Un anno fa, prima che uscisse la sua traduzione dei Sonetti a Orfeo – Rainer Maria Rilke, I sonetti a Orfeo, tradotti in verso e rima italiani da Carlo Testa, Moretti & Vitali, Bergamo 2014 –, l’amico Carlo Testa venne a Milano. Carlo Testa vive a Vancouver, in Canada, dove insegna italiano e letterature comparate all’Università della Columbia Britannica. In quell’occasione invitai alcuni poeti per parlare della traduzione di Carlo, ma anche per discutere su un tema che a me sta molto a cuore, e cioè su come tradurre la poesia. Tema sul quale sono stati versati fiumi d’inchiostro, dove la parola che ricorre più spesso è: «impossibile», perché, come diceva già Dante, «nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra transmutaresanza rompere tutta sua dolcezza e armonia»[1].
E, a proposito di Dante, ricordo di aver letto che T.S. Eliot si era innamorato della sua poesia leggendola in italiano quando ancora non conosceva la nostra lingua. Solo così riusciva a cogliere «tutta sua dolcezza e armonia».
Tornando a Carlo Testa, ciò che mi aveva colpito e creato perplessità erano le parole «in verso e rima» del sottotitolo. Cercavo di mettermi dal punto di vista del lettore, anzi, delle mie esigenze di lettrice. Il tedesco è la mia madrelingua, ma quando compro, per esempio, un libro di poesie tradotte di un poeta russo, lingua che non conosco, cosa chiedo alla traduzione? Non che mi riproduca «dolcezza e armonia». Quelle le do per perse, ma voglio sapere che cosa il poeta dice, i concetti che esprime, le figure retoriche che usa… Voglio una traduzione il più possibile letterale. È evidente (così pensavo) che se uno traduce «in rima», ad essa dovrà inevitabilmente sacrificare il significato.
Diversa era la posizione dei poeti presenti e di Carlo Testa. Per loro una buona traduzione deve cercare di ricreare il più possibile la musica, il ritmo, il profumo della poesia originale, deve far nascere le stesse emozioni: e la rima è essenziale, irrinunciabile.
Dopo aver cenato e discusso a lungo, siamo passati dalla parte teorica a quella pratica. Carlo, che sa molto bene il tedesco, ha letto prima un sonetto di Rilke e poi la sua traduzione. Che meraviglia! Ho dovuto ricredermi: c’era tutta la «dolcezza e armonia» di Rilke, c’era la rima e c’era tutto il significato.
Voglio dare qualche esempio. Lo spazio non mi consente di riprodurre interi sonetti, ma devo limitarmi a qualche strofa e la scelta, credetemi, è difficilissima:
Zu unterst der Alte, verworrn, Al fondo l’Antico, intricato,
all der Erbauten di tutto ciò che fu eretto -
Wurzel, verborgener Born, radice, recondito getto
den sie nie schauten.[2] Mai esplorato.
Dir aber, Herr, o was weih ich dir, sag, Dimmi, ma a te che cosa consacro, Signore,
der das Ohrden Geschöpfen gelehrt? Che alle creature insegnasti l’udito?
Mein Erinnern an einen Frühlingstag, Un mio ricordo di primavera,
seinen Abend, in Rußland –, ein Pferd… [3] d’un cavallo, in Russia -, una sera…
Sei in dieser Nacht aus Übermaß Sii in questa notte, in profusione,
Zauberkraft am Kreuzweg deiner Sinne, all’incrocio dei tuoi sensi incantamento,
ihrer seltsamen Begegnung Sinn. sii il senso della loro strana unione.
Und wenn dich das Irdische vergaß, E quando il terrestre ti vota all’abbandono,
zu der stillen Erdesag: ich rinne. tu di’ alla ferma terra: io divento.
Zu dem raschen Wasser sprich: ich bin.[4] Ed all’acqua rapida di’: io sono.
Chi sa il tedesco si renderà conto che il significato è pienamente rispettato e, per quanto riguarda la «dolcezza e armonia», devo dire che trovo spesso i versi italiani più melodiosi dell’originale. Come per i pattinatori, che volteggiano sul ghiaccio con una leggerezza, con una grazia che sembra «naturale» ma è invece il frutto di una grande fatica, così penso sia per questa traduzione, così bella, così scorrevole che sembra «naturale», venuta di getto. Non è così: dietro a una traduzione così perfetta c’è moltissimo lavoro, per trovare la parola giusta, per riprodurre quella musica, quel timbro. C’è tanta fatica ma c’è anche – e lo si sente – un immenso amore.
Il libro inizia, dopo una breve prefazione di Carlo Testa, con un saggio di Claudio Magris dal titolo Oltre le parole: Rainer Maria Rilke. Poi ci sono i Sonetti, ovviamente con l’originale a fronte e con quello che Carlo Testa chiama «Atelier», ovvero il laboratorio del traduttore, dove sono indicate le possibili alternative, nonché varie considerazioni su alcuni termini: interessantissimo.
Alla fine vi sono le «Note di Rilke» ai Sonetti, sempre col testo tedesco a fronte,e tre testi di approfondimento dello stesso Testa, dai quali si evince la notevole conoscenza che lui ha del mondo della poesia tedesca e di Rilke in particolare, e la grande sensibilità che gli consente di comprenderne – e spiegarci – gli aspetti più profondi.
Mi incuriosisce il sottotitolo del primo di questi testi: «Cinquantacinque noterelle fobologiche». Cosa vuol dire? Non sarà un errore di stampa? No. Che cosa vuol dire lo spiega Carlo Testa nella prima «noterella», che dice:
Il neologismo “fobologico” significa il contrario di “filologico”. Le tesi qui di seguito riunite, in altre parole, non mirano a dare a lettrici e lettori degli strumenti professionali per una nuova lettura tecnico-filosofica dei Sonetti a Orfeo nel contesto delle letterature di lingua tedesca della prima metà del ventesimo secolo. Un tale – nobile – compito incomberebbe, casomai, a un germanista; e mi esprimo al condizionale, poiché non sono certo che questo sarebbe, oggi, un compito ancora necessario. In ogni caso, non è lo scopo che mi prefiggo: non sono germanista, e non traduco in primo luogo per aspiranti germanisti. Evitando, per così dire, di predicare ai già convertiti, mi propongo piuttosto di tradurre i Sonetti a Orfeo da non specialista per i non specialisti. È tra di noi che Rilke deve ancora far breccia…
In me Rilke aveva già fatto breccia molto tempo fa, ma io sono di madrelingua tedesca. Ora, con una traduzione appassionata come questa, che riesce a riprodurlo non solo «in verso e rima italiani», ma anche con «dolcezza e armonia» Rilke riuscirà sicuramente a «far breccia», o meglio ad allargare l’esile breccia che già c’è nel nostro Bel Paese.
Dialoghi Mediterranei, n. 13, maggio 2015
Note
[1] Dante Alighieri, Convivio, I, VII, 14.
[2] I, XVII, vv. 1-4.
[3] I,XX, vv. 1-4.
[4] II,XXIX, vv. 9-14.
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Maria Soresina, nata da padre italiano e madre viennese, si laurea nel 1981 in Scienze Politiche all’Università Statale di Milano con la tesi Karl Kraus e Vienna: satira e critica della società (relatore Francesco Alberoni). Cultrice di filosofia indiana fin dagli anni Sessanta e attenta studiosa dell’opera di Dante, individua la fonte primaria della Divina Commedia nel catarismo, l’eresia estremamente diffusa negli anni e nei luoghi in cui visse Dante. Della sua produzione, si segnalano i seguenti titoli, editi da Moretti&Vitali di Bergamo: Le segrete cose. Dante tra induismo ed eresie medievali, 2002; Libertà va cercando. Il catarismo nella Commedia di Dante, 2009; Mozart come Dante. Il Flauto magico: un cammino spirituale, 2011.
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Fortuito incontro, questo sul WEB, con Orfeo-Rilke!
La poesia, del resto, è un succedersi di fortuiti incontri: puoi rileggerla cento volte, per incontrarla poi a un tratto, impensatamente.
Rilke stesso ammonisce (“Sonetti a Orfeo”, I,5):
Non alzate memorie; che la rosa
fiorisca a lui pur solo anno per anno,
chè questo è Orfeo; in ciascuna cosa
la sua trasmigrazione, non l’affanno
nostro per altri nomi; e se c’è un canto
è Orfeo e null’altro. Ch’egli vada e torni.
Non è già molto se dura oltre l’incanto
della rosa talvolta alcuni giorni?
Oh, svanire così, perché capiate!
e sia pure in lui angoscia di svanire.
Hanno le sue parole superate
queste realtà, ch’egli è già a voi sfuggito.
La lira non ha corde da irretire
le mani: trapassando egli ha ubbidito.
Così interpretai nella nostra lingua questo sonetto, quando ancora mancavano esempi (a parte alcuni, frammentari, di Giaime Pintor); il Rilke, offerto alla vista e non all’udito, è un Rilke desolatamente mutilo.
Quel mio lavoro del 1992, quando si pensava che l’Europa fosse nata, fu edito solo per me e per chi ama Rilke; “La poesia non tira”, obiettò un editore a cui lo avevo proposto. Vittorio Gassman invece lo apprezzò.
Perché la poesia, è vero, non esiste come realtà concreta; viene casualmente colta come un riflesso di luce, in uno specchio, in un virgineo stato, proprio come il mitico unicorno:
(“Sonetti a Orfeo”, II,4)
Oh, questa è la creatura inesistente!
Ma non sapevano, essi, e l’hanno amata:
per la figura, il passo, per l’arcata
del collo, fino al quieto occhio lucente.
Certo: non era; ma per quell’amore
realtà divenne; esso a lei apriva
spazio, sereno ermo spazio, dove
alzò il capo leggera e l’esser viva
fu un gioco. Né la nutrì il maggese,
ma facoltà di vivere soltanto,
sempre, e ne trasse tale forza altera
che un cuneo dalla fronte si protese.
Bianca passò a una vergine daccanto
e in lei or dimora e nell’argentea spera.
Grazie e ai prossimi, fortuiti incontri.
Marino
Grazie Marino, bell’intervento il tuo, colmo di pietas verso la poesia … Quando (dopo aver completato il mio sforzo) ho per curiosità iniziato ad esplorare i precedenti prodotti rilkiani dell’industria editoriale italiana, la tua traduzione e’ stata la sola — tra tante anche tecnicamente corrette — che abbia saputo, in piu’ di un punto, toccarmi.
Alla Cvetaeva, negli anni 30, dissero: «Nous avons déjà des traducteurs» …
Cordialmente
Carlo Testa