Sempre quel cielo affaticato, colorato di lutto, lì, su quel pezzo obliquo della banchina fra il portello e la dogana, dove andavano ad aspettare che la pietà delle altre barche riportasse a casa gli annegati dei naufragi. Quelli che il mare placato aveva deciso di non prendersi.
Erano le madri, le figlie e i figli ragazzini dei morti. Scuri grumi di dolore, con le buie vesti che garrivano come voleva il maestrale, acerrimo e immancabile. Immobili, impietriti dalla pazienza, gli occhi sull’orizzonte in attesa che il palo bianco di maestra ne trafiggesse la linea, con la bandiera scivolata sino alla metà di quel triste albero marinaro.
Quando tutto lo scafo si vedeva beccheggiare, profondo, con la prua a pelo d’acqua e il pennacchio nero del “Bummaster” – forse ancora più nero – il dolore di Mazara aveva ricoperto tutto il molo, le biciclette appoggiate a due a due, adagiate a terra senza pensiero. La barca scivolava al di qua della “malora” con l’equipaggio schierato lungo la murata a dritta sugli attenti, sotto le grida desolate che riempivano la bocca del Mazaro.
Mi prende una commozione forte mentre scrivo di questi ricordi, forse rimasta da allora – non ricordo quale allora – ad aggirarsi clandestina fra i nervi, le vene, attorno ai muscoli, trovando soltanto ora l’uscita.
Morti nel silenzio, senza il conforto di un sos, un messaggio che avvertisse del loro ultimo “aracano”, parola dura, spaventosa con quel ritmo alternato di a e consonanti, per i mazaresi di mare peggiore degli altri trisillabi: bufera, tifone, burrasca, tempesta, e pure del burocratico e maligno fortunale.
Onde alte anche dieci metri, riunioni di ddaunare dentro le quali non bastano il più esperto timone e le segrete orazioni con i coltelli esoterici contro l’agguato della sventura: «Di lu mari nesci un granni serpenti – e pi lu nnomu di Diu onnipotenti, – ti tagghiu la cura, li ammi e li renti». E il coltello dal manico nero segna l’aria di tante croci.
Aprile del 1944, naufraga il “Santissimo Salvatore”, in maggio si inabissa il “Maria Laura”. Lo so “de relato”, avevo poco più di due anni. Ma nel gennaio del ’50 ero lì, all’incrocio del corso Vittorio Veneto con la via Gian Giacomo Adria che finisce in piazza Regina, agorà della gente di mare, forse ancora piazza Pescatori. Un silenzio attonito, nemmeno i passi si sentivano, ghirlande portate da ragazzini, sul marciapiede uomini con la coppola in mano sino a Porta Palermo, usci e portoni chiusi e saracinesche abbassate, a mezz’asta come bandiere di lamiera. Otto anni compiuti da giorni e lacrime improvvise e incontenibili.
Passava il corteo funebre dei marinai morti nel misterioso naufragio della “Maria Madre”, il 21 gennaio. Peschereccio di 24 tonnellate che non lascia tracce, nemmeno dei 14 uomini d’equipaggio.
A bordo c’era anche Matteo Gancitano, Mattè paccu curtu, però uomo ragno della squadra di calcio “Inclita”. Le sue gesta al “campo vecchio”, oltre la conserviera Vaccara e gli stabilimenti Bruno del salato, alla fine dello stradone intitolato a Luigi Vaccara, dove c’erano stese a seccare le fetenti teste di sarde e di sgombro per fare la colla. Giovanissimi calciatori che venivano dalla “campagnedda”, terra di nessuno e protocampo di calcio tra la ferrovia e la via Valeria.
Rubo ricordi altrui. Di Gaspare Paladino, liceale, mezz’ala destra e corrispondente de L’Ora. Affettuosi e struggenti: «Mattè era un amico divertente e scanzonato. Il suo corpo non fu mai ritrovato. Ricordo che gli dedicai il mio commosso omaggio sul giornale L’Ora scrivendo che non era morto ma con la sua agilità era riuscito a mettersi in salvo su un’isola deserta e lì giocava al calcio con una popolazione di cavallucci marini, di scorfani, di triglie, di polpi che in porta paravano tutte le palle con i loro otto tentacoli. Cercai con quell’articolo di consolare la famiglia, ma eravamo anche noi amici ad essere inconsolabili per quel folletto che quando giocavamo mi chiamava Palarineddru».
Non furono ritrovati nemmeno gli altri tredici uomini dell’equipaggio. La Maria Madre scomparve senza lasciare a galla un solo pezzo di legno in un mistero sommerso che sarebbe potuto affiorare in pagine di Conrad o di Alvaro Mutis.
Dopo il funerale-cenotafio, con una sola e simbolica bara vuota, dal “portello” prese il largo un peschereccio di nome dimenticato, con il sacerdote e parenti, amici e autorità a bordo, oramai tutte ombre alla periferia della memoria. Solo al largo, nel mari funnutu, fermate le macchine e incuranti del rollìo, il sacerdote disse le preghiere dei morti e i marinai lanciarono da prua una gigantesca corona di fiori.
Selezione dal Reader’s Digest aveva sempre l’articolo «Una persona che non dimenticherò mai». Ed io, occasionale lettore, ogni volta che mi avventuro in ricordi quasi nitidi, penso a quel titolo: sì, ci sono cose e persone che non è possibile consegnare alla dimenticanza, anche sotto le picconate più violente del tempo. Maria Madre, Paccu curtu, il capitano Gilante e l’Andromeda.
Andromeda, un battesimo pagano ad un peschereccio, che intaccava la tradizione di nomi santi e santissimi, e patronimici come se le barche fossero parenti cari. Però il mito della figlia di Cassiopea aveva uno stretto rapporto col mare, con il pelago in tempesta, mostro che voleva ghermire la fanciulla incatenata e alla sua mercé. Ma allora c’era Perseo, eroe vincitore della Gorgone-Medusa. Passava da lì e salvò Andromeda, e la sposò.
Gli scogli di Lampedusa non erano territorio del mitico re di Tirinto, e l’Andromeda, orgogliosa e snella, al comando del padrone marittimo di 22 anni Giovan Battista Gilante, sbattuta da tempesta, aracano e onde incommensurabili, andò a sfasciarsi sulle rocce del Cozzu punenti.
Vito, ultimo degli otto fratelli Gilante, era un bambino nel ’60, ma ricorda forse anche i racconti dei più grandi. «Mio fratello, rievocato oggi, enfatizza più di allora la dignità di come è vissuto ed il coraggio con cui ha affrontato la morte a 22 anni. Erano le tre del 16 dicembre 1960, e la prua dell’Andromeda, dove dormivano 11 pescatori, si era appena disintegrata sugli scogli dell’Isola dei Conigli a Lampedusa. Mio fratello veniva scaraventato giù dalla cuccetta». Raccontano le voci del porto, e i parenti del capitano ne sono convinti, che la rotta fosse «affidata ad una corda che legava il timone – non c’era ancora il pilota automatico –. In un susseguirsi di frasi concitate, il capitano lanciava l’SOS raccolto dalla Stazione Radio di Lampedusa. Furono ascoltate le seguenti frasi: «Disgraziati mi avete rovinato» – «Aiuto. stiamo affondando» – «Fate presto, c’è gente ancora viva» – «… mascalzoni» . Dopodiché, il silenzio.
«L’orologio del capitano Gilante – ancora in mio possesso, sottolinea Vito – è fermo sulle 03,42. In quei venti minuti avrebbe potuto scegliere la vita buttandosi sugli scogli con un materasso come avevano fatto gli altri». Il comandante Gilante affondò sulla sua barca come nei grandi racconti di mare. Lo possiamo immaginare solo, davanti alla cabina di comando, o forse alla ormai inutile barra, senza più nessuno che ascoltava i suoi ordini, senza nessuna via d’uscita.
Sopravvissero soltanto il cuoco Mario Marino, il motorista Pietro Giacalone e il timoniere Asaro (Asso). Affondarono fra i rottami il giovane capitano e i marittimi Calogero Siragusa, Bartolomeo Quinci, Vito Giacalone (di Salvatore), Aurelio Perdipino, Antonino Asaro, Vito Giacalone, Paolo Fiorentino, Gaetano Giacalone, Nicolò Asaro, Antonino Ballatore, Franco Abione, e uno dei due Asaro, Antonino e Nicolò.
Tutta gente che sapeva stare sul mare, compreso il capitano, “sperto” e coraggioso. Quale congiura incontrarono quella notte del 16 dicembre del 1960 contro la quale tutte le loro sapienze non bastarono? La rottura del timone, un blocco del motore, l’abbandono della guida? Forse il destino, il fato, la malasorte. E il capitano Giovanbattista Dell’Arno, abile marinaio, amico e compagno di Gilante al Marittimo, ancora oggi si chiede perché quel ragazzo non abbia tentato di salvarsi.
Per uomini che vivono sulla liquida incertezza, parlare di evento irrevocabilmente segnato nello scorrere del tempo può essere qualcosa di più che una credenza, un sentire oscuro immeritevole di qualsiasi fede. I più abili – dove l’abilità conta – che muoiono mentre gli sprovveduti sopravvivono, a quale mistero può essere attribuito?
Patii questo naufragio perché Nicola, fratello più piccolo del capitano, era boy scout come me. Lui forse nella prima squadriglia del reparto Mazara 2 di Santa Maria di Gesù, nella Leone, io in quella nuova dell’Aquila. Competevamo sui tasti dei linea-punto Morse, sull’alfabeto semaforico, sulla veloce identificazione della stella polare immaginando una linea tangente le ultime due stelle del Carro Maggiore; sprigionare il fuoco con un solo zolfanello, maneggiare mazzotta e picchetti della tenda più rapidi degli altri, fare e disfare la “gassa d’amante”, anche quella doppia, trovare al volo la cintura di Orione oppure le stelle della M allargata di Cassiopea e della più scura Andromeda nel calmo mare notturno attorno allo zenit.
Incontrai Nicola davanti alla chiatta, nell’ultimo inverno del ‘60. Aveva i bottoni neri sulla camicia e fascia nera al braccio. Pure lui padrone marittimo, con la faccia copiata da quella del capitano che non riuscì a guadagnare il luogo di salvezza che era Lampedusa: quando il mare scatenava tutta la sua malevolenza, i pescherecci sparpagliati su isobate contigue – a volte anche mollando le reti – facevano rotta, motori al massimo, per raggiungere l’antemurale dell’isola. La maledizione di un vascello fantasma attraversava la notte davanti al Cozzo?
Perfino i tedeschi durante la seconda guerra mondiale affermarono di aver visto un Olandese Volante mediterraneo: nel 1943 venne avvistato dagli uomini di un U-Boot a est di Suez. Traveggole tedesche? Però l’ammiraglio Karl Dönitz scrisse sul suo diario che dopo quella visione terrificante i suoi uomini dissero di «preferire lo scontro diretto con una nave nemica piuttosto che dover avere un secondo incontro con la nave fantasma».
Dalla banchina pullulante davanti alla dogana, venne avvistato il piroscafo – ormai senza nome – che riportava le salme dello sfortunato equipaggio. Ma erano otto. Il corpo del capitano Gilante il mare se lo era tenuto.
La notte del 26 dicembre fu piena di spaventi per zu’ Mommu ‘u lampirusanu, pescatore di spugne e factotum dei natanti all’ancora nel porto di Lampedusa. Il capitano Gilante gli apparve in sogno, e saltò dal letto quando l’ombra lo incalzò: “Mommu, Mommu vieni a prendermi!”
‘U lampirusanu prese la barca delle spugne ancora nell’oscuro fra notte e giorno. Navigava lento il Perseo ritardatario, a ridosso della costa, gli occhi spalancati mentre preparava lo “specchio” per guardare il fondale. Lo vide a pelo d’acqua davanti all’Isola dei conigli. Il capitano Gilante, cullato dal mare, senza i segni di più di dieci giorni nel salmastro e fra rapaci marini.
Metto alla prova la memoria. Barche eleganti e slanciate anche se a prua non c’era più il bompresso con ai lati intarsi di una generazione di carpentieri che allo scadere del decennio sarebbero scomparsi.
Mancava solo la polena ai motopesca anni ’40 per farne vascelli da pesca. Poi prue nude, spesso con una stella appiccicata nell’ultimo fasciame dell’opera morta: una “stilla maris”, goccia di mare traduzione alla lettera dell’ebraico Miryam, il nome di Maria, la “Stella Maris” a cui i naviganti si rivolgono per chiedere protezione e fortuna. Non più l’orgoglio antico del bompresso e dei ghirigori pagani ma un’umiltà devota contro le terribili insidie del mare.
Il Sant’Ignazio Bono si inabissa in una notte di primavera quasi giunta all’alba. A bordo Giuseppe Salvo, 15 anni, Diego Russo, 16 anni, Gaspare e Ignazio Bono, 18 e 21 anni, Francesco Cartolina, Vincenzo Bonsignore, Antonino Orlando, Pietro Quinci, Giovan Battista Asaro, Giuseppe Orlando. Pescavano nelle vicinanze dell’isola di Kuriat, a nord di Mahdia, di fronte a Monastir.
Ore 5,30 il mare comincia ad ingrossarsi e lontano si indovina la tempesta. Diverse barche tirano le reti di fretta e girano il timone verso Mazara, a sette ore di mare. Il capitano del Sant’Ignazio, dicono cronache e racconti, parla via radio con il comandante dell’Ange che pescava lontano qualche miglio. A bordo c’è Giuseppe Cartolina, padre di Francesco. Decisero per l’ultima calata. Poi, dal Sant’Ignazio più nessuna risposta. Mare forza sette. Con i motori a tutta, l’Ange riesce a mettersi in salvo. Il Santissimo Salvatore entra, invece, nel primo mistero del mare mazarese del dopoguerra.
Notte tra il 24 e il 25 aprile 1981 fra briciole di ricordi. Il peschereccio Ben Hur, imprigionato nella bufera, si infrange sulla nera scogliera di Pantelleria. Muoiono tutti i sette uomini dell’equipaggio. Marzo ’82, il Prudentia scompare nell’alto mare di Lampedusa con il suo equipaggio. Tre corpi ripescati, due dispersi. Parola, quest’ultima, intrisa di pietà e speranza, parola “aperta” e non definitiva e senza redenzione. Il Massimo Garau il 16 febbraio dell’87 faceva rotta per Dakar, base dei pescherecci “oceanici” di oltre 100 tonnellate, più del doppio e anche del quadruplo di quelli “d’altura” mediterranei. Ma doppiando Capo Bon la forza del mare si era ingigantita. Colò a picco questo gigante della pesca, senza un gemito, un qualsiasi segnale. E quindici marinai, dei quali 14 africani, annegarono, altri quattro vennero trovati uccisi dal freddo su una scialuppa.
I fantasmi di quei 19 morti in mare forse si incontrano con i 1.100 degli incrociatori dell’ultima guerra Alberto di Giussano e Alberico da Barbiano. Ricordo letture rapsodiche sulle chiglie squarciate dai siluri, bombardati e mitragliati dagli inglesi.
Il 16 luglio del 1996 il Garau, recuperato da un pontone e trainato da rimorchiatori, attracca nel porto di Trapani. «Presenta un grosso squarcio sulla fiancata destra» che si ipotizza provocato dall’impatto con il fondale. È avvolto nell’oscuro questo naufragio: l’enorme falla potrebbe essere stata inferta da un altro dei misteri che avviluppano tanti naufragi mazaresi.
Gira il volano della memoria con i momenti d’inerzia affollati di nomi notturni, vociati sulla banchina fradicia d’acqua, sino all’ultima palata di ghiaccio, le cime d’ormeggio già mollate e il fioco catarro delle bielle che tossicchia ancora senza ritmo. Le tre di notte. Sulla bassa murata di poppa si vede solo il mozzo insonnolito che guarda con le spalle voltate al mare.
Partivano così, bucando il buio, con le due lucette fioche rosso a rosso, verde a verde, avanti sempre che la nave non si perde. Verso la Calibia o Lampirusa, le Curiate, le Kerkenna e il mammellone o, dall’altro lato, a nord-ovest, nel mare della Galite e Biserta.
Notte tra il 23 e il 24 novembre 1991, si inabissa il Demetrio, nome sacro a Demetra, dea della terra, della vita e della morte. Francesco Asaro, Bartolomeo Gancitano, Francesco La Fata, Vito Castelli, Salvatore Bono e Vito Nuccio, quando mesi dopo il peschereccio venne recuperato da una piattaforma Snam, furono trovati vanamente riparati dentro la cabina di comando.
Ultimo contatto radio alle 18 di martedì 27 febbraio 1996, anno bisestile. A sud-sud-est di Pantelleria, mare forza 8/9. Sul peschereccio Nuovo Giolò sono imbarcati il comandante di 24 anni Gaspare Marrone, il secondo Diego Giallo, di 34, il direttore di macchina Antonino Giambra, di 50, e i marinai Pietro e Filippo Ferro, di 36 e 17 anni, Antonino Siragusa, di 21, e tre tunisini che da tempo vivono nella Mazara che una volta gli appartenne. Pietro Ferro, quattro figli, la domenica 25 aveva chiamato la moglie Maria Santangelo con il cellulare e aveva detto di star bene e che «tutto era tranquillo».
Due giorni sono lunghi sul mare. E nessuna divinazione rubata alle stelle o alle forme e colori del cielo – segreta, di antica sapienza sciamanica – può rivelare l’improvviso e repentino guastarsi del tempo.
Nel dicembre del 2006 il Concordia attracca al molo affollato, a bordo ci sono i quattro superstiti del naufragio del Francesco Gancitano, affondato il giorno 6 in pochi minuti vicino a Capo Bon dopo essere stato speronato dal Royal Cooler, una nave frigorifero di 151 metri. Sulla barca sei mazaresi e due tunisini. Riemergono in quattro e si salvano aggrappandosi ad un canotto al traino del peschereccio: Riccardo Gangitano, armatore, Enrico Gangitano, direttore macchine, Carmelo Asaro, nostromo, Michele Foggia, marinaio. Scomparsi gli altri quattro. I cadaveri di Antonino Gangitano, 48 anni, e Bartolomeo Rubino, 57 anni, vengono recuperati dagli equipaggi di altre barche mazaresi che da lontano avevano assistito alla tremenda collisione.
Mezz’ora dopo il Concordia, attracca il San Cosma e Damiano, nome dei fratelli medici che proteggevano la vita e a volte la ridavano. Pietosamente composti in coperta ci sono i corpi di Antonio Gangitano, 48 anni, e Bartolomeo Rubino, 57 anni, i tunisini M’Rissa Ridha e Yousri Zegnan non sono stati trovati. Sul molo il compianto e la pena si allargano su una moltitudine mobile e pressante.
Dopo il naufragio, per un paio d’ore, i cinque pescatori sono rimasti a pelo d’acqua, uno vicino all’altro, abbracciati, e parlavano per darsi forza; poi le voci, quelle del padre e dei due figli, hanno cominciato a spegnersi. Stremati, uno a uno inghiottiti dall’oscurità.
Sono sopravvissuti solo due dei 5 marinai. Nella notte tra lunedì 22 e martedì 23 settembre 2014, erano circa le 3, l’equipaggio del peschereccio Antonella Rosa ha lanciato l’allarme, prima di individuare e mettere in salvo i superstiti: Giancarlo Esposto, 37 anni, e Baldassarre Giacalone, di 25. Più tardi una motovedetta della Capitaneria di porto ha recuperato il corpo di Vito Di Marco, 60 anni, il proprietario del Tre Fratelli, motopesca di 6 metri e mezzo – «di seconda mano, faticosamente comprata a rate per sbarcare il lunario», sostenne Nicola Cristaldi, sindaco di Mazara. Il Tre Fratelli si era rovesciato a 4 miglia da Capo Feto, davanti alla costa di Petrosino. Dispersi i figli di Vito, Pietro e Daniele, di 23 e 20 anni.
Secondo il racconto dei sopravvissuti, un tratto di rete sarebbe rimasto impigliato sul fondale mentre era in azione il verricello per tirarla su. A causa della trazione, l’imbarcazione si era inclinata e poi rovesciata. Dei tre fratelli ai quali il padre, ex emigrante vissuto sempre al confine con la povertà, aveva intestato la barca, si è salvato soltanto Francesco, il più grande, rimasto a terra perché stava finendo un lavoro di muratore.
Spezzoni di ricordi, come stelle cadenti, mi svelano altri naufragi, altri morti – annegati, mitragliati, scivolati in mare. Un elenco molto più luttuoso di quello che sono riuscito a sottrarre al mio oblio.
I funerali somigliavano a quello del Millenovecentocinquanta. Dopo la circumnavigazione della città andavano a fermarsi al di qua della lanterna, cioè del faro, dove il molo Comandante Caito sfocia sul portello per poi diventare lungomare Mazzini. Il sacerdote recitava il rito funebre, requiem aeternam dona eis Domine et lux perpetua luceat eis, requiescant in pace, amen. La benedizione delle acque forse salate del mare o ancora dolci del Mazaro, e il lancio di corone di fiori che il lieve ondeggiare dell’acqua cullava e metteva in corteo mentre gli sguardi di una folla marina non si staccavano dalle aiole galleggianti, come volessero accompagnarle oltre la malora, sino al largo. Forse avrebbero navigato tanto da raggiungere e turbare l’indifferenza del Cozzu punenti o dei neri scogli di Pantelleria, o al largo di Capo Bon. Dovunque ci fossero morti senza tomba.