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Nei vigneti di Pachino: tra documenti d’archivio e ricerca etnografica

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Pachino, vendemmia 1989 (ph. Nino Privitera)

 di Luigi Lombardo

Fino agli anni ’80 del secolo passato (che sembra un tempo remoto) non solo la presenza del vigneto a Pachino caratterizzava il paesaggio, ma si poteva assistere ancora alla messa in campo di antiche tecniche e di remoti sistemi di produzione del vino. Poi tutto cambiò. Si sono estirpati i vigneti, cedute ai viticultori del nord (Zonin, Moretti, Mazzei) le quote, si sono sempre più estese le serre, e oggi il sempreverde delle vigne è sovrastato dall’ondeggiante mare di plastica delle serre.

Non sembri esercizio ozioso ricordare le antiche tecniche di lavoro, che la memoria ci consegna, perché ci si ricordi che il progresso è sempre frutto del duro lavoro dell’uomo. A commentare il testo sono le foto di Nino Privitera, che, nel 1989, documentò la vendemmia a Pachino, seguendo una ciurma di vendemmiatori dall’alba quando la brina irrora ancora il vigneto, fino alla stagghiata, quando il sole “tracolla” nel mare Mediterraneo.

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Pachino, vendemmia 1989 (ph. Nino Privitera)

Premessa archivistica

Mi sembra interessante citare il seguente documento di archivio, al fine di istituire confronti fra il passato ed epoche a noi più vicine, che la ricerca sul campo ha ampiamente documentato, attraverso sapienti monografie etnografiche:

«Siracusa 30 Settembre 1714: Mario Cucia e Bonanno di Siracusa concede «ad medietatem” a Luciano Mazziotta e Mario Passanisi di Siracusa tutte le vigne di contrada Frescura per «conciari et coli facere de infrascriptis concis nempe alle tre partenze delle piante darci sette passate d’arato a tre surchi d’arato di padrone, rimondarle senza lasciarci né pidocchi né costarizzi [polloni n. d. a.], nel tempo che designerà il detto Bonanno putarle allo naturale con putatori siracusani e non forestieri, zapparle in ciano, zappare il migliarro e legarli a trizza, roncarle con che la partenza piccola sotto il giardino di detto Luogo lo debbano spalare e infasciare li pali con lasciarci tutti li tummarelli e porpagini […] prima d’incominciare a zappare, zapparle allo sicco e temperato che sarà il terreno con fare servizio di tarì 5 separato il vino e minestra e putarle con alleggerirli di spalli e costarizzi e lasciarli tre o quattro spalle a seconda la vite che si trova, nella vigna grande darci sei passate d’arato a tre surchi, cioè quattro passate prima d’imbottonare detta vigna grande per non fare danno, e l’altre due quando vorrà detto Mario, rimondarle senza lasciarci ne pidocchi ne costarizzi […] putarle allo naturale con levarci tutti li seccumi con lasciarci solamente il carica e scarica cioè un sarmento per vite, zapparle e legarle à gruppo, sbracato che sarà il gettito, e fare servizio di tarì 4,10 per migliaro separato il vino e minestra, spalare e infasciare tutti li pali con lasciarci tutti li tummarelli e porpagini, la partenza della chianta del vignale di Marino la debbono prima spalare con infasciare le pale, e doppo rompere e rifondere detta partenza di vigne, nec non smacchiare et annettare tutti li torni di detto vignale insino all’arco del fosso con che la spesa della zappa per detta vigna l’habbia e debbia da fare detto don Mario guardare e custodire tutte dette partenze di vigne come anche fare tutte le spese della vendemmia sino a tanto che il mosto sarà ritornato nelle tene e ciò a spese del Mazziotta e Passanisi. Si deve pagare a metà la spesa per l’occhiolaro del palmento […]»[1].
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Pachino, vendemmia 1989 (ph. Nino Privitera)

Lo scasso

Si comincia con frequenti zappature del terreno. Un tempo si arava coi buoi nei terreni di pianura. Oggi si usano le frese, per cui si dice che si frisia u tirrinu. Il periodo è la fine dell’autunno, dopo le piogge che hanno reso il terreno abbastanza fràulu (morbido). La ciurma si dispone sul terreno da zappare e procede allo scasso, la prima zappatura, che deve essere profonda (almeno da 40 a 45 cm). Se il terreno è roccioso, si estraggono le grosse pietre (puntali), che si tirano via e si spaccano per far muri a secco. Si usa la zappa, lo zappone (u zappuni), fesi, palo e mazza. Questo lavoro massacrante si compie oggi coi trattori. Lo scasso si fa nei mesi estivi, da giugno ad agosto, mentre ad ottobre segue la zappatura consueta. Dopo lo scasso il terreno si zappava quattro volte: due avvenivano in un senso e due a incrociare le precedenti.

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Pachino, vendemmia 1989 (ph. Nino Privitera)

“A tutto sesto”

Si sceglie un terreno che sia fresco e poco argilloso, perché la pianta durante il periodo estivo non abbia a subire danni a causa della siccità. Sia abbastanza profondo, ricco di sostanze organiche, in modo che assorba nel periodo invernale le acque piovane, che restituiranno umidità nell’estate. Verso dicembre si procede a assestare il terreno per impiantare il nuovo vigneto. «Assestare significa squadrare il terreno, noi diciamo alliniari un confine con l’altro e mettere a sesto le viti a distanza regolare una dall’altra, in modo da formare una perfetta armonia»[2]. L’impianto avverrà tra gennaio e febbraio, piantando le barbatelle.

La messa in sesto si fa con diverse persone, comandate dall’esperto assistaturi. Per eseguirla si scelgono dei punti di riferimento sul terreno detti petri i limitu, e tistali, che delimitano lo stacco di terra e la proprietà (questo quando mancano dei muri divisori). La petra i limitu viene conficcata per 30 cm nel terreno, alla base sotto terra si pongono cinque pietre, disposte secondo un preciso disegno, che solo il padrone del fondo assestato conosce: questi segni prendono il nome di tistimoni (servono al proprietario per eventuali controversie di proprietà). Lungo la linea di confine, u limitu o finàita, distanti fra loro una decina di metri si conficcano delle canne che hanno in punta un foglietto di carta o di straccetto (a nzinga). Ogni canna esce per un metro e settanta circa dal terreno. Si inizia dal lato più regolare del terreno. La prima canna si conficca a taglio della prima pietra di confine, la seconda nella pietra opposta, la terza a metà delle due: queste prime canne son dette i canni r’alliniari. Disposte le canne, si torna alla prima pietra e alla distanza di 70 cm verso l’interno si stabilisce il primo tistali (testa). In questo punto si conficca il bastone del sesto (u cavigghiuni ro siestu), attorno a cui è avvolta la corda per assestare (appunto siestu che nelle grosse proprietà sono delle catene di ferro a piccole maglie). A partire da questo punto si tira u primu cuoppu ri siestu, cioè si stira il sesto verso la prima canna d’allineamento.

Il sesto può essere lungo da 20 a 25 metri ed è una corda annodata con tanti nodi alla distanza di m. 1,20 (anticamente un metro), in corrispondenza di ogni nodo si attacca una pezzuola di diverso colore. Conficcato il cavicchio si stira dunque il sesto parallelamente alla linea di confine (limitu). L’assestatore prende il nome di capumastru [3]. Quando il capomastro grida all’aiutante «Siemu a siestu» l’aiutante risponde «A-ppezza» e il capo a conferma gli grida «Appezzamu». È un dialogo fisso che indica tutte le volte che si conficca una canna in corrispondenza di un nodo del sesto. Le cannucce conficcate sono alte 60 cm e prendono il nome di scamuzzuna. Concluso questo primo allineamento o filare, si torna al testale dal quale ci si allontana di m. 1,20 verso l’interno e a partire da qui si tira un altro colpo di sesto, cioè si traccia sul terreno un altro filare disponendo altri cannicci alla distanza canonica di m. 1,20, data dal sesto.

Questo appezzamento una volta assestato prende il nome di mannarata, a sottolineare uno spazio delimitato, i cui limiti in alcuni casi verranno chiusi da barriere di cannicci alte m 1,40 circa e chiamate mmarrati, interrotte da aperture di ingresso e uscita (vari) [4]. Un appezzamento di grosse dimensioni si suole dividere in tanti quadrati limitati dalle barriere e ciò a fine di preservare meglio le piante dai venti e dagli animali al pascolo. Al posto di ogni scamuzzuni si trapianterà poi una piantina di vite. L’assestatura consente naturalmente di utilizzare razionalmente lo spazio disponibile e consentirà al contadino di muoversi con libertà nel corso dei lavori stagionali. Il capomastro sprona durante il lavoro gli operai che indugiano gridando loro «Picciuotti appizzamu … e cripamu» (Giovani conficchiamo e … crepiamo).

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Pachino, vendemmia 1989 (ph. Nino Privitera)

La piantatura

La piantatura della nuova vigna si compie in genere a gennaio, ma c’è tempo fino a febbraio. Nel passato si usavano i maglioli, magghiuoli, i tralci delle viti (oggi si usano le barbatelle), che, prima di essere piantati, si preparano opportunamente recidendo tutti i rami laterali e incidendo la base poco sotto l’ultimo nodo (tale operazione si chiama a-rrifriscatina). Si scava una fossa larga un 50 cm e profonda 30. Per mezzo di un grosso succhiello (virrina) si pratica un buco profondo da 35 a 40 cm dove di infila la barbatella per mezzo di un attrezzo chiamato furchetta, fatto di canna e terminante a due punte. Esso serve ad imbrigliare le radici e spingerle nel fondo del buco. Questo poi si riempie di terra e si comprime (cafuddha), perché ricorda il proverbio: a vigna cafuddhata, è-mmenza carpata, cioè la vigna compressa è mezza attecchita.

Prima della filossera si piantava direttamente il magliolo, detto latinu [5], tagliato dalla pianta matura all’atto della potatura annuale. Dopo la filossera si fece ricorso, su disposizione dei comitati antifilosserici, al ceppo selvatico portainnesto, detto appunto sarvaggiu, per cui si rese indispensabile l’operazione dello nzitu, innesto, che avviene l’anno dopo. I portainnesto più usato sono, nell’area pachinese, il 140 o ruggiero, la berlandiera, la rabaria, il rossoguerra, il ruggiero veloce, il monticolo, tutte varietà di viti americane, che si mostrarono l’indomani della filossera gli unici ceppi resistenti all’insetto. La barbatella una volta piantata si ricopre di terra per difenderla dal freddo e si segnala con una cannuccia. Non si annaffia, perché si è in inverno.

Il terreno migliore per impiantare un nuovo vigneto è quello dove mai si sia piantata vigna, o comunque che abbia riposato per diversi anni: si dice infatti «Cu scippa vigna e-ccianta vigna / mai vignigna». Utile una precedente semina a leguminacee o cereali. Si difende bene la vigna piantata vicino ad altra vigna: «Vigna allatu vigna / figghia  arrassu i mamma»; non si semini nulla nella vigna: «Cu simina a-mmienzu a vigna / num-meti e-mmancu vignigna», mentre si preferiscano terreni in pianura: «Loda l’acchianata / pigghia la chianata» (loda il terreno in pendio, ma scegli il piano); e  l’altro classico «çianta a vigna unni seri a utti». Il terreno dove sia stata piantata una vigna deve attendere almeno cinque anni prima di piantarvene un’altra. Se la vecchia vigna espiantata sia stata infettata da parassiti bisogna aspettare anche una decina d’anni. Fra i mali delle vigna anziana è da annoverare il rrunzò.

Come detto e si dirà il sistema in uso nel Siracusano prima della filossera era quello di piantare il magliuolo (u latinu) direttamente nel terreno, senza uso di portainnesto (sarvaggiu), come leggiamo nel seguente documento datato 17 dicembre 1780, in cui una serie di operai si obbligano al proprietario delle vigne site nel territorio del  feudo di Tremilia

«a calare in tutte le vigne e piante tutti quelli porpagini […] con lasciare il fosso scoperto secondo la mostra che dovrà fare il massaro del detto Rizza [...] e poi coprire di terra li fossi”. Agli operai il proprietario fornirà “un zappone e un fesi, o picone (…) senza fare danno di taglio di qualche vite [...] le sudette porpagini ogni anno si abbiano e debbiano contare di giorno in giorno coll’assistenza del massaro e nel consegnarsi dette porpagini quella di pietra, o di tavola si devono ragionare una per due non dovendosi considerare per due quelle porpagini di paro, o in detta porpagine trovasi qualche mazzacane livatizzo in questo caso devonsi ragionare una per una […]»[6].
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Innesto e prima potatura

Esso è un processo di domesticazione, metafora della civilizzazione. Segna il passaggio dal sarvaggiu al latinu, dallo stato di natura allo stato di cultura (cultura e coltura hanno significativamente un unico rinvio semantico). Ma sentiamo le parole del contadino [7] a questo proposito:

«Il sarvaggiu è la fimmina il latinu è l’omu. La donna come il sarvaggio vive più a lungo dell’uomo e come la pianta si difende meglio dalle malattie, tutto ciò che è latino è sì più buono ma anche più debole e soggetto alle malattie. Con lo nzitu la pianta produce i frutti desiderati e tuttavia è bisognosa di cure continue, si deve insolfarare, spennellare (punziddhiari) ecc».

L’innesto praticato dopo la filossera migliorò senz’altro la vite e al contempo la rafforzò, anche se procurò un innalzamento dei costi di produzione, perché se prima si piantava direttamente il magliolo nel terreno, in seguito il lavoro prevedette in più l’operazione dell’innesto, assai delicata e dispendiosa, perché specialistica. Se fu debellata la filossera non per questo scomparvero le altre malattie della vite, con le quali tuttavia da sempre il contadino conviveva: peronospera, mal nero, clorosi, deperimento. Questo fa dire al contadino «Vigna: tigna» e «Mircanti ri vinu : mircanti mischinu»

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La potatura

La potatura della vite è di due tipi: a secco e stagionale o verde, u rimunnari. Si conoscono a livello popolare diversi modi di potare: a spatiddhari, a-rranfusa, a palermitana, cu l’uocciu cavaddhatu. Il tempo più adatto alla potatura è gennaio: «La puta ri innaru / arricchisci lu uttaru» o «La puta ri innaru / inci lu panaru».

Una buona potatura e a tempo giusto salva la vigna: «Si bbonu puti / la to sorti muti» (Sortino); si può proseguire in caso di un gennaio piovoso anche a febbraio. La potatura a secco è invernale, quella verde o stagionale è estiva o comunque si fa con la bella stagione, è detta anche rrimunna (rimonda): consiste in una pulizia dalle gemme inutili (prucci) da cui l’operazione è detta sprucciari, livari i prucci, e dai succhioni, si compie fra aprile e maggio.

Nella potatura si lasciano tre tralci, detti spaddhi, si tagliano tutti gli altri tralci, detti ciurcieddhi. Il taglio alle spalle si pratica al disopra delle due gemme (uocci) destinate a fruttificare [8]. Gli attrezzi usati oggi per la potatura sono la runchitta, o rruncigghiu, la forbice e il seghetto. Un tempo si adopervano la rrunca e il coltello da nzitu. Il potatore è aiutato da un operaio addetto alla spennellatura (punziddhiari), cioè a “sanare” il taglio con pece greca (picireca). Questo lavoro era compiuto nell’azienda familiare dalle donne. C’è differenza fra la potatura di una pianta giovane e quella di una pianta vecchia. Nella prima si tende a lasciare poche gemme e questo per avere vino di migliore qualità. Quando si temono gelate si operano due potature, per non lasciare troppo esposta la pianta: una prima detta a-rranfusa, che lascia la pianta non completamente spoglia; con la seconda si opera il taglio dei tralci all’altezza del primo internodo. Poi la vigna sboccia: il giorno della festa dell’Annunziata si suole ripetere: «Ppa Nunziata a vigna: o rrusata o cruciata» (Il giorno dell’Annunziata: la vigna o rosata (fiorita) o incrociata). Le gemme fiorite sui tralci prendono il nome di tauruna.

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La zappatura del vigneto adulto

Buone e frequenti zappature sono utilissime e necessarie al vigneto quando ha raggiunto la maturità. Oggi si ricorre al mezzo meccanico (si frisìa), ma un tempo era lavoro interamente fatto a colpi di zappa. All’uopo si assumevano squadre di valenti zappatori, perché il terreno reso morbido (fraulu) dalla zappa riceveva meglio e in profondità le piogge invernali e primaverili. Il proverbio lo raccomanda: «Cu bbonu zzappa la vigna /bbonu vignigna»; oppure: «Appunta bbona la zzappa nta la vigna / ppi scippari mal’eriva e ramigna»; «Cu avi na bbona vigna / avi pani, vinu e ligna». Quest’ultimo proverbio rende bene l’utilità della vigna: essa assicura non solo il vino dell’anno, ma il pane e non ultimo la legna da ardere, perché i maglioli potati e le radiche estirpate, toppi, daranno ottime frasche e legna da ardere.

L’aratura secondo quanto riferisce lo storico Pisano Baudo, che scrive a inizio XX secolo, sembra essere una pratica relativamente recente:

«Questa pratica (l’aratura) è cominciata a generalizzarsi in molte contrade della Sicilia, a causa della mercede giornaliera ai contadini. Il lavoro con la zappa è certamente il migliore; ma cogli aratrini si ottiene un’economia sensibile»[9].

Ma così in effetti non è. Naturalmente dipendeva dai terreni e dalle quantità di vigne da arare: nelle campagne della piana di Siracusa l’aratura era molto praticata sin da epoca antica. Nel ‘700 si associava l’aratura alla zappatura. Molte volte lo zappatore andava dietro l’aratro, come leggiamo nel seguente documento, in cui di rilievo vi è anche la terminologia relativa alla zappatura:

«19 Marzo 1770: Andrea Gallego di Siracusa si obliga a don Nicolao Abela rettore di S. Andrea “colere et conciare, seu coli et conciari facere omnes […] in contrada Torre di Burgio nel feudo Maeggi territorio di Siracusa zapparle al secco con fare servizzo di tarì cinque migliaro incluso vino e menestra, lavorarle seu darci passate sette d’arato con arati, e masse atte a vigne itaché la pianta del perito, e quella del Giardinello invece di lavorarle debba coltivarle con 4 zappe cioè una a conca, altre due a trave, l’altra in piano ne’ tempi soliti e consueti, putarle al solito e naturale conforme, rimondarle, legarle, impalare le dette piante con metterci però li  pali il sig. Abela; zapparle poi in piano seu all’erbe erbe in ogni mese di maggio con zapparci anche il migliazzo se ve ne sarà bisogno e culture necessarie (…) e questo al prezzo di tt. 18 il migliaro […]; i patti sono che in ogni conza che darà nelle vigne e piante dovrà dare comunicazione al proprietario […]» [10].

Gli zappatori erano raggruppati in ciurma: in testa si disponeva il caporale (u capurali), che iniziava la zappatura della sua filiera (mpara), un po’ come nella mietitura, sopravanzando gli altri di un paio di metri. Seguiva lo spalliere (u spaddhieri), al cui lato stava il sotto spalliere (sutta spaddhieri), e via via gli altri sulla stessa linea dello spalliere e in numero proporzionato alla grandezza della vigna. La prima zappatura si faceva a-cconca; la seconda si faceva o rittu a linee parallele, prima in un senso, quindi a incrociare le linee. Una terza zappatura era chiamata o-ttribli, cioè in diagonale da una vite all’altra, che si faceva fra aprile e maggio. La quarta si chiamava a-zzappa a-rresta, che è l’ultima fatta alla fine di giugno.

La prima zappatura metteva a nudo la pianta formando una conca attorno per raccogliere le acque autunnali, infatti si svolgeva fra novembre e dicembre, la seconda o rittu a incrociare si faceva dopo la potatura e dunque fra gennaio e febbraio, serviva a ricoprire e proteggere il ceppo della vite, dai freddi invernali e dalle eventuali piogge abbondanti. La terza zappatura si divideva in una zappatura o sghierru, eseguita fra marzo e aprile ed una o tribli, tra aprile e maggio, serviva a rincalzare i ceppi, per proteggerli dalle nebbie umide di marzo-aprile e dal caldo umido di maggio, che originano le diverse malattie della vite. L’ultima zappatura detta a-resta rimetteva a nudo il ceppo affinché i raggi del sole la asciugassero e la pianta vegetasse meglio: il tempo è infatti ormai asciutto e non si temono più né gelate né venti umidi e dannosi. L’ultima zappatura rimetteva la terra delle conche al centro fra un filare e l’altro in un cono alto 30-40 cm, formato dalla terra sollevata dallo zappatore, questi coni prendevano il nome di papalluossi [11]. Nel Siracusano e in particolare ad Augusta si praticava la zappatura detta a firrettu [12]: tecnica consistente nello scalzare quattro vigne in modo da formare un quadrato con la terra ammassata al centro; ne è traccia un documento di gabella relativo ad Augusta datato 1594, in cui figura il patto che il gabelloto resta obbligato a «darci tri conzi di aratro, firretto e la zappa in chano e lo firrecto l’abbia di fari fari a giornata e che sia ferrecto come ogni anno e debia darci tutti gli stigli de parmento [...]»[13].

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Nei grandi vigneti la zappatura si faceva a-ddu ali, a due ali: un contadino, detto tagghiaturi, divideva la vigna in due sezioni; le due ciurme si disponevano ciascuna all’interno di una sezione. Oltre alle quattro canoniche zappature, una quinta si poteva dare, nel mese d’agosto, perché il proverbio raccomandava: «Cu voli aviri bbonu mustu / zzappa la vigna nt’austu».

I sistemi di zappatura variavano da paese a paese e da contrada a contrada: spesso dipendeva dalla natura e dalla orografia (terreno in pianura, in declivio o in pendio). A secondo della natura del terreno si potevano ingaggiare determinati zappatori esperti in quel particolare tipo di zappatura. Particolarmente richiesti erano le ciurme di Avola esperti nelle conche, date “secondo lo stile di Avola”, secondo le modalità che chiarisce il seguente documento:

«Siracusa  11 febbraio 1781: Corrado e Gaetano Bono di Avola” si obbligano al sacerdote don Vincenzo Troia per anni 4 zappare le vigne dette di contrada Calabresi col dare “zappe cinque secondo lo stile di Avola nell’infrascritti modi e nelli rispettivi tempi cioè la prima zappa a conca nel primintivo a prime acque, e che la zappa sia di tarì 5 a migliaro; la seconda zappa chiamata a rompere conche, ed a travo dopo la putata e ligata la pianta prima delli 15 di gennaro; la terza a travo lungo contro sesto nell’ultimi di marzo, o primi d’aprile; la quarta a trinca detta al dritto dopo la messa (messe) ma ben pure putare detta pianta al solito (…), ligarla, impalarla, rimondarla, farci tutt’altri acconci necessari, e detti travagli farli  come si stila in Avola (…); prezzo cioè della prima zappa a tarì 3 il migliaro incluso vino e minestra, la seconda terza e quarta a tarì 2,15 il migliaro alla scarsa, e della quinta zappa a tt. 2,10 il migliaro» [14].

Addirittura un contratto stilato nel 1806 fa riferimento alla “zappa all’uso di Avola”, cioè la zappatura praticata dagli Avolesi. In questo atto Cristoforo Tiralongo di Avola, nel 1806, si obbliga al barone della Targia (SR) con sedici uomini

«tutte le vigne nel feudo della Targia con farci zappa all’uso di Avola, cioè scavare ogni vite un palmo sotto la superficie della terra con la sua corrispondente circonferenza, giusta la mostra dal Tiralongo fatta, al prezzo di tt. 12,10 in denaro alla scarsa ogni mille viti»[15].

Gli zappatori erano assunti a giornata. Raramente a cottimo (stagghiu). Anche i contratti di gabella a metateria prevedevano l’obbligo di «conciare e cultivare» le vigne, come si legge ad esempio dal seguente contratto di metateria del 1657:

«Don Vincenzo Montalbano a nome di don Francesco Rao concede “a mitati” una vigna in contrada Ciurca per anni tre coi seguenti patti e cioè che i gabelloti Sebastiano e Didaco Calleri devono “conciare et cultivare” e cioè “putari, salmintari, conchiari, rumpiri et refunderi et iterum sturari et refundiri nel mese di maggio et remundari et ligari et altri conzi necessari […] et nello tempo della vindigna vindignarla […] et doppo lo frutto seu musto s’abbia da dividere a bucca di palmento cioè una metà ad essi di calleri e l’altra metà al Montalbano […); nello tempo della racina a detta vigna ci si habbia da mettiri un vigneri per guardarsi detta vigna che si habia da pagari a metà; di pio se detta vigna s’avesse da vendignari allo palmento di Furmica che detti Callari habiano da pagari solo tarì 1,10 lo iorno […]»[16].

Anche nel sistema di gabella delle vigne erano compresi i “carnaggi”, consistenti in genere in uva da tavola e mosto dolce. Tra gli obblighi quello di piantare nuove viti

«piantare nelli primi tre anni di detta gabella migliara 40 di vigne di bianco seu cataratto dummodo che non siano mascolini, cioè migliara 10 nel 1. anno, 15 nel 2. e le altre nel 3. e con l’obligo di rifilare e spingere tutti li mura a sicco caduti e fare di petra a sicco mura novi [...]»[17].
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Altri lavori nel vigneto adulto

Dopo la vendemmia la vigna riposa e si attende la caduta delle foglie. Quando queste assumono, prima di cadere un colorito rosso vinaccia (avi i pammini fizzati) è segno infallibile di prossimo raccolto abbondante. Un vigneto è considerato adulto dopo il terzo anno (doppu o tierzu nzitu), ma naturalmente comincia a dar frutti dopo il primo anno e dopo il primo innesto (doppu u primu nzitu). È già vecchio dopo il 20° anno di vita. Il calendario del viticultore è sempre quello che fissavano i vari almanacchi per l’agricoltore. Ad es. nel seguente del 1874, diffusissimo fra i contadini (da un contadino ne ho avuta una copia), leggiamo:

«Gennaro: si faranno i fossi per le propagini da sotterrare in febbraio o marzo, quando le fosse sono asciutte, altrimenti si perde la vite madre ed i sarmenti sotterrati; si metteranno in ordine i pali che serviranno dopo la potatura, se il terreno è leggiero e franco d’acqua si pianterà la nuova vigna, in caso contrario in Febbraro o Marzo.
Febbraro: si prencipierà a potare le viti, zappandole subito e impalandole, s’innestano le viti cattive, e si sotterrano le propagini impalandole diligentemente: “Fammi povira ca ti fazzu rriccu”, disse la vite.
Marzo: si proseguirà o darà fine alla potatura delle vigne, impalandole e zappandole infine.
Aprile: si zappa la vigna e si rimonda. Si dà la prima solforazione appena fiorita.
Maggio: si zappa la vigna, rimondandola dai nuovi getti, ed ove apparisse malattia si rinsolfora. Si raccomandano i pali con disa.
Giugno: si fanno i lavori del mese precedente, cioè sorveglianza.
Luglio si zappa la vigna, e si tolgono sempre i germogli.
Agosto: si bada alla custodia dell’uva onde non venga rubata e così perda la fatica dell’anno, guardandola più dai ragazzi e dalle donne, che ne sono ora ghiotti, più che quando è matura.
Settembre: Si spampanano le viti le di cui uve sono ombrate, e si preparano i panieri, le botti, i tini, il palmento per la vendemmia, che secondo le terre e le diversità del clima, vien fatta dai primi di questo mese a quelli dell’entrante.
Ottobre: Si prosegue, o dà principio alla vendemmia dell’uva matura, togliendo i grappoli con piccole forbici di poco costo, dopo uscito il sole, in giorni asciutti e non piovosi. Si faranno togliere gli acini agresti o fracidi che guastano il mosto, e se è possibile dividere anche l’uva bianca dalla nera per qualità diverse, ed allora si avranno ottimi e scelti vini.
Novembre: In questo mese si dà la migliore e più profonda zappa alle viti, scalzandole bene ed estirpandosi ogni erba o gramigna che vi potrebbe essere, facendo le conche (o bordoni) a seconda del terreno più o meno profondo, piano o scosceso.
Dicembre: Si potano le viti, altrimenti in Febraro o Marzo dopo i geli che rovinano le piante ed i fiori. Si faranno i fossi per le propaggini, e si legano magliuoli da sotterrarsi».

La vigna è delicata. Essa è soggetta a diverse malattie quali: rrunzò, u mali o surfuru (oidio), prenospira (peronospera), a culatura (o scurrutina), la tignola o sfattumi, causata da un piccolo insetto. A questi mali i rimedi tradizionali sono le frequenti inzolfarature in maggio o giugno, quando si fa più forte il pericolo di queste infezioni (l’umidità ne è la causa scatenante)

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Le botti

Prima di iniziare la vendemmia si provvedeva a lavare le botti: uttacci, uttacciuna, carratuni e carratieddi, varrila, tina, campani, insomma tutto quanto sarebbe servito a conservare il vino. Oggi si usano silos di acciaio e “fermentine” di cemento, che tuttavia devono essere opportunamente lavate, spesso con grave rischio per la salute.

Le botti vanno disinfettate attentamente con solfato di zolfo, e si provvede ad inzolfarare (nzurfarari) e a fare le stufe (farici a stufa), usando foglie aromatiche immerse in acqua calda e lavando così le botti.

A Siracusa le botti si “abbonavano” a mare con acqua salata, perché fossero esenti dai cinque mali («fora delli cincu mali condictioni e qualità cioè muffa, terra, herba, mollo, et aceto [18]». Le operazioni di “stufa” sono sinteticamente definite in questo documento del 1622 in cui i “bastasi” si obbligano a

«calarci a mare tutta quella quantità di botte che tenino nelli suoi magazeni nelle contrade della Fontana d’Aretusa e S.to Cristoforo, e quelle lavare tre volte a mare e poi empirle come è solito, e farle stare piene per ore 12 incirca, e poi repostarle in detti magazeni dove l’haveranno presi, e quelle mettere a posto e conzarci li posti [...]. Al prezzo di gr. 9 per botte»[19].
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Pachino, vendemmia 1989 (ph. Nino Privitera)

La vendemmia

Dopo la terribile filossera si selezionarono diversi vitigni che potessero resistere al male e allignare nei terreni “arsi” dal male, e che insieme riuscissero a convivere con le forti escursioni termiche delle aree costiere, in particolare quelle pachinesi e vittoriesi. Si usò come portainnesto il cosiddetto ‘ceppo americano’ sul quale si innestava in genere il “nerello d’Avola” o “calavrisi”. La pianta veniva tenuta bassa, raggiungendo solo nel punto di massima vegetazione il metro e mezzo circa d’altezza, mentre i grappoli si mantenevano sempre nella parte bassa del ceppo, spesso a poca distanza dal suolo caldo, il che favoriva la cessione di acqua e il raggiungimento di un alto grado alcolico nel mosto. Le uve da tavola nel pachinese variavano a seconda delle aree vitate: le più diffuse erano i linguagghi, a castagnola, trimmanu, buttuni i iaddu, salamitranu (rossa), cardinali; le uve bianche più comuni erano: palermitanu, biancoforti, bufania, senzariddu, ghiugnittisa, maialina, precoci, muscatidduni, muscatedda.

Le principali uve da mosto nere erano: u niuru (nerello d’Avola), surra, giachè  (tintone), parigina, sanguinettu; le bianche da mosto più diffuse erano: nzolia, catarrattu, malvagia (anche nella varietà nera), ricimigliola (anche nera), mantiddatu, regunu (anche rossa), cuttunieddu, brefunu, minna i vacca, arbanieddu, muscatedda (anche nera), trebbiano.

Fra le uve la più ricercata era il catarratto, che come dice il proverbio è capace di togliere il contadino dai debiti: «suddu ti vuoi livari li detti / simina uoriu e-ccianta catarrattu».

Il Pitrè  ci fornisce il seguente elenco di vitigni [20]:

«Nirellu nascalisi, nirellu mantillatu o cappucciu o Sant’Antuninu, Grecau o nirilluni, Nucera niuru, o biancu, catarrattu biancu, catarrattu niuru, Guarnaccia, Guarnaccia bianca, palummara bianca, Montonicu niuru e biancu, virdisi biancu, Niuru pirricuni, Nzolia niura e ianca, Tiru biancu, Rapparedda bianca, Ducignola niura, Minnedda bianca, e niura, calabrisi niuru, Muscateddu, Nnaccaredda, Arbaneddu, Marvacia, Scala biancu, Nuciddara, Iacitana, Ieppula bianca e altri».

In una statistica delle barbatelle presenti nel vivaio sperimentale provinciale nel 1864-1865 troviamo le seguenti varietà di barbatelle da trapiantare:

«Albanello, ammantellato, calabrese, catarratto [21], frappato, guarnaccia, insolia bianca, surra, bottoni di gallo, castagnola, moscatello, nero campanello, nero grosso [nero d’avola], passolara, recane, tremano» [22].

L’elenco potrebbe continuare, perché ogni area vinicola aveva il suo elenco di vitigni (lignaggi): ne cito uno curioso di Pachino, che prendeva il nome di sciasciaruni, dall’etimo incerto (forse chiacchierone).

I lavori veri e propri si svolgevano lungo l’arco di una quindicina di giorni (di solito a cominciare dai primi di settembre). Un paese intero si dava la sveglia quasi all’unisono: vedevi una comunità indaffarata, preoccupata, interamente presa dalla vendemmia, fra attese e speranze: in paese non si parlava d’altro. Intere famiglie a-ccascia i carrettu si avviavano alle vigne fuori del perimetro urbano: alla Chiappa, Carcicina, Bonivini, alla Scirbia, a Barracchinu, a Terreni nuovi o nei vigneti di Terranobile. Oggi la vendemmia si compie quasi in sordina senza la gioia e il clamore di un tempo. Il ritmo è quello imposto dalla civiltà delle macchine: velocità e risparmio. Un tempo le stesse tecniche tradizionali imponevano ritmi più umani, che lasciavano il tempo all’esplicarsi delle mille forme della comunicazione sociale tra individui, gruppi e sessi. Non c’era vendemmia senza canti, battute, e data la presenza delle donne intente a ‘raccioppare’, nascevano amori e promesse di matrimonio.

30

Pachino, vendemmia 1989 (ph. Nino Privitera)

I giovani che speravano in un ingaggio si portavano con la loro cesta (crueddha) intrecciata di canne e lentischio, o di canne e oleastro (agghiastru) nella piazza del paese. Qui venivano contattati dai sinzali, mediatori, o direttamente dai proprietari dei fondi, coi quali pattuivano il prezzo dell’ingaggio: se era di un solo giorno si diceva “a-llivata”, e il compenso si doveva a tutta la ciurma che provvedeva a dividerlo fra i lavoranti. Se, come era più comune il lavoro si protraeva per più giorni, si pagava a giornata. Il proprietario doveva corrispondere il vino da pasto e il companatico. All’accordo seguiva la consegna della corbella da parte del ragazzo al padrone a pegno dell’ingaggio (se c’era il mediatore bastava la sua parola).

Giunta all’antu (il nome indicava la vigna da vendemmiare ed era mutuato dal campo da mietere), la squadra sceglie il capo (capuciurma), che provvede a sua volta a disporre ciascun uomo nel proprio filare filagnu. Al segnale convenzionale del capo si inizia: un tempo l’inizio dei lavori era scandito con un’invocazione a carattere religioso («A-nnomi di Diu e di li santi»), poi sostituita da frasi quali «Amici miei, ttaccamu», o «Susitivi ch’è-gghiornu». Si iniziava con grande lena, e a metà filare ci si cominciava a punzecchiare l’un l’altro, e spontaneo nasceva il canto, o la battuta sarcastica o il proverbio pungente e attinente ad un particolare difetto di qualche vendemmiatore. In genere il capo iniziava una sfida col compagno a chi riempiva per primo la cesta: «Infatti chi per primo la riempie, agitandola in aria, esclama, rivolto ai compagni:

«Primera cu nun è-ccinu si rispera» (“Premiera chi non l’ha piena si dispera”, la premiera è nel gioco delle carte il possesso della maggior numero di carte di sette). La presenza delle donne “raccioppatrici” stimola il canto e in particolare il canto d’amore spesso a doppio senso: «Signura zzita, siti bbomminuta / dumani fazzu a-bbui la bol-livata / la vostra vigna stasira si puta/ e-ddumani si ttrova vignignata» (Sortino).

Fioccavano motti e sentenze dai più anziani a mo’ di ammonimento ai più giovani, specie quando in mezzo c’era qualche lavativu o allintatu o peggio strafottenti, in questo caso si raccontavano apologhi e si ricordavano episodi e fatti successi al fine di far capire al tizio “l’educazione”. Sempre gli anziani ricordavano il tempo passato e criticavano il presente o gli errori che si facevano dai nuovi padroni che pretendevano raccogliere subito l’uva: «Cuogghi appena matura la rracina / Ccu bbuonu tiempu e asciutta r’acquazzina», il che significava che era sbagliato iniziare all’alba la vendemmia. Riempita la corbella, ciascun vendemmiatore la trasportava a spalla (ma spesso erano le donne a portarla a destinazione) fino alla tina caricata sul carretto dove veniva svuotata. Riempita la tina, il carretto si avviava verso il palmento. Se questo era vicino alla vigna, i vendemmiatori erano obbligati a scaricare l’uva raccolta nei pigiatoi del palmento [23].

Alla fine della vendemmia passavano le squadre delle “raccioppatrici” che provvedevano a ripassare le vigne vendemmiando i graspi rimasti (l’operazione prendeva il nome di racciuppari, da raccioppu, piccolo grappolo). Perché a tutti era chiaro il noto proverbio: «Cu avi bbona la vigna / avi pani, vinu e-lligna»: la vigna dava la legna, con la legna si ardeva il forno per il pane. Il pane era vita.

Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
Note
[1] Archivio di stato di Siracusa [da qui ASS] notaio [not.] Serra Domenico, vol. [volume] 11975.
[2] Dalla testimonianza scritta di G. Ferrara (v. infra).
[3] Il suo lavoro lo avvicina ad un capomastro edile.
[4] Cioè varchi. Equivale al ternine passu, diffuso nelle campagne iblee.
[5] Latinu è sinonimo di produttivo, perciò nei contratti di gabella il padrone raccomandava di piantare «vigne latine e non mascoline», come si legge esplicitamente in un contratto di gabella di vigna a Siracusa del 1743, in ASS not. Romano Mauro vol. 11733.
[6] ASS not. Di Giovanni Ignazio, vol. 12801.
[7] Giuseppe Ferrara, di Pachino nato nel 1925.
[8] Se ne può lasciare una terza (u terzu uocciu)
[9] S. Pisano Baudo, Sortino e dintorni. 2: Ricerche sui contadini. Costumi e usanze. Lentini, Tip. Scatà Alemagna,  1911: I, 27.
[10] ASS not. Romano Emanuele, vol. 12948. Dunque le passate con l’aratro erano da cinque a sette, quelle con la zappa quattro.
[11] Ad Avola le quattro zappature prendevano questi nomi: a conca o a lu rittu; a rumpiri conchi o a lu sgherru tiratu; a lu sgherru allitticatu; a travu o a ppenniri racina.
[12] ASS not. De Bernardi, vol. 36. Il termine firrettu designa, secondo il vocabolario del Piccitto: «rialzo di terra che circonda la conca intorno alla pianta»; «zappari a firrettu zappare il vigneto in modo da formare dei riquadri in ognuno dei quali vengono piantate 4 viti con la terra ammassata al centro», G. Piccitto, Vocabolario Siciliano italiano, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Opera del Vocabolario siciliano, 1990, 2, s. v.
[13] ASS not. Ferrara Pietro busta 372.
[14] ASS not. Del Serro Domenico, vol. 13085.
[15] ASS not. Bayona, vol. 12921.
[16] ASS not.  Albergo Paolo, vol. 9120.
[17] ASS not. Romano Mauro, vol. 11712.
[18] ASS not. Mangalaviti, vol. 11292, atto di vendita di salme 250 di vino bianco e nero del 23 febbraio 1671.
[19] ASS not. Avolio, vol. 10965.
[20] G. Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, 3, a cura di A. Rigoli, Palermo, Il Vespro, 1978: 186-187.
[21] «Queste barbatelle si devono piantare su terreno scassato sei mesi prima, alla profondità almeno metri 0,80». La disponibilità delle barbatelle nel vivaio provinciale era di 31.350 pezzi.
[22] ASS Fondo Bianca, busta 3.
[23] Queste grandi tine erano spesso di legno di castagna.

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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate ha di recente pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa.

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