai più nelle situazioni avverse che in quelle tranquille, nelle situazioni dove, mentre tutti sono in preda a preoccupazioni e turbamenti, egli rimane saldo in se stesso. La ragione del male non è allora esterna bensì interna all’umano e consiste nel 

«succidere mentem et incurvari et succumbere. Quorum nihil sapienti viro poteste venire: stat rectus sub quolibet pondere. Nulla illum res minorem facit; nihil illi eorum quae ferenda sunt displicet. Nam quidquid cadere in hominem potest in se cecidisse non queritur. Vires suas novit; scit se esse oneri ferendo;
vacillare e il piegarsi e il soccombere della mente. Nessuno di questi mali può capitare all’uomo saggio: egli sta dritto sotto qualsiasi peso. Nulla lo sminuisce, nessuna gli spiace di quelle prove che è chiamato a sopportare. Infatti, se tutto ciò che può abbattersi su un uomo si è abbattuto anche su di lui, il saggio non se ne lamenta. Conosce le proprie forze, si rende conto di esistere per portare un fardello» (VIII, 71, 26: 399). 

Infine, il saggio è colui che sa lasciare andare senza ostinarsi inutilmente quando le circostanze non sono favorevoli; soprattutto è colui che asseconda il demone/carattere di cui la natura ha dotato ciascuno di noi così da richiedere a noi stessi ciò che ci è possibile fare senza forzatura. Assecondare la natura e accettare le sue condizioni aiuta a renderci le cose meno odiose, a non esacerbare il conflitto oltre misura e a prendere atto dei nostri limiti caratteriali. Non si tratta di rassegnazione ma di agire in modo coerente con la propria natura per non restare frustrati, delusi e infastiditi. D’altronde non è andando contro se stessi e la propria natura che si conquista ciò che si desidera, piuttosto si corre il rischio di sentirsi più facilmente delusi e di vivere comunque male.

In generale, la tranquillità d’animo – e qui c’è davvero c’è tutta la sapienza di Seneca – non è una imperturbabilità permanente, un’eutimia che non si lascia sfiorare dagli eventi, ma consiste più perspicacemente nell’abilità dell’umano di ritrovare l’equilibrio e di ripristinare la propria quiete adattandosi a ciò che non gli è dato controllare. Laddove non ci è possibile fare niente per cambiare una situazione 

«Adsuescendum est itaque condicioni suae et quam minimum de illa querendum et quicquid habet circa se commodi adprendendum; nihil tam acerbum est, in quo non aequus animus solacium inveniat. Exiguae saepe areae in multos usus discribentis arte patuerunt et quamvis angustum pedem dispositio fecit habitabilem. Adhibe rationem difficultatibus; possunt et dura molliri et angusta laxari et gravia scite ferentis minus premere;
Bisogna, dunque, adeguarsi alla propria condizione, lamentarsene il meno possibile, cogliere tutti i vantaggi che essa presenta: non c’è situazione tanto amara, che l’equilibrio interiore non riesca a cavarne qualche motivo di conforto. Tante volte, superfici ristrette sono diventate ampiamente utilizzabili per merito dell’ingegnere che le ha sapute suddividere e una buona ristrutturazione ha reso abitabili localucci angusti. Applica la ragione alle difficoltà: diventa possibile che il duro s’ammorbidisca, l’angusto s’allarghi e che il carico, portato avvedutamente, risulti meno pesante» [9]. 

L’abitudine è una grande qualità che la natura ha concesso all’umano per fare fronte alle avversità. È negativa quando, come teme Sereno, comporta il rischio di immobilizzare le cose e di radicarle così da non riuscire a divincolarsene poiché si finisce con l’adattarvisi; è positiva quando invece si offre come lenimento delle disgrazie rendendocele col tempo familiari e facendo sì che l’individuo vi si adatti per affrontarle meglio.

Sopra ogni cosa bisogna ricordare la più nobile verità che il maestro rammenta all’amico: la pochezza delle faccende umane per le quali è sempre più consono ridere che piangere. Sapere quanto basso sia il peso di simili faccende e averne una considerazione coerente che ne colga il ridicolo prima ancora della miseria significa ridurre fortemente la grandezza di certi affari, ridimensionarli e quindi non lasciarsi coinvolgere più del dovuto.

Come si vede, la chiave per un’amicizia stabile con se stessi non richiede obblighi, rinunce, obbedienza, bensì una consapevole accettazione della natura: «Accettare se stessi, accettare la realtà, per potere giudicare» [10]. 

2732793b0a9f47df9fadf8ee1c7feb84La filosofia: un esercizio di pensiero bello, difficile e raro 

L’ausilio più grande concesso all’umano per sapersi ben condurre nei torbidi dell’esistenza è senza dubbio il sapere filosofico, al quale Seneca esorta di dedicarsi con tutto se stessi, e non come un ritaglio rispetto ad altre occupazioni quotidiane.

Essa esige un impegno quotidiano, attento e costante poiché non si tratta di un esercizio di pensiero astratto, tra gli altri che si possono compiere, piuttosto essa guida la navigazione nel mare increspato della nostra vita: 

«Non in verbis sed in rebus est. Nec in hoc adhibetur, ut cum aliqua oblectatione consumatur dies, ut dematur otio nausia: animum format et fabricat, vitam disponit, actiones regit, agenda et omittenda demonstrat, sedet ad gubernaculum et per ancipitia fluctuantium derigit cursum. Sine hac nemo intrepide potest vivere, nemo secure; innumerabilia accidunt singulis horis quae consilium exigant, quod ab hac petendum est.
Non consiste in parole, ma in fatti concreti, e non si esercita per passare il giorno in maniera divertente, per eliminare un certo disgusto legato allo svago: la filosofia dà forma e struttura all’animo, mette ordine nella vita, regola le nostre azioni, indica ciò che si deve fare e quello che è opportuno tralasciare, è seduta al timone e dirige la rotta dei naviganti in balia dei marosi. Senza di lei nessuno può vivere con fermezza d’animo e in sicurezza: di ora in ora si producono innumerevoli situazioni e queste esigono suggerimenti che bisogna chiederle» (II, 16, 3: 77-79). 

Nella lettera 89, contenuta nel libro XIV, si trovano parole splendide per verità e bellezza rivolte alla filosofia quale sapere che guida la mente alla saggezza: «philosophia sapientiae amor est et adfectatio; la filosofia è l’amore per la saggezza e il tentativo appassionato di raggiungerla» (XIV, 89, 4: 611). Mentre le arti liberali sono senz’altro utili e contribuiscono a disporre l’animo verso la saggezza, la filosofia soltanto alimenta il fuoco delle virtù facendo divampare la scintilla che la natura ha fornito per disposizione agli esseri animati dotati di parola.

La vera filosofia è questa fiamma che trasforma quell’effimero che noi siamo permettendo di ricomprenderci in modo più veritiero senza suscitare disperazione però ma soltanto una condotta più saggia, pacata e ragionata che non si illude su niente e accetta l’istante: «Questa è la lezione della filosofia antica: un invito per ogni uomo a trasformare se stesso. La filosofia è conversione, trasformazione della maniera di essere e del modo di vivere, ricerca di saggezza» [11].

Un compito non facile e durante il quale l’umano deve fare i conti con il proprio carattere, il temperamento e le passioni che spesso offuscano il cammino. Ma la filosofia non nasconde a se stessa neppure questa difficoltà e Hadot cita opportunamente l’Ethica di Spinoza: «“Se, ora, la via che ho mostrato condurre a questa meta [alla condizione sapiens] sembra difficilissima, tuttavia essa può essere trovata. E senza dubbio dev’essere difficile ciò che si trova sì raramente. Come mai, infatti, potrebbe accadere, se la salvezza fosse a portata di mano, e si potesse trovare senza grande fatica, che essa fosse trascurata quasi da tutti? Ma tutte le cose sublimi sono tanto difficili quanto rare”» [12]. E tuttavia, se ci si mette ben in ascolto, questa difficoltà sarà ricompensata dalla conquista di una impagabile serenità. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025  
Note
[1] L.A. Seneca, Lettere morali a Lucilio, a cura di F. Solinas, Mondadori, Milano 2017: Libro I, 8, 7; 31. I riferimenti delle citazioni dalle lettere di Seneca saranno indicati direttamente nel testo con il numero del libro, della lettera e della pagina dell’edizione utilizzata.
[2] P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica (Exercices spirituels et philosophie antique, Editions Albin Michel, Paris 2002), a cura e con una prefazione di A.I. Davidson, Einaudi, Torino 2005: 31.
[3] C. Carena, Prefazione: ivi: IX.
[4] L.A. Seneca, De tranquillitate animi, in Tutte le opere. Dialoghi, trattati, lettere e opere in poesia, a cura di G. Reale, prefazione, traduzione e note di A. Marastoni, Bompiani, Milano 2018: 11,6; 214.
[5] Ibidem: 11,6-7.
[6] P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit.: 132.
[7] L.A. Seneca, De brevitate vitae, in Tutte le opere, cit.: 3,1; 230.
[8] Ivi: 3,4; 231.
[9] Id., De tranquillitate animi, cit., 10,4; 213.
[10] A. Marastoni, Prefazione, in L.A. Seneca, De tranquillitate animi, cit.:  199.
[11] P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit.: 166.
[12] Ivi: 166-167. 

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Sarah Dierna è dottoranda in Scienze dell’Interpretazione presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, dove collabora con la cattedra di Filosofia teoretica. Ha pubblicato saggi, articoli e recensioni per varie riviste scientifiche e su volumi collettanei. Nel 2023 ha curato, per Oxford University Press, la traduzione italiana di The Misanthropic Argument for Antinatalism di David Benatar. Del 2025 è la monografia È il nascere che non ci voleva. Storia e teoria dell’Antinatalismo (Mimesis).

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