Volgere lo sguardo sul “caso Turi Carnevale” – tema di un incontro di studio a più voci promosso dal Dicam dell’Università di Messina a Capo d’Orlando, nel centenario della nascita – in maniera eccentrica, o meglio decentrata, posti su una sottile striscia di confine “antropologico”, oltre le puntuali cronache storiografiche, credo possa risultare utile, aggiungendo al confronto altri spunti di riflessione, su una delle più complesse ed oscure svolte storiche epocali isolane.
Oltre la fitta cronaca del tempo, viziata spesso da modelli e pregiudizi di osservazione e narrazione giornalistica, assunti talvolta in maniera acritica, o peggio strumentale, dettati da interessi e collusioni inconfessabili, la feroce uccisione del giovane ed indomito sindacalista Salvatore Carnevale del 1955, disvela drammaticamente una società, quella siciliana profondamente in crisi d’identità, confusa, controversa, incapace di riconoscersi, avendo smarrito i suoi valori fondativi di riferimento, ma avvertendo nella militanza politico-ideologica una via di fuga.
Il “caso Carnevale” espressione simbolo di una Sicilia “rurale e arcaica” in cerca di riscatto e di dignità, che tenta di liberarsi dal giogo insopportabile dei padroni, ci suggerisce di spingersi oltre le collaudate e rassicuranti chiavi storiografiche interpretative che, quasi sempre, “spiegano il presente con il passato, e il passato con il trapassato”. Su quella striscia di territorio di confine, di cui parlavo prima, si avverte intanto un tremendo sommovimento di faglie culturali che, affine agli eventi tellurici, scuotono nel profondo gli equilibri geografici, fisici, sociali, antropologici del territorio siciliano fino ad intaccare le radici più profonde della convivenza sociale e le ragioni primarie del vivere.
I primi segnali di un malessere collettivo diffuso che attraversa impietosamente tutta la Sicilia, colpendo le ampie fasce di lavoro bracciantile, capitale umano e forza lavoro irrinunciabile per l’economia fondamentalmente agraria dell’Isola, a implodere sono i Fasci Siciliani, sul finire dell’Ottocento, prima vera presa di coscienza di una classe di lavoratori, quella artigianale, operaia urbana, e successivamente contadina, rurale, finalmente assieme, per troppo tempo vessata ed umiliata da un sistema di potere iniquo, presto sedati nel sangue da un intervento governativo punitivo, quello di Crispi.
È questo il vaso di Pandora che si scopre mettendo a nudo la crisi profonda della Sicilia, accelerata dai governi postunitari e disvelando un sistema di gestione delle risorse del territorio in mano a poche famiglie dall’antica nobiltà senza scrupolo, dedite a difendere il proprio censo, con un controllo parassitario del latifondo agrario affidato a gabellotti senza scrupoli o pietà alcuna per gli indifesi jurnatari, forza propulsiva ormai esausta dell’economia isolana, ad eccezione di poche aree imprenditoriali lungimiranti ed innovative, e di una piccola schiera di mercanti intraprendenti.
Minato nelle sue fondamenta plurisecolare il sistema feudale siciliano, polizza assicurativa del latifondo agrario, va dunque a pezzi, mettendo in crisi le comunità rurali che, pur costrette da regole inique, avevano difeso la loro bolla di vita di relazione in forme culturali identitarie materiali e immateriali, innervate da un immaginario che dal mitico e leggendario oscilla al religioso cristiano popolare, consegnandoci, Giuseppe Pitrè docet, un patrimonio demoetnoantropologico prezioso ed unico.
Si assiste dunque tra fine Ottocento e inizio Novecento alla progressiva frantumazione degli assetti di potere speculativo, obiettivi primari da colpire ed abbattere in nome delle ideologie socialiste e comuniste, dell’atteso “Sol dell’avvenire”, ricolme di promesse, di sviluppo e di crescita e parità sociale e benessere, cui fanno da contraltare le ondate migratorie verso le Americhe, che desertificano i territori isolani, mettendo in crisi legami familiari, vincoli comunitari ed identitari basilari per ogni società. E declinando ora la convulsa cronaca storica sociale di quella stagione siciliana, ecco osservare la rottura del tempo come successione continua di passato presente e futuro, ciclica, dunque rassicurante, perché in grado di mantenere le promesse sul piano individuale e collettivo. Questa cadenza temporale, stagione, dopo stagione, che conferma valori e desideri, subisce, come le vicende storiche e la convulsa modernità ci hanno insegnato a nostre spese, uno scarto traumatico improvviso, inaspettato, inquietante, tellurico appunto, che manda in aria la successione regolare dei giorni voluti, cercati, desiderati. E allora quel tempo stra-ordinario assume i caratteri del “tempo escatologico”, in cerca di un altro futuro, più luminoso ed accogliente.
Per quanto possa apparire paradossale non è nella fattispecie, perché di Sicilia antica parliamo, la condizione di vita contadina, da sempre comunque accettata e sublimata in mirabili espressioni culturali, e non è nemmeno la paura dei ricchi latifondisti e della nobiltà di vedere minacciate le loro ricchezze e privilegi, o almeno non c’è solo questo, nell’innesco delle rivoluzioni che stravolgono il regolare tempo ciclico, sempre uguale a se stesso, e negli scontri tettonici di faglie storico-culturali. C’è piuttosto un nuovo radioso orizzonte, un altro tempo di rinascita. Meglio, un tutt’altro tempo, ovvero quei nuovi cieli e terre, di cui per primi parlarono i profeti cristiani. E questo tempo, esemplarmente incarnato dalla parabola esistenziale di Salvatore Carnevale, sappiamo essere il tempo dell’utopia e della rivoluzione, di un desiderio profondo e collettivo di vita nuova e migliore.
Le due categorie di rivoluzione, storicamente accertate, quella cristiana e laica, spesso intrecciate fra loro, se pensiamo ai fondamentalismi dei nostri giorni, sono tuttavia animate da sentimenti comuni, ovvero che la storia dell’uomo abbia un senso, già scritto all’origine del tempo o da realizzare nel corso del tempo.
Riguadagnando ora il territorio storico entro cui si colloca l’esperienza di nuovo tempo sognato da Salvatore Carnevale, si colgono in pieno i caratteri distintivi di un tempo nuovo, che è, come si coglie dalla coinvolgente cronaca di vita attraverso gli occhi della madre di Salvatore, scritta da Francesco Blandi, un tempo di rottura, di morte e di rinascita. In quegli anni quaranta, cinquanta del secolo scorso, in cui il paesaggio agrario della Sicilia era ancora dominato dalle grandi proprietà terriere, riemerge prorompente come un fiume carsico il movimento contadino, che, sbandierando il decreto Gullo del 19 ottobre 1944, emesso per assegnare i terreni incolti o mal coltivati a cooperative di contadini, occupa con manifestazioni e cortei eclatanti, coinvolgendo perfino le loro famiglie, i latifondi abbandonati.
Minacciati da questa marea montante di contadini, finalmente pienamente consapevoli dei propri diritti sulla terra, fonte di vita, i proprietari terrieri siglano uno scellerato patto con la mafia per difendere i loro privilegi secolari, esito del lavoro dei contadini, potendo anche contare sulla complicità della repressione poliziesca e giudiziaria. Si assiste ad uno scontro in campo aperto, una guerra civile non dichiarata, tra – da un lato – le forze del cambiamento capitanati fra gli altri da Giuseppe Maniaci e Placido Rizzotto, agnelli sacrificali dell’impari battaglia, fino ad arrivare all’eccidio di Portella della Ginestra, e il blocco agrario-mafioso – dall’altro – feroce ed irriducibile, tra processi pilotati e depistaggi. Un periodo oscuro per la nuova giovane Repubblica, che segnerà con altrettante collusioni mafia-politica, strategia della tensione e servizi segreti deviati, massoneria e lobby di potere, le sorti dell’Italia fino al martirio di Falcone e Borsellino, ed oltre.
Salvatore Carnevale, lasciata Galati Mamertino, dove nasce nel 1923, assieme con la sua adorata e presto addolorata madre, in cerca di migliore vita, si trasferisce a Sciara nel Palermitano, alimentando la sua vita con il sogno del cambiamento per i contadini diseredati e sfruttati, legandosi alla rete sindacale di sinistra in difesa dei sacrosanti diritti di riscatto e di emancipazione di braccianti ed operai. E lo farà fino ad immolare la sua vita per il suo insopprimibile e irresistibile desiderio di giustizia e libertà.
Alle prime luci dell’alba, mentre raggiunge la cava per guadagnarsi da vivere, verrà ucciso senza pietà dai sicari della mafia, spegnendo per sempre a soli 32 anni i suoi sogni per una nuova Sicilia, finalmente in grado di riconquistare il perduto ed originario patto sacro con la terra. Un sacrificio, quello di Salvatore Carnevale, che lo eleva a martire, mettendo in luce l’ineluttabilità della morte, come prezzo da pagare per affermare nuovi principi di giustizia, di libertà ed equità sociale. Il motivo del sacrificio che percorre tutta la storia dell’umanità, rappresenta certo una distruzione, una perdita irrimediabile, ma si sublima in un ideale esemplare, preso a modello dalle future generazioni.
La morte violenta di Carnevale ha certamente posto fine alla sua esemplare azione di cambiamento, ma il suo essere diventato vittima sacrificale ha dischiuso un nuovo ordine, innescando più diffuse consapevolezze e inedite battaglie civili e sindacali. Il sacrificio umano estremo e definitivo, altro non è che la messa a morte che espone sull’ara sacrificale tutti i sensi che la vita rimuove per affermare se stessa e i propri valori. E per dare voce alla sua storia di vita, morte e rinascita, ecco i versi dolenti e sanguinanti dell’aedo Ignazio Buttitta, tra i primi ad accorrere a Sciara, assieme a Sandro Pertini, per rendere onore alla morte di un giusto.
E la figura di Carnevale e la sua tragica fine entrerà a pieno titolo nei racconti dei nostri Cantastorie, a cominciare da Ciccio Busacca. D’altra parte, il racconto di fatti memorabili, eroi e martiri, si è affidato, in ogni epoca storica e latitudine culturale e di fede religiosa, alla parola cantata, assieme alle opere d’arte figurative. Un codice comunicativo ed identitario, quello del canto sociale, politico e di protesta, necessario ad ogni rivoluzione e tempi nuovi di cambiamento. Una dimensione altra, di riconoscimento collettivo, in grado di unire i popoli oltre i muri e i confini, si pensi, ad esempio, a Bella Ciao, canto ormai sovranazionale.
Sul tema dei canti di carattere sociale, nelle sue diverse declinazioni, credo sia utile annotare, quanto abbia segnato nel profondo la storia italiana, ma anche quella siciliana, dal Risorgimento in poi, ma anche andando a ritroso nei secoli, affidandosi anche alla produzione poetica di tradizione orale. Tra gli studiosi che prima di altri hanno colto la centralità del canto nei movimenti politici di protesta, non possiamo non ricordare Roberto Leydi, che coglie nei canti di carattere sociale il «momento d’incontro tra la tradizione orale dei contadini e la nuova cultura proletaria formatasi nel vivo delle lotte sociali».
Più in particolare i canti politici e di protesta sono espressione diretta dei contesti socio-culturali portatori di cambiamenti e rivendicazioni che coinvolgono le fasce sociali più deboli, vulnerabili, capitale umano sofferente, a cui dare voce e dignità. È interessante poi osservare come nel lungo periodo storico italiano, favorito da eventi d’incontro fra le diverse tradizioni regionali, quale la Prima guerra mondiale, le migrazioni interne, le lotte politiche condivise, si sia praticato lo scambio reciproco di repertori diversi, con la nascita di nuovi canti, veicolati dai nuovi media, prima radio, dischi, televisione.
Sullo stesso ambito di ricerca, illuminante è anche quanto scrive Diego Carpitella a proposito dei canti partigiani quando afferma che «troviamo diversi livelli musicali: folklore di base, contadino, artigiano, urbano, canzonette popolari». Infine va precisato che, questo repertorio di canti dai forti contenuti politici, è stato al centro di ricerche specifiche, grazie a studiosi di spicco, quali Cesare Bermani, sull’aspetto filologico del canto sociale del movimento operaio, e Gianni Bosio, ideatore e coordinatore di un progetto di rinnovamento della cultura politica del movimento operaio, direttore dell’edizioni “Avanti” e della collana “I dischi del sole” degli anni settanta, siamo in pieno folk revival, quando erano in voga i gruppi Canzoniere Italiano, delle Lame, del Lazio, di chiara matrice di lotta politica, richiamando in fondo certi versi del canto di tradizione di lungo periodo, che non disdegnava, soprattutto nei versi satirici e parodistici del Carnevale, di mettere alla berlina e contestarli per le loro malefatte, i potenti e gli intoccabili di turno.
Un ritorno al passato, dunque, che ci restituisce una stagione storica, segnata da tumultuosi cambiamenti alimentati da tensioni, ideologie ed utopie, che percorrono febbrilmente tutti gli strati sociali, inseguendo “tempi e cieli nuovi”, di cui i canti politici e di protesta, assieme alla popular music, e alle infinite declinazioni di genere di consumo musicale, si fanno temi guida dell’immaginario popolare, tra pubbliche virtù e vizi privati. E Turi Carnevale, resta lì a raccontarci la sua vita spesa per un ideale, che contagerà altri eroi solitari che abbracceranno anche loro una morte violenta ed ingiusta, fra gli altri, ricordiamo Peppino Impastato, e poi “cadaveri eccellenti” dei tanti magistrati e servitori dello stato, fino a Falcone e Borsellino, vittime innocenti del mostro tentacolare mafioso.
Una memoria di libertà e giustizia, si replica oggi, da non smarrire e disperdere, ricolma di segni e simboli, mentre avanza inesorabile l’era digitale dell’intelligenza artificiale, della manipolazione genetica, e delle profonde mutazioni antropologiche, sullo sfondo della barbarie dei conflitti in nome di antichi e sempre attuali fondamentalismi.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
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Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. Il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997); Orizzonti siciliani (2018).
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