di Luca Bertinotti
Nelle due giornate del 26 e del 27 ottobre scorso il Palazzo Comunale della città di Pistoia è stato amichevolmente invaso da una piccola folla che ha assistito al primo Convegno Nazionale Da borghi abbandonati a borghi ritrovati, incuriosita dai titoli delle sue molte relazioni e dai numerosi eventi-satellite [1]. L’iniziativa culturale è stata sostenuta da molti importanti Enti [2]. Prestigioso e folto è stato il gruppo di Relatori che hanno portato il proprio bagaglio di conoscenze. Il tema primario, che l’Associazione ‘9cento [3], promotrice dell’evento, ha chiesto loro di presentare, secondo vari punti di vista e nei suoi molteplici aspetti, è stato lo spopolamento delle aree interne della Nazione, con un excursus temporale che va dal periodo del “miracolo economico italiano” fino all’epoca attuale.
Il ricco scenario di conoscenze che ne è emerso ha trasceso di gran lunga il leitmotiv atteso per l’evento e fra gli argomenti toccati, ad esso direttamente o indirettamente connessi, vi sono stati molti temi di grande attualità e rilevanza sociale. Si è fatta menzione dei disastri naturali (sopra tutti, quelli legati ai fenomeni sismici) avvenuti negli ultimi decenni. Si è parlato di abuso edilizio, uno scellerato comun denominatore per una nazione costituita da realtà regionali spesso tanto diverse. Si è accennato alla mancanza di lavoro dei giovani d’oggi, ricordando l’ingenuo ottimismo della società italiana nel Dopoguerra, epoca d’oro, ben presto perduta, per aver ceduto alle lusinghe del “miracolo economico”, un miraggio rivelatosi distopico. Sono state toccate questioni sollevate dal fenomeno dell’immigrazione straniera nel nostro Paese che tanto inquieta parte della popolazione, ma che, forse, è un problema molto meno consistente rispetto a quello della perdita della memoria storica, dei valori sociali, delle tradizioni e del “senso di comunità” generatisi nell’epoca contemporanea.
Grazie alla presenza di molti soggetti e alla ricchezza dei contributi, non solo scientifici ma anche emotivi, apportati, è stato raggiunto, così, l’obiettivo di fornire uno spaccato forse non esaustivo, ma sicuramente ampio e ricco di diversi quesiti su cui riflettere e di spunti da approfondire in futuro.
In apertura dei lavori Vito Teti ha tenuto una lectio magistralis di grande respiro, raccontando di abbandoni, di resistenze, di restanze e di ritorni, citando alcuni passi scelti dai suoi scritti più celebri sull’argomento. Giancarlo Macchi Jánica ha fornito un quadro geografico molto interessante del fenomeno dello spopolamento, spaziando su molte aree del globo per concentrarsi infine su zone specifiche del senese. Di particolare rilevanza è stato, poi, l’intervento di Mario Ferraguti, che da anni studia ciò che resta della medicina tradizionale e degli aspetti magico-rituali (lavare la paura, allontanare il malocchio), ormai in via d’estinzione, della cultura popolare dell’Appennino tosco-emiliano. L’Italia si può ben definire un Paese di paesi in continua evoluzione demografica: di questo argomento ha parlato Rossano Pazzagli, approfondendo con un taglio storico-sociale il tema delle aree interne. Alberto Cipriani, prendendo le mosse da alcuni esempi pistoiesi, ha puntato l’attenzione sullo spopolamento dei borghi legato al cambiamento delle principali vie di transito e delle economie, avvenuto nel corso dei secoli. Antonio Mocciola ha poi ampliato nuovamente l’orizzonte con un resoconto, acuto e pungente, un vero e proprio viaggio all’interno dei paesi abbandonati d’Italia, più o meno celebri e differenti per tipologia e per cause di abbandono, ma accumunati dalla stessa triste fine. Moreno Baccichet, studioso esperto della montagna friulana, ha spiegato quali possono essere state le strategie di popolamento in epoche passate e i processi di abbandono nel XX secolo nei territori delle sue ricerche. Infine, Fabio Di Bitonto ci ha accompagnato fuori dai confini nazionali, citando molti esempi di cittadine estere, europee ed extraeuropee, andate deserte per le motivazioni più varie: cause ambientali, disastri naturali, mutamenti socio-economici e altro.
Nel secondo giorno del convegno ha iniziato a parlare Antonio Maccioni, raccontando dei paesi spopolati della sua Sardegna, regione flagellata dal fenomeno dell’abbandono, senza dubbio legato, come in altre zone d’Italia, all’isolamento e all’eccessiva lontananza di molti luoghi dai centri abitati maggiori. Inoltre, nell’isola è consistente la desertificazione collegata al tramonto dell’attività lavorativa di estrazione dei minerali: sono innumerevoli i borghi oggi abbandonati, che erano nati proprio per ospitare i lavoratori delle miniere, ormai in disuso. Rimanendo sempre nei territori che furono dei Savoia, ha preso poi la parola Beatrice Verri con un intervento vasto e di grande spessore: prendendo le mosse dalla trasformazione avvenuta a Paraloup, borgo cuneese in abbandono, grazie all’operato della Fondazione “Nuto Revelli”. La Direttrice ha parlato dell’esperienza del recupero delle baite che nel 1943 avevano ospitato la brigata partigiana “Italia libera” di Duccio Galimberti e di Livio Bianco. La rinata borgata di Paraloup è oggi un polo culturale dinamico che spazia in vari ambiti, dall’attività documentativa e di ricerca storica, alla realizzazione di importanti eventi culturali a carattere nazionale, all’impegno umanitario con la creazione di percorsi di accoglienza per gruppi di migranti, fino all’organizzazione di scuole per giovani agricoltori di montagna, ideate per favorire e coordinare un consapevole moto di ritorno e di ripopolamento dei territori alpini.
Proprio di agricoltura e, in particolare, di risorse vegetali residuali che i borghi in abbandono possono ancora ospitare [4] ha, quindi, parlato Carlo Vezzosi e, ancora, di antiche tradizioni alimentari, con particolare riferimento all’utilizzo totale della castagna, il “pan di legno”, ha discusso Claudio Rosati. Pietro Clemente ha riferito sulla “Rete dei Piccoli Paesi”, una realtà eterogenea di borghi non più o non ancora deserti [5], spesso fra loro lontanissimi, abitati da persone che «si danno da fare per dare vita e senso abitativo al proprio storico insediamento» e che si sono messi in contatto per trovare una via comune di resistenza alla scomparsa, puntando sulle tipicità locali (tradizioni, specificità agroalimentari, eventi culturali, etc..) come veicolo di rinascita.
Un esempio di valutazione a tutto tondo di un borgo in abbandono (ricerca storica, studio delle caratteristiche costruttive, raccolta della memoria storica degli ultimi abitanti, etc..), è stato poi portato da Valentina Cinieri, che di Embresi (PC) ha fatto argomento dei suoi studi di Ingegneria Civile e di Architettura. Ha concluso la sessione Diego Vaschetto, che ha mostrato con grande chiarezza e con lucida oggettività le difficoltà dinnanzi alle quali si trova chi si dedica alla visita dei borghi in abbandono. Vaschetto ha accompagnato la sua relazione, utile e molto pratica, con immagini accattivanti, da lui colte nelle varie escursioni fatte soprattutto nelle montagne piemontesi.
All’inizio dell’ultima sessione si è svolto uno degli interventi più attesi, quello di Mario Cecchi, uno dei fondatori del Popolo degli elfi. La particolarità del tema merita un approfondimento che verrà fatto più avanti. L’intervista è stata guidata da Alessandro Mencarelli, profondo conoscitore della comunità pistoiese e avvocato da sempre impegnato a sua tutela. Sono infine seguiti numerosi interventi brevi: Samuele Pesce ha parlato del rapporto simbiotico fra la ferrovia porrettana e la montagna Pistoiese; Cinzia Bartolozzi ha fatto un bel resoconto sui borghi dimenticati lungo le antiche vie di mezzacosta nel Pratese, territorio profondamente segnato dall’industrializzazione nel secolo scorso; Franco Matteoni ha raccontato dell’abbandono incipiente dei paesi della Limentra orientale di Sambuca, zona montuosa fra la provincia di Pistoia, Prato e Bologna. Federico Filoni Sforzi ha esposto la possibilità di sfruttare la creazione degli itinerari tematici per riqualificare i borghi abbandonati da un punto di vista storico-architettonico. Ancora, sono state riportate alcune testimonianze, inviatici da realtà vicine e lontane, inerenti a tentativi di recupero: è stata data lettura di un contributo scritto di Mirto Campi, sindaco di Fiumalbo (MO), posto poco oltre il confine tosco-emiliano in una regione ricca di piccoli centri in via di spopolamento o non più abitati; Angelo Artuffo e di Flavio Menardi Noguera (Centro Occitano Di Cultura “Detto Dalmastro”) hanno inviato un interessante documentario su Narbona di Castelmagno nel Cuneese; infine, Federico Panchetti ha fatto pervenire un dossier sul notevole sforzo compiuto dalla sua associazione per riportare in vita Laturo nel Teramano.
Infine, il convegno è stato arricchito da vari eventi [6] collaterali: proiezioni di film tematici, canti popolari, dimostrazioni di vecchi mestieri, esposizioni di oggetti antichi e delle fotografie [7] scattate nei borghi abbandonati di tutta Italia, alcune delle quali accompagnano il presente scritto.
Desideriamo ora riportare alcune riflessioni nate a conclusione del convegno. Senza voler cadere in sterili cliché autocelebrativi, riteniamo, che l’evento, pur con i suoi molti limiti, abbia rappresentato una pietra miliare nella questione della desertificazione dei villaggi italiani, tema questo tanto importante quanto poco conosciuto nella sua interezza nonostante sia un fenomeno vasto e variegato perché tocca trasversalmente molti ambiti di interesse e di studio. Tutto ciò si deve soprattutto al fatto che, per la prima volta, molti dei maggiori esperti dell’argomento (accademici e ricercatori a vario titolo) hanno potuto confrontarsi di persona e collegialmente. In questo senso sicuramente confortante è stato il feed-back fornitoci direttamente dagli “addetti ai lavori”, le cui attese sono state quanto meno parzialmente soddisfatte. Da parte nostra attendiamo con curiosità quelle che saranno le evoluzioni future del brain-storming prodotto dall’incontro di così tanti specialisti. Certamente possiamo intanto testimoniare che sono nati molti spunti di ricerca, ipotesi per il futuro, parallelismi di intenti e idee di collaborazione. Il desiderio di proseguire nella collezione e nell’analisi dei dati è emerso con forza così come i progetti di conoscenza, di mantenimento e, ove possibile, di recupero delle strutture in abbandono.
Chi, invece, fra i “non addetti ai lavori” ha ascoltato i molti interventi presentati è uscito dalla sala con la mente frastornata e trasformata. Spieghiamo meglio. È ormai a tutti nota la marcata discrepanza fra il mondo attuale e quello precedente agli ultimi 60-70 anni: il primo costituitosi con eccessiva fretta, mettendo ben presto e volentieri da parte il modus vivendi dell’antecedente passato, quello che, pur fra le molte difficoltà, era, però, più vero, più sano e, innegabilmente, più vicino alla natura. Il mutamento sociale è avvenuto, poi, troppo spesso in modo vorticoso e acritico. Le nuove economie di mercato si sono fatte avanti, sbandierando l’obiettivo, tanto meritevole in teoria, quanto inverosimile nella pratica, di innalzare l’asticella del benessere generale, senza dichiararne il prezzo da pagare: la scomparsa pressoché totale e generalizzata delle tradizioni negli angoli più piccoli e remoti d’Italia, luoghi che si sono così irrimediabilmente depauperati dei loro abitanti per sempre.
Tuttavia, è risultata evidente entro pochi decenni la fragilità strutturale — per non dire il retroterra di menzogna! — del nuovo sistema economico-industriale. Hanno resistito molto più a lungo le mura delle case dei villaggi abbandonati, costruite da mani guidate da una sapienza popolare millenaria! Mura e costruzioni così perfettamente inserite nel loro contesto territoriale da far gridare alla bellezza invece che allo scandalo, come troppo spesso capita di dire, osservando le strutture abitative moderne delle grandi città, più simili a disumani alveari che a case. Certamente, non in tutti i paesi abbandonati si percepisce questa naturale gentilezza edificatoria, ma in diversi luoghi, pur oggi in decadenza completa, si ha la netta sensazione che lì si potesse vivere bene: la “bellezza”, pur subissata dalla corrosione del tempo, riesce ad emergere ancora oggi e, così, ad essere percepita. Ci tornano alla mente centinaia di vedute su meravigliose catene montuose che dalle finestre rotte di abitazioni senza più uomini si possono ancora ammirare camminando, come naufraghi di montagna, in mezzo ai ruderi di quelli che erano un tempo borghi fiorenti. Il gusto del bello, il culto innato della piacevolezza dei luoghi e del vivere in un ambiente amabile e a misura d’uomo, caratteristiche che erano ricercate con cura al tempo dell’edificazione dei villaggi anche più disagiati, sembrano essere proprietà ormai non più essenziali per gli agglomerati di moderna fattura e, perciò, non vengono più contemplate.
Senza dubbio il ruinenlust [8] percepito, introiettato, studiato, elaborato e poi riproposto con rigore scientifico dagli studiosi che hanno “vissuto” l’abbandono, è riuscito ad arrivare agli astanti, molti dei quali hanno avvertito una vaga sensazione di sbandamento interiore, quasi una sorta di saudade verso una realtà perduta, ma così intensa e pregnante che immancabilmente ne risveglia la nostalgia.
Tuttavia, il romanticismo delle terre abbandonate e gli aspetti bucolici dei borghi deserti non potevano essere il solo fil-rouge del convegno. Non è affatto un dogma che borghi oggi abbandonati un tempo ospitassero abitanti dall’esistenza sempre felice. Appaiono ovvie alcune delle problematiche determinate dall’isolamento: basti citare soltanto la difficoltà di accesso all’istruzione e alle cure mediche in caso di emergenza. Donatella Acconci [9], inoltre, ci mette in guardia dall’idealizzare la vita delle campagne e delle valli alpine e appenniniche, rammentandoci la reale qualità di vita in alcuni villaggi montani che erano in condizione igienico-sanitaria terrificante. A tal proposito è utile riproporre di seguito alcune delle interviste riportate dalla stessa Autrice:
«Avvicinandosi a queste abitazioni noi vediamo la stradicciola, che vi dà accesso tutta lorda di una melma nerastra e puzzolente, formata dalle deiezioni degli animali, le quali, per difetto di stramaglie, trapelano attraverso i muri delle stalle e vengono a spandere per tutto l’abitato le loro deleterie emanazioni. Penetrando poi nelle abitazioni, costrette per lo più a mezza costa, e quindi parzialmente internate nel terreno, si riscontrano ambienti umidi e fangosi in cui le vegetazioni crittogamiche spuntano per ogni dove, ove le pareti coperte di muffa dimostrano in quali tristi condizioni igieniche le medesime si trovino, quale nefasta influenza tali condizioni debbano esercitare sulle infelici creature che ivi debbono fare soggiorno».
«Fummo accompagnati nella prima casa della borgata, da quelli della Font. Qui ci rifocillammo e ci ospitarono per la notte in una tiepida camera soprastante la stalla. Dalle fessure del pavimento si vedevano le mucche sdraiate: ruminavano, scuotevano il campanaccio, sospiravano profondamente. Il mattino dopo venne il Sindaco e mi accompagnò nella scuola. Il pianterreno era adibito a fienile; il primo piano costituito da un solo locale nel quale, mediante un tramezzo, era stata ricavata una cameretta per me: una specie di cella francescana. [...] Il tramezzo di legno che delineava la mia cameretta era stato tappezzato con giornali incollati con pastella di farina di grano. Quella colla piaceva anche ai topi. A frotte arrivavano di notte, quando tutto era silenzio. Il mio terrore era che si infilassero sotto le coperte e mi venissero a saltare sul viso. Allora accendevo il lumino, prendevo una ciabatta e, trattenendo il respiro, menavo un colpo dove vedevo un palpitante gonfiore sotto la carta e il topo rimaneva stecchito».
«Il piano terreno è sempre occupato dalla stalla, per lo più semisotterranea, bassa, oscura, umida, senza intonaco, priva d’aria, quindi pregna di esalazioni animali ed umane (poiché l’aria penetra dalla sola porticina che raramente arriva a più di m 1,60 di altezza); antri in cui non dovrebbero vivere neppure le bestie, nonché gli uomini; che invece vi passano la maggior parte dell’inverno accanto alle mucche, alle galline, e qualche volta al maiale e al mulo. Essa serve abitualmente da abitazione non solo per i sani, ma anche per i malati e qualche volta le madri vi danno alla luce i figli, poiché è l’unico ambiente caldo di cui la famiglia dispone. [...] Chi entri in questi locali può vedere un vano scuro con una cubatura assolutamente insufficiente (altezza metri 2 e sovente anche meno); torno torno a due lati vi è una panca su cui appunto d’inverno siedono gli uomini occupandosi del bestiame e aggiustando gli attrezzi per l’estate, e le donne a sferruzzare».
«L’inverno a Bellino è molto rude, così è facile capire perché gli abitanti abbiano scelto la stalla per viverci: il fondo della stalla è riservato alle mucche, mentre la gente resta vicino alla porta. Fuori la neve impedisce tutti i lavori agricoli, tuttavia gli abitanti approfittano delle condizioni del terreno per trasportare il concime sui campi con l’aiuto di grandi slitte. [...] Quando il tempo non permette di mettere il naso fuori di casa, tutti restano nella Voùto per occuparsi dei lavori domestici o far visita agli amici. Queste giornate sono utilizzate per costruire mobili, utensili. [...] Durante tutto l’inverno le lunghe serate sono occupate da veglie: ci si rende visita l’un l’altro, da una stalla all’altra e ci si diverte, si beve, si balla e si raccontano storielle».
Inoltre, nel 1973 Giuliano Zincone, citato sempre nel libro della Acconci, scriveva:
«Chi fantastica armoniosi ritorni alla “vita primitiva”, probabilmente ha negli occhi un qualche bel casolare umbro rimesso a nuovo, un paesino del Chianti acquistato in blocco da una colonia inglese, un caldo chalet montano con tetto di erba, un villaggio di pescatori inventato dall’Aga Kahn, una Sardegna candida, un Abruzzo (rispettosamente) lottizzato, una Calabria riverniciata. Pochi ricordano che “i primitivi” sono stati cacciati di casa dalla fame, dal freddo, dalla solitudine, dalla pellagra, dall’anemia mediterranea. Questa è la vita “a misura dell’uomo”, per chi è rimasto nell’Italia subalterna. Il panorama nazionale, del resto, lascia ben pochi margini all’idillio: due famiglie su tre non hanno acqua calda né riscaldamento, solo 17 famiglie su cento hanno il telefono, la stanza da bagno (o doccia) è sconosciuta per metà dei cittadini» [10].
E ancora lo stesso giornalista:
«Nei piccoli paesi, nelle frazioni di montagna, nelle valli dove l’agricoltura arretrata è vissuta come una condanna all’inutilità, la solitudine e l’inerzia sono incubi permanenti. E il vino, l’alcool, sembra l’unica medicina. Nel Trentino dove l’alcoolismo è una piaga tradizionale, le contraddizioni tra società agricola ed embrioni di sviluppo industriale hanno aggravato la già forte tendenza a cercare conforto nella grappa; negli ultimi dieci anni la percentuale degli alcoolizzati è più che raddoppiata» [11].
Anche nel corso del convegno di Pistoia è stato fatto cenno ai lati negativi della vita nell’ambiente agreste prima della modernizzazione avvenuta in Italia a partire dalla seconda metà del 1900. Un’analisi onesta della realtà, infatti, oltre a rendere conto dell’autenticità e di una più profonda armonia con gli elementi naturali, che l’abitare lontano dai grandi agglomerati cittadini permette, non può prescindere dal prendere in considerazione anche le difficoltà e le “brutture” [12], che tormentavano l’esistenza di chi abitava nelle zone disagiate. Una presa di posizione assoluta e acritica a favore dei “bei tempi passati” appare dunque insensata. D’altronde, alla domanda «Lei ritornerebbe a vivere con le stesse condizioni nel suo paese di origine?», gli ultimi abitanti di borghi attualmente abbandonati che lo scrivente ha intervistato durante i suoi viaggi hanno risposto per lo più negativamente, anche quando affermavano di ricordare con piacere la loro vita “di prima”.
Eppure non si può ignorare il fatto che ci sono anche gli ultimi che resistono e che restano finché possono. C’è stata Teresa, scomparsa all’età di 85 anni, che ha vissuto in solitudine per più di 20 anni a Braia (MS), frazione di Pontremoli, fino a pochi giorni fa [13]. C’è poi Vilma che fino all’età di 58 anni ha abitato Chiapporato (BO) per poi abbandonarlo, obtorto collo, dopo la morte di Zelia, l’anziana madre, la sola persona con cui aveva convissuto per quattro lustri nel borgo, raggiunto solamente nel 2005 dalla luce elettrica [14]. C’è ancora Paolina, classe 1926, ultima abitante di Casali Socraggio (VB) [15]. Tutte signore, dunque, a dimostrazione che quello del “sesso debole” è davvero solo un luogo comune: rimarrebbe deluso anche chi tentasse di ristabilire la par condicio, citando Giuseppe che fa da custode a Roscigno Vecchia (SA), paese cilentano dichiarato inagibile per franosità del terreno, che è rimasto deserto nel 2000, dopo la morte di Dorina, l’ultima abitante residente [16]!
Con ben altre origini e tipologie di attuazione, ma, sostanzialmente, per analogo spirito di vicinanza alla natura, a queste storie si allineano quelle degli abitanti degli “ecovillaggi”. Essi costituiscono nuove forme di comunità che
«offrono una socializzazione degli individui, che si dibattono nella crisi di identità, ma anche un nuovo mezzo spiritualizzante che appaga il bisogno umano di trascendenza. Questa crisi di identità è prodotta dalla industrializzazione, dalla perdita dei ritmi naturali tipici del lavoro agricolo e dalla progressiva estinzione delle comunità di paese e di villaggio» [17].
A fronte della variegata moltitudine di ecovillaggi italiani, per prossimità geografica, conosciamo un poco solamente la realtà del Popolo degli Elfi e ne tracciamo adesso i contorni, sulla base di alcune letture, della nostra esperienza diretta e, infine, di quanto affermato da Mario Cecchi, uno dei fondatori della comunità elfica, invitato a parlare al nostro convegno.
La territorialità degli Elfi ricade nella provincia pistoiese, ma i due nuclei di aggregazione principali, Sambuca e Montevettolini, sono assai distanti fra di loro e hanno differenti caratteristiche altimetriche, orografiche, floro-faunistiche, oltre che produttive, di accessibilità e di relazione con la restante popolazione pistoiese.
La zona di Gran Burrone [18], nel Comune di Sambuca Pistoiese, è un’area molto vasta, dislocata a varia altezza, dagli 800 fino ad oltre 1.300 metri s.l.m., ed è costituita da abitazioni di differente grandezza e numerosità, dal villaggio alle case singole che ospitano un solo abitante. Occorre spesso percorrere strade sterrate, mulattiere o addirittura sentieri di montagna per raggiungere alcuni luoghi. Gli individui residenti sono circa 200 (mancano stime ufficiali certe). Differentemente, l’abitato di Avalon, nel Comune di Montevettolini, è invece posto a 200 metri sul livello del mare, è più raccolto (in pratica un casolare che si sviluppa su due piani, accompagnato da fabbricati più piccoli posti in sua prossimità) e si trova in una parte del territorio pistoiese molto più accessibile della precedente. Qui il numero di persone è molto meno certo e ben più mutevole: Avalon è, infatti, utilizzato come “banco di prova” per testare se l’innesto dei nuovi arrivati all’interno della società degli Elfi è realizzabile con continuità o meno.
Non molti sono i resoconti reperibili sulla comunità pistoiese. Uno è quello di Francesca Guidotti [19], presidente della RIVE [20], da cui attingiamo a piene mani giacché ci pare descrivere bene la situazione:
«Il primo insediamento di quello che diventerà il Popolo degli elfi risale al 1980, a opera di quattro giovani in fuga dalla città, alla ricerca di un rapporto diretto con la natura e con un grande desiderio di autonomia. Nasce così Gran Burrone, avamposto di una lunga serie di occupazioni sulla montagna pistoiese, ricca di casette appartenute a pastori e boscaioli e di essiccatoi per le castagne, una delle principali risorse del territorio. Totalmente abbandonati dai proprietari, quei ruderi e il territorio che li circonda sono diventati la dimora di un numero crescente di giovani, che hanno trovato tra quelle mura silenti un riparo e talvolta anche una vera famiglia. La presenza elfica ha dovuto fare i conti più di una volta con le autorità a causa dell’appropriazione illecita degli immobili, ma sono sempre riusciti a superare i momenti di crisi e il rischio di sgombero perché supportati dalla popolazione locale e, in alcuni casi, dagli stessi proprietari dei ruderi, che più di una volta hanno riconosciuto loro l’onestà d’intento» [21].
Continua l’Autrice:
«Da una posizione molto radicale, che escludeva dallo stile di vita elfico qualunque collegamento con il mondo cosiddetto civilizzato, oggi si assiste all’ammorbidirsi delle precedenti posizioni: le recenti scoperte in ambito energetico e tecnologico rendono la vita un po’ più comoda pur consentendo da un lato l’indipendenza, e dall’altro il collegamento con il resto del mondo. Infatti, anche le relazioni con l’esterno, nel corso degli anni, sono state rivalutate e ritenute funzionali e necessarie alla diffusione degli ideali e dei principi elfici e al perseguimento di scopi comunitari e sociali. Per esempio, pur essendo un’associazione non riconosciuta (questo tipo di organizzazione permette di non avere un presidente, un segretario, o comunque una struttura gerarchica, contraria ai principi della comunità), esiste un tavolo di confronto con le istituzioni locali – Regione Toscana, Comunità montana, Assessorato alla casa e all’agricoltura del comune di competenza e Demanio – al fine di redigere insieme uno “Statuto dei luoghi”. L’interesse reciproco nasce dalla natura degli elfi di porsi come custodi di un bene pubblico, che permette loro l’accesso a legnatico, acquatico e pascolatico in cambio della cura, della pulizia e dell’osservazione del territorio. Questo fatto potrebbe aprire un importante capitolo sull’uso di beni civici e sui territori demaniali, sull’attribuzione di un luogo a chi ci vive, lo conosce, lo ama e lo rispetta».
Le decisioni più importanti vengono discusse sempre collegialmente, sotto la supervisione del “cerchio degli anziani” (costituito da tutti coloro che, non per età avanzata, ma per libera scelta, decidono di farne parte) che non ha potere decisionale, ma unicamente consultivo.
Ogni attività svolta dagli Elfi – scrive, inoltre, Claudia Roselli, studiosa che si è occupata approfonditamente della loro comunità –
«si inserisce in un sistema ambientale olistico di cura e rispetto, sviluppando protezione delle biodiversità e salvaguardia delle aree protette, risparmio energetico, riciclaggio dei rifiuti, impianti naturali di trattamento delle acque, coltivazioni di prodotti biologici e costruzione di edifici ecologici con materiali naturali e prediligendo l’uso di quelli di provenienza locale» [22].
La grande differenza altimetrica fra Gran Burrone ed Avalon consente di ottenere un ampio assortimento di beni alimentari, derivanti dall’allevamento, dalla pastorizia e dall’agricoltura: patate, cereali, legumi, olive, castagne, funghi, erbe spontanee, frutti di ogni genere e ancora latte, formaggi, miele. Anche la carne viene consumata, ma non è l’alimento principale della tavola degli Elfi. Dalla cassa comune, rimpinguata anche mediante la vendita, in fiere e mercati, di prodotti di artigianato o di genere alimentare, si attinge per acquistare all’esterno della comunità ciò che non può essere prodotto in loco (caffè, zucchero, riso, pasta), ma la moneta non è, ovviamente, il mezzo di scambio preferito all’interno della comunità che si basa sul saldo principio della condivisione dei beni e dell’impegno a partecipare collettivamente per supportare le necessità dei singoli. Inoltre è notevole l’accoglienza riservata ai visitatori.
Con notevole variabilità da famiglia a famiglia, si lascia la scelta di far nascere i figli (la cui alta considerazione è un fatto palpabile) in casa e di educarli all’interno della comunità, dove esistono sedi specifiche a questo adibite, oppure di affidarsi alle strutture pubbliche del “mondo esterno”. La religiosità, che attiene alla vita privata di ognuno, è generalmente rivolta a venerare gli elementi della natura. Infine, la tecnologia: non è disdegnata, ma è adoperata realmente a servizio dell’uomo e non con insano rapporto di dipendenza da essa: l’utilizzo dei pannelli solari, ad esempio, affianca quello della legna e del carbone e abbiamo riscontrato che il telefono cellulare è un mezzo di comunicazione sfruttato, laddove possibile, in caso di reale necessità.
Una visita, compiuta con serenità, ai loro villaggi bucolici e la visione dei loro bambini sorridenti, bellissimi (forse un felice “effetto collaterale” del rimescolamento di corredi cromosomici geograficamente assai lontani?) potrebbe determinare un inatteso, quanto deciso turbamento di molti pregiudizi e di alcune ferme convinzioni.
Lasciamo tuttavia gli Elfi alle proprie scelte di vita, che per alcuni potranno continuare ad apparire eccessivamente radicali, e torniamo più prossimi alla realtà sociale che conosciamo e ai luoghi dell’abbandono. Anche il nostro tempo, così riccamente infarcito di tecnologia imperante e di consumismo sfrenato, di inutilità sovrana e di onnipresente asfalto, di allontanamento dalla sfera spirituale e di perdita di tradizioni, di morale, di ideali, anche questo nostro modello di vita, ormai apertamente insostenibile, sembra dare alla fine qualche segno di cedimento strutturale. In Italia molti giovani tornano finalmente in campagna e scelgono di dedicarsi alle attività agricole.
«In controtendenza con la disoccupazione giovanile – afferma una recente analisi della Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti – cresce del 5% il numero di imprese agricole condotte da giovani ormai giunte in Italia a quota 55mila, un numero che fa dell’Italia il leader europeo per le aziende under 35» [23].
L’indagine della Coldiretti fa da eco a quanto rilevato dalla Camera di Commercio di Milano, Monza Brianza e Lodi: nel 2017 sono state 9.850 le attività delle imprese giovanili iscrittesi a livello nazionale nel settore dell’agricoltura, silvicoltura e pesca su un totale di circa 108.000 di imprese giovanili registrate in tutti gli ambiti [24].
L’auspicio è ovviamente quello che in un prossimo futuro anche nelle zone alpine e appenniniche possa verificarsi la stessa positiva ondata di ritorni che sta avvenendo attualmente in alcune zone rurali. In effetti, qualche segnale confortante in questa direzione si sta registrando: è in crescita l’interesse degli “under 35” nei confronti di progetti di impresa montani, oltretutto, fortemente legati al territorio e rispettosi delle tradizioni locali [25]. Non pochi in questo ambito sono i programmi di “riattivazione territoriale” mirati alla valorizzazione di aree montane ormai in abbandono [26]. L’altro augurio, conseguenziale, che ci viene naturale formulare è che anche i paesi ormai spopolati possano diventare motivo d’attrazione, e magari oggetto di recupero, a seguito di questo crescente movimento d’interesse.
Tornando, però, con i piedi ben saldi per terra, ribadiamo l’assoluta necessità, per chi dedica già o dedicherà tempo alla visita dei paesi fantasma, di guardare a quelle strutture pericolanti non solo con l’occhio del poeta e con profondo rispetto per quello che esse sono state, ma anche, prima ancora, con grande attenzione per tutelare la propria sicurezza.
Crediamo, però, che il termine “sicurezza” in questo contesto debba acquisire una valenza più ampia del solo significato di salvaguardia personale per chi si approccia, per qualsiasi motivo, alla visita di questi luoghi fragili. Sicurezza deve essere anche un connotato generale, vorremmo dire un mantra, del metodo di indagine che dovrà tenere conto non solo delle caratteristiche urbanistiche dei posti visitati, ma anche di altri aspetti. La messa “in sicurezza” andrebbe necessariamente applicata anche alle tipicità demoetnoantropologiche, alle specificità agro-alimentari, alle peculiarità floro-faunistiche, alle proprietà idrogeologiche dei vari territori: un nucleo abitativo è senza dubbio la risultante di un insieme complesso di fattori (talvolta salvabili, talaltra purtroppo non più) che sarebbe opportuno tentare di custodire nella loro totalità.
Conclusione
Per tutto quanto detto, pensiamo dunque che la full-immersion della “due-giorni” pistoiese abbia pienamente raggiunto i suoi scopi principali: quello di permettere agli studiosi di fare un primo punto della situazione e ai curiosi di “smuovere” i loro animi e quelli di altri in generale. Al tempo stesso siamo perfettamente consci che lunga e incerta è sicuramente la strada da percorrere ancora e che il nostro convegno è solo uno dei primi passi di avvicinamento alla meta. Forse abbiamo iniziato a scandagliare il terreno, con il sonar più che con lo scalpello dell’archeologo, scendendo qualche centimetro sotto la superficie che ricopre le memorie del nostro comune e recente passato, custodito gelosamente dai boschi o dalle più remote campagne del nostro Paese. L’obiettivo, perciò, che l’Associazione ‘9cento si pone in occasione del prossimo convegno sarà certamente quello di scendere ancora più in profondità, ampliando lo sguardo sul fenomeno dell’abbandono delle borgate e sulle molte tematiche che sono state accennate.
Tuttavia, quale sarà il punto d’arrivo del nostro impegno e che cosa ne otterremo in concreto? Che traccia resterà di tutto il lavoro svolto? Quale sarà il destino dei paesi fantasma al di là delle mete che ci siamo proposti? Purtroppo temiamo che poco o nulla cambierà nel prossimo futuro. Cadranno ancora i tetti delle case abbandonate, cadranno le mura, tornerà il bosco ad invadere le aree un tempo umanizzate e gli spazi che erano privati verranno ancora barbaramente violati da personaggi senza scrupoli morali, contribuendo alla loro distruzione. La maggior parte dei villaggi deserti resterà tale e fra pochi decenni non ne rimarrà che un toponimo o, tutt’al più, qualche rudere scomposto. Per via dell’ineluttabile tirannia del tempo che passa, presto si perderà inevitabilmente anche il ricordo degli ultimi abitanti e di ciò che, grazie alla loro memoria orale, sarebbe stato possibile salvare.
Ci piacerebbe concludere con un finale un po’ più ottimista, ma in realtà temiamo che di tutti i buoni propositi fatti e di tutte le belle parole spese non rimarrà purtroppo granché. Eppure, nel profondo dell’animo, ancora adesso ci auguriamo che la nostra triste previsione possa essere smentita da scelte politiche e sociali diverse e da nuovi eventi che sappiano davvero rivalorizzare il nostro passato e non solo progettare, come spesso accade in maniera incongrua e sterile, il nostro futuro.