di Arnaldo Nesti
Cinquanta anni fa, proprio in questi giorni settembrini, mia madre, in modo improvviso se ne andò. Non voglio troppo soffermarmi in questa sede su quella vicenda che mi toccò profondamente. Ricordo ancora molto bene e mi pare ieri di risentire la voce commossa di Padre Ernesto Balducci che ebbe il buon cuore di presiedere i funerali e rivolgere un commovente “discorso” funebre in suo onore.
In seguito a quella vicenda che mi toccò profondamente, anche per spezzare la routine accademica fiorentina, approfittai di un invito a recarmi in America latina. Ci sarei voluto andare da tempo. Avevo pensato di recarmi prima in El.Salvador dove da poco avevano assassinato mons. Oscar Romero. Poi mi sarei recato in Nicaragua dove era in corso la singolare esperienza sandinista. Avrei avuto una guida straordinaria nella persona di un caro e illustre amico, del prof. Francois Houtart. Poi tutto rimandai. Dopo la morte della mamma riaffiorò il progetto. Dove andare? Alla resa dei conti, prevalse la insistenza di un amico che aveva progettato un mio soggiorno presso il Dipartimento di antropologia della Università cattolica di Lima. Tengo a ricordarlo perché da allora si aprì un capitolo nuovo nella mia vita oltre che di studioso di cittadino del mondo.
In Perù: da Lima a Cuzco
A Lima, dunque, avrei dovuto svolgere un corso seminariale sul tema: “Gramsci e la religione popolare”. Così a breve distanza dalla scomparsa di mia madre, nel mese di ottobre 1979 partendo con un aereo da Milano per Dublino e poi diretto a Lima, mi sono messo in viaggio. Pensai al ragazzo genovese di tredici anni, figliuolo d’un operaio, personaggio di Cuore di De Amicis: andò da Genova in America, facendo il viaggio degli Appennini alle Ande. Non nascondo la grande emozione che provai quando mi sono trovato, dopo la sosta imprevista a Quito, in Equador, a volare sopra la Cordigliera Bianca, la più alta catena di montagne, tra le più impressionanti del mondo. La Cordigliera delle Ande, con i suoi 7.200 km di lunghezza è la catena montuosa più lunga del mondo. Ho ricordato a lungo l’emozione di trovarmi a contatto con le cime di quella catena. L’aereo sembrava, a tratti, scendere e poi riprendere quota, quasi fosse “titubante”. Ho pensato, con imbarazzo, a quanto era accaduto non molto tempo prima il 12 ottobre 1972. In un primo momento, allora, la nebbia fitta e le perturbazioni che interessavano le Ande in quelle ore costrinsero l’aereo ad atterrare in serata all’aeroporto vicino. Poi, essendo le condizioni del tempo cattive ma non tempestose, dopo essersi consultati con altri piloti, la decisione fu di partire. Le condizioni atmosferiche erano tali che durante il volo l’aereo avrebbe viaggiato costantemente sopra un tappeto di nubi che nascondevano completamente le montagne.
Probabilmente anche questa valutazione era errata: poiché il vento soffiava verso est a una velocità superiore ai 60 km/h, la velocità effettiva dell’aereo era minore. Ma erano passati solo tre minuti, invece degli undici previsti dal momento in cui il pilota aveva comunicato (erroneamente, tra l’altro) di essere sopra il passo, cioè un tempo insufficiente non solo per raggiungere Curicó, ma anche per il completamento del tratto di rotta comprendente l’attraversamento delle montagne. Pertanto, al momento della deviazione verso nord, l’aereo si trovava all’incirca sopra il passo del Planchón: siffatta virata fece quindi infilare il velivolo dritto nel mezzo della Cordigliera.
Memore di questa vicenda sono rimasto con il fiato sospeso fino al felice arrivo a Lima. All’arrivo mi attendevano dei cari amici che, purtroppo, oggi se ne sono andati nell’“altra riva”. All’indomani, dopo un giorno di riposo, ho potuto prendere i contatti con l’università e mettere a punto il programma del corso seminariale previsto presso il dipartimento di Antropologia dell’Università cattolica di Lima. Devo confessare che arrivai in Perù assai impreparato, senza conoscere la lingua castigliana e avendo informazioni approssimative sul terreno storico-politica. Confidavo sull’aiuto di collaboratori locali. Anzi in aereo persi anche il piccolo dizionario che mi ero portato dietro, anche con un’appendice con le domande di rito per le prime necessità.
Non mi sarei immaginato di trovare un uditorio così numeroso e qualificato. Ancora oggi a distanza di anni conservo un caro e ammirato ricordo, di uditori di allora fra gli altri ricordo l’allora giovane teologo cileno Diego Irarrazaval, un emigrato dal Cile dopo il golpe di Pinochet [1] ,avvenuto l’11 settembre 1973 contro il governo guidato da Salvatore Allende [2].
Il soggiorno peruviano fu per me di grande interesse. Mi permise, pur non conoscendo la lingua, di venire a contatto con una realtà a me sconosciuta. Devo subito dire che mi fu presentato e potei conoscere ed essere ricevuto con molta cordialità dal teorico della Teologia della liberazione Gustavo Gutierrez che mi chiese informazioni, oltre che sul mio lavoro, sull’attività che svolgevo, allora, con la rivista “Idoc internazionale” da lui conosciuta. Non posso fare la lista della lavandaia degli incontri, delle conoscenze e delle iniziative avviate. Ho il rimpianto di non essere riuscito a portarle tutte in porto.
Le mie lezioni, comunque, si trasformarono in veri e propri seminari interminabili. Molto interesse suscitarono le annotazioni che andai sviluppando sulla figura di Antonio Gramsci e sulla lettura da dare in genere al folclore e alla religione popolare .Trovandomi in Perù in quel particolare periodo autunnale non potevo rimanere distratto davanti ad alcuni fenomeni locali, in atto, quali le storiche manifestazioni in onore del “Senor de los Milagros” e un evento straordinario dedicato al folclore,con la celebrazione, appunto nel 1979, a Lima del congresso mondiale di medicina folclorica.
Riandando a quel viaggio, dunque, non posso tralasciare di accennare eventi che non prevedevo di tale ampiezza e che mi coinvolsero. Prima di tutto potei conoscere e partecipare allo svolgimento delle sfilate per la città in onore del Senor de los Milagros.
El Senor de los Milagros en el mes morado
Lima a metà di ottobre “veste” di viola in onore di El Senor de los Milagros. Il Signore dei miracoli è un’immagine di Gesù Cristo originariamente dipinta su un muro situato dietro l’altare maggiore del Santuario di Las Nazarenas. L’icona fu dipinta nel corso del XVII secolo da uno schiavo originario dell’Angola poi trasferito in Perù. Nel 1655 un forte terremoto danneggiò gran parte della città ma ha lasciato intatta l’immagine, che è sopravvissuta miracolosamente ad un altro terremoto. Quella che era iniziata come una festa afro-peruviana è stata sempre più adottata dalla borghesia creola nel XVIII secolo, al punto da coinvolgere tutti e fare di questa festa una data festiva di tutto il Perù. La festa del Señor de los Milagros, oggi, è la celebrazione principale nel Paese e caratterizzata da una delle processioni più grandi del mondo.
Dunque in tale circostanza ho potuto conoscere e partecipare alla sfilata in vari punti della città. Mi trovai casualmente, in un primo pomeriggio, nel palazzo del partito Apra trovandomi accanto, affacciato ad una finestra, un candidato di allora alla presidenza della Repubblica. Ho potuto vedere e capire, da vicino, come in ottobre il Perú festeggia il mes morado! È bene ricordare che ancora oggi il mese di ottobre costituisce in Perù il mes morado, ovvero il mese delle processioni, in cui la capitale Lima è in preda a un singolare fervore religioso popolare. Si tinge interamente di viola in onore al Señor de los Milagros, il “Signore dei Miracoli”, protettore degli schiavi. Il colore viola si deve all’ordine delle suore Nazarene, nel cui Istituto trovò dimora l’immagine della quale le suore cominciarono a prendersi cura. Da allora il viola simboleggia la dedizione assoluta al Señor de los Milagros detto anche Cristo de Pachacamilla, Cristo Morado, Cristo de las Maravillas, Cristo Moreno o, più imponentemente, Señor de los Temblores, Signore dei Terremoti.
Come ogni tradizione che si rispetti anche il mes morado peruviano ha le sue ricette culinarie: la più famosa è il Torrone di Doña Pepa, alias Josefa Marmanillo, schiava angolana nonché eccellente cuoca della provincia peruviana di Cañete, vissuta alla fine del ‘1700. Colta da una improvvisa paralisi degli arti superiori che non le permetteva di lavorare e quindi di mantenersi, Josefa si mise in cammino verso Lima, pregando che la misteriosa immagine del Cristo potesse ridarle l’uso delle braccia, miracolo che puntualmente avvenne. Devozione e gratitudine eterna fecero sì che Doña Pepa elaborasse tale Torrone tentatore, che negli anni a seguire continuò a portare regolarmente in pellegrinaggio a Lima come offerta al Cristo Nero, il quale – assicurava Doña Pepa, secondo la leggenda – sebbene crocifisso trovava il tempo di sorriderle mentre le dava la benedizione.
Seguendo i lavori del congresso sulla Medicina folclorica
Per tornare al mio primo soggiorno peruviano, in quella occasione, verso la fine del mio corso accademico, già nel pieno del mes morado, mi hanno informato che si sarebbe tenuto a Lima il congresso mondiale di Medicina folclorica, destinato a svolgersi oltre che nella capitale in altre città caratteristiche peruviane come Cuzco, la città santa degli Inca e Iquitos in Amazzonia, soprannominata la “Amazon Venezia” per i suoi numerosi corsi d’acqua.
Pur non essendo uno specialista della materia mi sono lasciato attrarre dalle località dove si tenevano le lezioni e dalla presenza in qualità di vice presidente di tale congresso mondiale di un mio amico italiano come il prof. Corrado Corghi di Reggio Emilia con cui avevo stabilito da qualche tempo forme di collaborazione per la ricostruzione del mondo politico cattolico italiano nel Novecento. Il congresso mi permise così di recarmi anche in Amazzonia e di rendermi conto, nonostante il clima caldo e umido, di un numero incredibile di piante comunemente sottratte alla vista dell’occhio comune.
Prima di concludere il congresso in una sosta pomeridiana, prendendo un tradizionale “ponche”, nella Plaza de Armas, a Cuzco ebbi modo di scambiare con Corghi le impressioni su questo soggiorno peruviano. In tale occasione potei anche accennargli le mie valutazioni sul mondo latino americano che lui conosceva molto meglio di me, e per continuare il rinnovato incontro peruviano, gli proposi di organizzare a Firenze, appena possibile, un convegno internazionale su “Religioni e società nel Centro America” come atto di omaggio al vescovo Oscar Romero vittima della violenza.
Il convegno si poté svolgere nel 1982, promosso dall’Università di Firenze, anche grazie al sostegno oltre che del CNR italiano delle istituzioni cittadine e regionali. Riscosse un certo successo con la presenza non solo di studiosi del Centro America, ma anche di diplomatici e di molti studiosi di varie università europee. A distanza di anni è possibile ancora ritornare a quell’evento grazie al volume da me curato che appositamente fu pubblicato [3]. Mi stavo convincendo che una lettura del mondo contemporaneo nella sua complessità non era possibile senza fare i conti con la storia di quei popoli.
Il primo contatto articolato con la realtà peruviana, grazie agli incontri e agli eventi che ho potuto vivere, mi ha fortemente stimolato a superare le tentazioni dell’etnocentrismo eurocentrico. In questa prospettiva, per anni, cercherò di stabilire ponti nuovi allo scopo di situarmi in modo organico dentro un Mediterraneo “allargato” [4].
“Visiting professor” all’Unam di Città del Messico
Pur non volendo abusare della pazienza avuta con me dal lettore fin qui, tengo tuttavia a parlare di una nuova stagione delle mie esperienze di contatto con il mondo latino americano. Si svilupperà grazie ad un nuovo rapporto che verrò a stabilire nel 1986 con l’Università (Unam) di Città del Messico. Nella primavera del 2006, dopo aver cercato di porre un rimedio alle mie gravi lacune linguistiche, nel quadro delle relazioni fra l’università di Firenze e l’Unam, accetto l’invito a recarmi in Messico, per un anno sabbatico di ricerca, disponendo di una abitazione messami a disposizione dal compianto collega Enzo Segre. Anche in questa occasione ho progettato di svolgere una ricerca sul campo, in area messicana, e un ciclo di lezioni su “Il fatto religioso oltre i paradigmi della modernità”. La mia presenza all’Unam fu presentata e inquadrata nel contesto delle attività nell’ateneo dal prof. Alfredo Lopez Austin, un’autorità dell’antropologia internazionale. Tengo ancora sul mio tavolo di lavoro il suo libro su Il passato indigeno. Per una nuova storia del Messico precolombiano (1996). Tenni un ciclo di lezioni per la durata di un trimestre accademico, dalle 10 alle 12 del mattino. Con l’occasione misi a punto anche un testo che pensavo di pubblicare immediatamente, con l’introduzione di Lopez Austin. Me lo riportai, però, indietro a Firenze e lo pubblicai riorganizzato in due distinti libri [5].
Fin dall’inizio, ben al di là dell’importante attività didattica, ho approfittato delle festività a Iztapalapa, per organizzare una ricerca sul campo, attivando una serie di interviste, raccogliendo alcune decine di storie di vita, sulla base di un campione costruito a Iztapalapa. Il soggiorno, nel suo insieme, fu interessantissimo, per più ragioni. Schematizzando direi perché mi permise di venire a conoscenza del fenomeno popolare legato al culto della Madonna di Guadalupe. Ma trovandomi durante il tempo della Settimana santa (1986), ebbi modo di conoscere e poi seguire attentamente la particolare Settimana santa di Iztapalapa, grazie anche alla collaborazione di un piccolo gruppo di lavoro che potei attivare.
L’enorme agglomerato di Iztapalapa, è utile ricordarlo, è una delle 16 delegazioni del Distretto Federale messicano. Ha una superficie di poco più di 116 km² ed è situato a est della capitale messicana, occupando la parte sud del bacino del lago di Texcoco. In base al censimento della popolazione e delle abitazioni realizzato dall’Istituto Nazionale di Statistica, Geografia e Informatica nel 2010, aveva una popolazione di 1.815.786 abitanti, che lo rendono la circoscrizione più popolata di tutto il Paese.
La settimana della“Passione di Cristo” a Iztapalapa
Qui durante la Settimana santa, sulla sommità del Cerro de la Estrella, da 171 anni si svolge la rappresentazione della Passione di Cristo. Inizia con la processione della Domenica delle Palme, per la quale sono giunti, nel 1986, circa 6 mila “nazareni” (giovani maschi) e “vergini” (giovani femmine) che interpretano il popolo di Gerusalemme mobilitato ad accogliere Gesù con giubilo, palme e grida di gioia.
Nella Domenica delle Palme, a Iztapalapa i nazareni sono identificati dalle tuniche viola, mentre le vergini indossano vestiti di color pastello. Il numero di nazareni e di vergini cresce ogni anno: nel 2013 ne sono arrivati 4 mila, nel 2014 ben 6 mila.
Il momento più forte della rappresentazione è il Venerdì Santo, anche se durante tutta la Settimana Santa ci sono rappresentazioni di passi collegati all’ultima settimana del Signore, prima della Resurrezione. Tutti i personaggi del racconto evangelico vengono rappresentati. Essere il Cristo di Iztapalapa è una vera fonte di orgoglio. Chi viene scelto deve essere un fedele cattolico, sufficientemente forte per caricare la croce, che pesa 90 chili ed è lunga sei metri. Negli ultimi 45 anni, don Ángel Juárez ha donato la croce per tutte le rappresentazioni. Chi rappresenta Cristo deve prepararsi adeguatamente, godere di ottima fama, essere originario di uno degli otto quartieri che compongono Iztapalapa e potersi esibire per 13 domeniche di seguito. Nel 2014 si pensa che nel percorso e nella salita al Calvario (il Cerro de la Estrella) abbiano accompagnato Gesù circa due milioni e mezzo di persone, inclusa una nutrita delegazione della stampa, nazionale e internazionale. La partecipazione è tale che dal 2013 la Passione viene trasmessa in tempo reale attraverso le reti sociali e in televisione via Internet.
Di tutti coloro che assistono ogni anno alla rappresentazione, il 60% è costituito da abitanti di Iztapalapa, il 30% da persone provenienti da altre parti di Città del Messico e dai municipi della zona, il resto da turisti nazionali e stranieri. Quest’anno circa 11 mila membri del Procuratorato Generale di Giustizia del Distretto Federale (PGJDF) e funzionari della delegazione di Iztapalapa hanno vigilato per far sì che la rappresentazione della Via Crucis di Iztapalapa si svolga senza problemi. La rappresentazione della Passione di Cristo coinvolge 136 attori parlanti, 275 attori secondari e oltre 500 di contorno. Il Comitato Organizzatore ha iscritto per il 2014 2.500 nazareni, e le bande musicali contano 105 componenti. Per la rappresentazione sono state svolte 180 ore di prove per 37 giorni, e ce ne sono voluti 40 per preparare la scenografia.
In totale, tra domenica, giovedì, venerdì e sabato si realizzano 34 ore di rappresentazioni. In queste giornate sono attraversati per cinque volte gli otto chilometri di percorso in processione per i quartieri. Il venerdì, la Via Crucis ha un percorso di due chilometri fino alla zona della crocifissione, sulla sommità del Cerro de la Estrella. Durante la Settimana santa accanto alla celebrazione liturgica si sviluppa e si rappresenta (in modo autonomo e separato) la Passione di Cristo a Iztapalapa: che è la più grande e antica sacra rappresentazione del Messico. Ancora a distanza di anni vivo le emozioni provate trovandomi ad assistere a 34 ore di rappresentazioni e seguendo, purtroppo, solo qualche tratto degli otto chilometri di percorso. Anzi, mi vedo ancora sotto la croce, sul “Golgota” mentre si trovava accanto a me un vecchio esponente zapatista, al tempo ben conosciuto, ancora dotato di una pistola che nascondeva sotto la giacca.
Soste speciali. Da El Zocalo a Coyoacan
In quei giorni ho potuto visitare più volte il centro storico della città e soffermarmi in particolar modo su tre distinte questioni. El Zocalo, “plaza principal” della Ciudad de México, è circondato dalla Cattedrale metropolitana di città del Messico a nord, il Palazzo Nazionale (sede del potere esecutivo federale) a est, l’Antico Palazzo Comunale e il Palazzo del Governo. Quest’ultimo è uno dei palazzi che da solo vale un viaggio a Città del Messico. Potete trascorrere ore davanti ai meravigliosi murales di Diego Rivera che tracciano una panoramica della storia del Messico dall’epoca preispanica all’età moderna. Se venite per la prima volta a Città del Messico vi consiglio d’iniziare da qui l’esplorazione di questa fantastica città.
Segnalo tuttavia che i miei interessi si sono concentrati su una personalità, dal profilo comunista, in senso lato e su una questione drammatica quale la rivoluzione messicana del primo Novecento. Dopo le visita, per molti aspetti ovvia a El Zocalo, mi sono recato, stimolato da molti richiami politico-culturali a Coyoacan presso l’abitazione che fu di Frida Kahlo, all’anagrafe Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón (1907-1954). Il singolare personaggio ebbe una vita assai tumultuosa. Devo confessare che la sua conoscenza mi suggerì molte ipotesi di ricerca proprio a partire dai miei prevalenti interessi sui fatti religiosi e, quindi, dalla vita del soggetto, fortemente laicizzato ben al di là di ogni segnaletica confessionale. La Kahlo, dopo il gravissimo incidente stradale, subì 32 operazioni chirurgiche. Dimessa dall’ospedale, fu costretta ad anni di riposo nel letto di casa, col busto ingessato. Questa situazione la spinse a leggere libri sul movimento comunista e a dipingere. Il suo primo lavoro fu un autoritratto, che donò al ragazzo di cui era innamorata. Da ciò la scelta dei genitori di regalarle un letto a baldacchino con uno specchio sul soffitto, in modo che potesse vedersi, e dei colori. Incominciò così la serie di autoritratti. «Dipingo me stessa perché passo molto tempo da sola e sono il soggetto che conosco meglio» affermò. Dopo che le fu rimosso il gesso riuscì a camminare, con dolori che sopportò per tutta la vita.
Fatta dell’arte la sua ragion d’essere, per contribuire finanziariamente alla sua famiglia, un giorno decise di sottoporre i suoi dipinti a Diego Rivera, illustre pittore dell’epoca, per avere una sua critica. Rivera rimase assai colpito dallo stile moderno di Frida, tanto che la prese sotto la propria ala e la inserì nella scena politica e culturale messicana. Divenne, così, un’attivista del Partito Comunista Messicano a cui si iscrisse nel 1928. Partecipò a numerose manifestazioni e nel frattempo si innamorò di Diego Rivera. Nel 1929 lo sposò (lui era al terzo matrimonio), pur sapendo dei continui tradimenti a cui sarebbe andata incontro. La sua appassionata (e all’epoca discussa) storia d’amore con Rivera è raccontata in un suo diario. Ebbe numerosi amanti, di ambo i sessi, con nomi che nemmeno all’epoca potevano passare inosservati. Si pensi in modo particolare al rivoluzionario russo Lev Trockij e al poeta André Breton. Fu personalità di prim’ordine per capire lo scenario cultural-politico del Novecento. Probabilmente fu amante di Tina Modotti, l’italiana militante comunista e fotografa nel Messico degli anni Venti, per poi recarsi in Spagna. Molto probabilmente esercitarono un certo fascino su Frida Kahlo anche la russa Aleksandra Kollontaj (1872-1952), che visse in Messico dal 1925 al 1926 come ambasciatrice di Mosca e la cantante messicana Chavela Vargas (1919-2012).
In Messico, durante il periodo post-rivoluzionario, le donne della generazione di Frida Kahlo arrivavano all’emancipazione principalmente per il tramite della politica; probabilmente anche per la stessa ragione la pittrice si iscrisse al Partito Comunista Messicano. Inoltre, come scrive Sarah M. Lowe, «il partito presentava anche un’altra attrattiva: la presenza e la militanza di numerose donne dinamiche la cui indipendenza e autodeterminazione possono aver incoraggiato la pittrice a unirsi a loro». La visita all’abitazione della Kahlo mi indusse a porre attenzione anche sul marito, il pittore Rivera in quanto celebre muralista per le sue connessioni con Trockij, che fu pure amante della Kahlo su spinta di Stalin.
L’attenzione alla Kahlo mi ha portato in particolare a riflettere sul fenomeno del comunismo internazionale nel Novecento, sui sogni e le tragedie connesse a quella storia. Un primo attentato alla vita di Trockij ebbe luogo una notte di fine maggio del 1940: un gruppo armato, con false divise, coordinato dal pittore messicano David Alfaro Siqueiros, fece irruzione nella dimora di Trockij facendo fuoco ripetutamente: l’attentato tuttavia fallì poiché la vittima designata e sua moglie Natalia riescono a nascondersi.
Intanto, Ramón Mercader, un sicario ingaggiato ed addestrato dall’NKVD, utilizzando il falso nome di Frank Jackson si era infiltrato in casa di Trockij grazie alla sua relazione con Gita Samuels, la segretaria del politico sovietico. Nell’agosto del 1940 Mercader riuscì ad avvicinare Trockij e lo colpì al capo con una piccozza che aveva nascosto. Trockij morì in ospedale il giorno dopo, mentre Mercader venne arrestato e cadde in uno stato di semipazzia, senza rivelare la sua vera identità. L’incontro con la Kahlo dunque per me è stato, tenendo conto anche delle immagini che ancora esistono nella sua casa a Coyoacan, un misurarmi con le grandi passioni del Novecento. Ed anche con aspetti appassionati di una grande ricerca storico-culturale.
Sulla rivoluzione messicana e la guerra”cristera”
Vorrei richiamare l’attenzione, infine, su un altro evento di cui sapevo assai poco: la rivoluzione messicana che ebbe inizio nel 1910 per porre fine alla dittatura del presidente-generale Porfirio Díaz. Termina ufficialmente con la promulgazione di una nuova Costituzione nel 1917, anche se gli scontri armati proseguiranno fino alla fine degli anni venti in una vera e propria guerra civile. Il movimento ebbe un grande impatto sui circoli di operai, agricoltori e anarchici di tutto il mondo. Infatti la Costituzione politica degli Stati Uniti Messicani del 1917 fu la prima Costituzione al mondo a riconoscere le garanzie sociali e i diritti ai lavoratori uniti.
Oggi si stima che durante il periodo della rivoluzione siano morte più di 900 mila persone tra civili e militari. La Rivoluzione viene considerata l’evento politico e sociale più importante del XX secolo avvenuto in Messico. Dimenticata e poco conosciuta, la guerra cristera rappresentò la risposta della popolazione messicana alle terribili politiche anticattoliche e anticlericali del governo presieduto da Plutarco Calles.
In Messico ho avvertito le difficoltà ad affrontare, criticamente, tematiche come queste. Una pagina delle più tragiche e cupe della recente storia del Messico è legata al martirio di José Sanchez del Rio, un adolescente di 14 anni che venne accompagnato al cimitero. Il comandante del plotone gli chiese di fare pubblica abiura, per non essere fucilato; il Del Rio rifiutò, si fece il segno della croce e gridò “¡Viva Cristo Rey!“. Con quella condanna a morte, il presidente Plutarco Calles sperò di porre un freno all’insurrezione in corso nel Paese da due anni, invece consegnò del Rio alla storia, facendolo diventare simbolo di una guerra per la libertà religiosa.
In realtà la morte barbara del giovane del Rio fu solo uno dei tanti eventi sanguinosi di matrice anticattolica che sconvolsero il Messico nel periodo della post-rivoluzione, sino al processo di pacificazione inaugurato da Emilio Portes Gil e concluso da Lazaro Cardenas. Soltanto alcuni anni prima Robert Benson diede alle stampe Il padrone del mondo, un romanzo ambientato in un futuro in cui i cattolici erano diventati un’esigua minoranza perseguitata. Ogni ceto sociale scese in guerra fra il 1910 e il 1917 contro il porfiriato, ma non tutti i membri del fronte rivoluzionario parteciparono alla stesura della Costituzione del 1917, grosso modo redatta dai costituzionalisti, noti per il loro anticlericalismo.
Il Paese delle apparizioni di Guadalupe e di Miguel Hidalgo y Costilla, il prete-guerrigliero che guidò i messicani all’indipendenza, diventò teatro di una feroce ed estesa persecuzione anticristiana che avrebbe mietuto oltre 100 mila vittime e sarebbe stato guidato da un regime monopartitico capeggiato dal Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) in maniera autoritaria fino al 2000. Alvaro Obregon, insediatosi alla presidenza nel 1920, fu colui che iniziò l’implementazione delle varie norme costituzionali anticlericali, tra cui il divieto per i sacerdoti di svolgere servizi religiosi al di fuori dei luoghi consacrati e l’imposizione di restrizioni con cui complicare l’accesso agli incarichi pubblici per i religiosi. Ad un anno dall’insediamento, fu compiuto un atto terroristico da parte di Luciano Perez che, dietro mandato governativo, con un ordigno tentò di far esplodere il mantello di Nostra Signora di Guadalupe, custodito nell’omonima basilica. Si trattò di un gesto dall’elevato significato simbolico, forse assimilabile ad una ufficiale dichiarazione di guerra al mondo cattolico da parte della classe politica plagiata dalla massoneria messicano-statunitense.
Comunque, la vera campagna d’odio iniziò nel 1924, sotto la presidenza di Plutarco Calles, affiliato alla massoneria e veemente anticattolico. I suoi tentativi di costruire una Chiesa nazionale, allo scopo di limitare le interferenze del papato nella politica domestica, si convertirono rapidamente nell’esercizio di sradicare il cattolicesimo dalla società messicana, e la legge Calles ne fu la prova più evidente. In base ad essa, i dipendenti statali furono obbligati a fare dichiarazione di apostasia, i preti costretti a sposarsi e privati del diritto di voto, avendo il divieto d’indossare l’abito talare in luoghi pubblici e di criticare l’operato governativo, pena il carcere. Furono centinaia i sacerdoti esiliati o espulsi con l’accusa d’aver violato la legge Calles.
La comunità cattolica, di concerto con papa Pio XI, reagì inizialmente in modo pacifico, attraverso marce e manifestazioni. Fu promossa una petizione per chiedere l’abolizione della legge Calles, firmata da oltre due milioni di persone, che rimase inascoltata. Papa Pio XI scrisse tre encicliche per denunciare la situazione religiosa messicana e inviò dei diplomatici in missione segreta per spingere il governo ad allentare la morsa persecutoria, ma senza successo. Davanti al dilagare delle violenze delle milizie governative e della chiusura delle chiese per assenza di sacerdoti, perché uccisi od espulsi, e di fedeli, perché intimoriti, le autorità cattoliche messicane decisero di chiudere le chiese a partire dal 1° agosto 1926: era l’inizio della clandestinità.
La comunità cattolica si spaccò in due fronti: i seguaci di Pio XI, convinti che si potesse porre fine alla persecuzione mediante la disobbedienza civile e la non violenza di stampo thoureauniano, e i cristeros, persuasi che la guerra fosse legittima anche da un punto di vista cristiano contro un governo praticante la violenza arbitraria e la tortura nei confronti di persone colpevoli di portare una croce e di predicare il discorso della montagna. Pio XI, ufficialmente, non appoggiò mai la causa cristera, essendo contrario ad una soluzione violenta della questione, ma neanche la scoraggiò, ribadendo, nelle encicliche realizzate sul tema, il diritto degli uomini di vivere in piena libertà la fede, senza subire costrizioni.
Nella stessa massoneria messicana, tanto ostile al cattolicesimo quanto sostenitrice di Calles, si verificò una spaccatura. Enrique Gorostieta Velarde, massone, imprenditore ed ex militare, decise di unirsi ai cristeros nella lotta armata, denunciando la deriva autoritaria del governo. Velarde riorganizzò efficacemente il movimento cristero, trasformandolo da un corpo di rivoltosi impegnati in atti di sabotaggio, imboscate e incursioni improvvisate, ad una vera e propria forza paramilitare capace di condurre una guerra sia asimmetrica che regolare, costellata di notevoli vittorie contro l’esercito messicano, come durante la battaglia di Tepatitlan. Al grido di “¡Viva Cristo Rey!”, l’insurrezione diventò una guerra, ribattezzata la cristiada; il Messico ripiombò nel caos a dieci anni dalla fine della rivoluzione. Particolarmente emblematico è il fatto che la cristiada non fu combattuta da un manipolo esiguo di fanatici. Le donne presero parte pienamente alla guerra, sia fornendo rifugio e vitto ai cristeros, che formando milizie con cui fronteggiare le truppe governative, di cui la più famosa fu la Brigata di Giovanna d’Arco.
Il 1928 fu anno di particolare importanza, perché Obregon, il 17 luglio, a pochi mesi dalla rielezione alla presidenza, fu ucciso da José de Leòn Toral, un militante cristero. Il presidente ad interim, Emilio Portes Gil, accettò di porsi come mediatore tra il governo, il papato e i cristeros, per raggiungere un accordo di cessate il fuoco. Il 1929 furono stipulati i los arreglos, in base ai quali furono abrogate le norme più controverse della legislazione anticlericale. La guerra cristera proseguì, con minore intensità sino al 1934, fino alla conclusione definitiva del processo di pacificazione nazionale da parte del presidente Lazaro Cardenas. Solo nel 1936, Calles e venti politici a lui legati furono condannati all’esilio negli Stati Uniti.
Quasi fino al 2000, anno del crollo del sistema politico incardinato sull’egemonia monopolistica del Partito Rivoluzionario Istituzionale, la cristiada è rimasta un argomento grosso modo sconosciuto all’estero, data la reticenza di politici, storici ed intellettuali a discuterne, ritenendo questo capitolo della storia messicana come un tabù. Anch’io l’ho sperimentato negli ultimi anni del Novecento trovandomi a Città del Messico e ho continuato a rileggere le pagine di Graham Green, Il potere e la gloria. Sono rimasto impressionato in un Messico insanguinato dalla rivoluzione, che perseguita, fucila o costringe al matrimonio i preti: l’ultimo prete è braccato in una spietata caccia all’uomo. Su di lui pende una taglia, un Saint-Just idealista e implacabile segue le sue tracce. La preda non ha nome. La gente lo chiama “il prete dell’acquavite”. È indegno, debole, impuro. Il peso delle sue colpe è l’unico bagaglio che si porta appresso. Vorrebbe mettersi in salvo, allontanarsi per sempre da quell’angolo di mondo che sembra dimenticato da Dio e che vuole dimenticare Dio. Ma una forza più grande della sua debolezza lo costringe a ritornare sulla via del suo calvario. La dolorosa, più che umana parabola del prete peccatore è una delle espressioni più alte del personalissimo cattolicesimo di Graham Greene, illuminata dal suo motivo più autentico e costante: l’interesse «per il bordo vertiginoso delle cose», crinale esiguo tra il bene e il male.
Questo primo viaggio fu dunque, per me, di grande stimolo. Lo capirò ancora meglio con gli anni. Certo non nascondo quanto mi abbia fatto pensare, al di là di tutto, quel mondo descritto da Juan Rulfo in cui, nel labirinto della loro solitudine, i personaggi non si incontrano mai.