Una lettura attenta del Ramo d’Oro di Frazer e di altre opere dell’antropologia del Novecento, solleva alcune questioni centrali circa il ruolo della disciplina a partire dalla sua stessa fondazione fino alla contemporaneità, nell’attuale scenario globalizzato. È possibile infatti e in che misura sostenere la restituzione di una conoscenza oggettiva dell’alterità? E in che modo le grandi generalizzazioni positivistiche basate sull’uso della comparazione possono risultare ancora valide? Esiste uno schema universale della mente umana entro cui collocare credenze e comportamenti rinvenuti dal ricercatore quali tracce residuali di stadi e livelli spazio-temporali di un unico processo evolutivo?
Su tali interrogativi si sviluppa la riflessione di Alessandro Simonicca nel suo recente contributo dal titolo L’antropologo legge. Ricognizione dell’intendere, edito da Cisu nel 2019. Il punto di partenza è dato proprio dal racconto frazeriano, quale prodotto della società coloniale anglosassone tardo-ottocentesca nonché dell’approccio etnocentrico degli antropologi del tempo. Nel suo percorso di viaggio all’interno del mondo primitivo, Frazer individua, com’è noto, un sostrato primordiale caratterizzato dalla magia, la quale, attraverso le categorie associative della metafora e della metonimia, diviene uno strumento di rappresentazione della realtà.
L’antropologo inglese si avvale, nelle sue ricognizioni, delle tracce residuali intese come sopravvivenze del passato che gli consentono di delineare una serie di passaggi da una tappa all’altra, mettendo in moto un cammino inverso, che dall’estrema eterogeneità dei costumi e delle credenze arriva ad uno stadio omogeneo e uniforme. Una sorta di schema logico-universale cui fare riferimento nella costruzione di tassonomie comparative, il cui punto d’arrivo è l’uomo occidentale, ritenuto il massimo modello di progresso a discapito dell’alter ego primitivo.
A monte vanno presupposte tre categorie universali dell’umanità, la nascita, la morte e la riproduzione della vita su cui si fondano i vari miti e le credenze diffuse nell’antichità e nei popoli primitivi. Queste, pur nella loro diversità, rispondono a quell’unica esigenza di sconfiggere la morte, come opposizione primordiale, perpetuando la vita dell’universo in tutte le sue manifestazioni e nell’eternità.
I numerosi rituali osservati da Frazer sul sacrificio di una vittima come capro espiatorio esprimono dunque questo bisogno: i Re dei boschi, sacerdoti e sacerdotesse, animali sacri, divinità del grano e della vegetazione, spiriti-albero, sono pertanto delle figure teomorfe che nella loro ridondanza costituiscono dei doppi, legati dal comune intento di rigenerazione periodica della vita e della vegetazione. Si pensi, solo per fare qualche esempio, agli alberi uniti in matrimonio per celebrare la fertilità della terra, a Demetra e Persefone che esemplificano l’eterna vicenda di un seme che muore sottoterra e poi rinasce, i Misteri eleusini che manifestano l’insorgere incessante della vita e della morte in una continua dicotomia fra cosmos e caos.
Questo procedere per indizi, associazioni e collegamenti, tipico del pensiero positivista ne evidenzia al tempo stesso il suo punto debole proprio nell’uso della comparazione e sulla base di una presunta e oggettiva scala evolutiva. A riprova della natura non meramente residuale dell’osservazione, Simonicca condivide con Wittgenstein l’idea che in tutta l’opera frazeriana ci sia un effetto di omologazione surrettizia, tralasciando del tutto l’aspetto di rappresentazioni perspicue della realtà come dispositivi concettuali.
Una prova evidente è data dal permanere del fenomeno della stregoneria non soltanto nei contesti africani, laboratori antropologici per eccellenza, ma anche nelle società a sviluppo capitalistico avanzato come gli Stati Uniti d’America e la Gran Bretagna dove, negli ultimi decenni del Novecento si sono registrati numerosi casi di abusi rituali sui bambini, attribuiti a stregoneria e satanismo. Di contro anche nei recenti episodi di stregoneria africana, è certo che tale fenomeno non è più spiegabile nei termini funzionalistici di un contesto arretrato, ma appaiono piuttosto, nell’era del post-colonialismo, come il risultato di una conflittualità diffusa per l’effetto di una distribuzione non equa delle risorse del capitalismo (Comaroff, 2000).
Su queste premesse il nostro Autore invita a riflettere allora sul concetto di traccia come indizio di un passato che non esiste più e che sopravvive sotto forma di residuo: una metonimia, una parte attraverso cui risalire al tutto per ricostruire l’identità di un individuo e di un fenomeno in generale. Tuttavia le tracce sono elementi passivi, restano mute senza l’intervento di un interprete che sa già cosa cercare, qualcosa da cui partire nell’indagine secondo un suo preciso punto di vista.
La ricerca della cultura, delle culture nella ricerca antropologica, è sempre in tutta evidenza un fatto di cooperazione, nasce dall’incontro fra Io e gli Altri, fra lo studioso che osserva e l’indigeno che opera. Ogni azione umana diviene segno nel momento in cui la sua messa in forma e in ordine richiede necessariamente la presenza di un soggetto- interprete che possa collegare, riconoscere, ricostruire. Su tale incontro, sullo scambio dialogico fra culture diverse, è l’antropologo che deve mettere in atto processi di traduzione (Geertz, 1988), sforzandosi di interpretare i modi di pensiero dei nativi e di restituirli alla conoscenza attraverso la scrittura. La ricerca antropologica consiste dunque nella costruzione di un testo e diviene racconto, narrazione: da questo punto di vista la distanza fra la scrittura antropologica e quella letteraria è molto più breve di quanto apparentemente si pensi. Se il momento etnografico è quello dell’osservazione e ascolto degli informatori, raccolta di dati, testimonianze e documenti, la successiva elaborazione che ne consegue attraverso la scrittura antropologica ne restituisce il senso ultimo ai lettori.
Ma se così stanno le cose, dove finisce allora la neutralità dell’osservatore, il relativismo culturale dell’osservazione partecipante così fortemente sostenuto dai funzionalisti anglosassoni? È davvero possibile annullare il proprio punto di vista, per assumere progressivamente le sembianze e la mentalità dei popoli primitivi oggetto d’osservazione? Su questo punto in particolare Silvana Miceli (1983), rivendicando una accezione semiotico-strutturale della cultura, esprimeva le sue riserve, dichiarando l’impossibilità per l’osservatore di spogliarsi dei propri condizionamenti per adottare quelli degli indigeni, pena l’incomunicabilità totale fra le culture. Il problema è allora quello di non cadere negli estremi di un concetto differenziale di cultura (Bauman, 1976), ma di considerare la cultura singolarmente intesa come processo cognitivo. Non certo come volevano gli evoluzionisti, uno schema unilaterale che procede dal semplice al complesso, ma un sistema di sintagmi e paradigmi che soggiace non a livello superficiale dei contenuti, propri della manifestazione empirica, ma in una struttura profonda e inconsapevole. Proprio come voleva Lèvi-Strauss.
Lo stesso Malinowski, feroce sostenitore delle differenze culturali e di un pluralismo irriducibile, durante la sua spedizione presso gli Argonauti, manifestava nel suo Diario il disagio dell’uomo occidentale costretto a vivere a contatto con i selvaggi. È ancora Levi-Strauss in Tristi Tropici, tristi perché devastati dall’Occidente, a sottolineare il rimorso dell’etnografo, cosciente delle responsabilità dell’Uomo bianco sul disgregarsi delle società primitive, una tara che di volta in volta riaffiora quale prezzo da pagare per lo sviluppo del capitalismo.
In definitiva, qualsiasi conoscenza dell’altro implica la messa a punto di un Sé soggettivo che si confronta su diverse modalità dell’essere. In questo senso, risultano ancora attuali le considerazioni di Ernesto de Martino a proposito del “paradosso etnografico”: durante il suo fieldwork al ricercatore si impone o di prescindere totalmente della propria storia culturale, rendendosi “nudo come un verme” nei confronti dell’Alterità, in tal modo rinunciando e privandosi anche della propria vocazione specialistica; oppure, al contrario, di ricorrere ad alcune categorie antropologiche, sia pur minime e dettate dal buon senso, sfidando i rischi di cadere in valutazioni etnocentriche. Una terza soluzione di compromesso è quella che nasce proprio dall’incontro etnografico inteso come «duplice tematizzazione, del proprio e dell’alieno […] allo scopo di raggiungere quel fondo universalmente umano in cui il proprio e l’alieno sono sorpresi come due possibili modalità dell’essere» (de Martino 1977: 391-393). Da qui la formula di un etnocentrismo critico in chiave storicista, come comprensione dell’Altro, a partire dai limiti del soggetto giudicante.
Probabilmente – sostiene Simonicca – l’etnologo napoletano aveva già intuito, senza esplicitarlo apertamente, l’importanza del binomio “teste-memoria” nella ricerca antropologica. È l’antropologo a costituirsi, per il suo essere là, come il teste per eccellenza di ciò che ha visto e interpretato. Nell’incontro con l’altro egli prende consapevolezza dei limiti della sua coscienza, ricorrendo alla memoria e attuando un lavoro di scavo in cui riaffiora a poco a poco il suo cattivo passato. Temi di grande attualità che meriterebbero in altra sede di essere approfonditi. Nella grande cassetta degli attrezzi che Simonicca offre al lettore, con ampio ventaglio di riferimenti alla letteratura degli studi non solo antropologici, si troveranno alcune risposte alle questioni poste e, soprattutto, non poche sollecitazioni a ripensare criticamente gli assunti fondamentali della disciplina.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020.
Riferimenti bibliografici
Bauman, Zigmunt
1976 Cultura come prassi, Bologna, il Mulino
Comaroff Jean
2000 Consuming Passions: Child abuse, fetishism and ‘The New Word Order’, in “Culture” 17, 1-2: 7-19
De Martino, Ernesto
1977 La fine del mondo, Torino, Bollati-Boringhieri
Frazer, James G.
1973 Il Ramo d’oro, 2 voll, Torino, Boringhieri
Geertz, Clifford
1988 Interpretazione delle culture, Bologna, il Mulino
Miceli, Silvana
1983 In nome del segno, Palermo, Sellerio
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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).
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