di Riccardo Arena
Nino Giaramidaro era uno che in gabinetto arrivava – diciamolo con un eufemismo – sempre in extremis. Non per incontinenza, perché all’epoca aveva poco meno o attorno ai cinquant’anni, ma perché se la teneva a lungo, troppo a lungo, non avendo il tempo, nella frenesia creativa che ogni giorno avvolge un giornale e i suoi giornalisti, nel sacrificio senza fine che serve per fare bene il proprio lavoro, di alzarsi e andare in bagno. In quella frase, molto più colorita e descrittiva (“Arriva in gabinetto con la … in mano”), c’era tutto lui, c’era Nino. C’era un uomo, un giornalista, un capo, un leader – non carismatico ma leader – un padre di famiglia, una guida preziosa, un esempio.
Nino era un culo di pietra, lo vedevi arrivare in redazione alle 10 del mattino e ripartire alle 13 verso casa. Non aveva una fuoriserie, bensì un’utilitaria. Non rinunciava mai a quegli scampoli di quotidianità che la vita concedeva a lui, alla moglie, a quella figlia dal nome strano ma meraviglioso come il fiore che rappresenta, Myosotis. Sempre trafelato, tornava in redazione – ancora una volta in extremis – nel primo pomeriggio, a ridosso della riunione dei capiservizio, aveva appena il tempo di chiederti cosa avessi trovato, curvo sul tavolo, stando in piedi col sigaro in bocca prendeva appunti con la sua inseparabile stilografica su un foglietto e correva nella sala in cui spesso veniva processato per colpa di noi cronisti, che poi alla fine povero era sempre il capocronista, ritenuto responsabile di tutto proprio tutto, soprattutto di quello che andava male.
Non c’era sera che non lo vedessi andare via prima delle dieci: niente aperitivi con gli amici, a stento un caffè al Rosanero. Rarissimo che uscisse da via Lincoln 21 prima di me: e non era il solo. Quando aveva finalmente chiuso l’ultima pagina, dopo avere letto, corretto, cazziato, strappato, rifatto, “vuciatu” contro questo e contro quello, al culmine della disperazione o della rassegnazione se ne usciva con la sua frase-cult: “Buttana ri la miseria cane, disgraziatu iu chi campu”. Infine, il saluto serale e seriale: “Mi va ghieccu nto primu cassunettu ca trovu” ma l’indomani ricominciava. Per chi, ragazzino come me, l’aveva conosciuto già in età matura, era difficile immaginarlo giornalista e non sucanchiostru, come volgarmente si indicavano i deskisti, eppure, quelle poche volte che scriveva, i suoi pezzi erano esempi di maestria, una lingua di un livello inarrivabile, un periodare agile e forbito, chiaro ed evocativo.
Per non parlare delle sue foto e della sua passione per la macchina fotografica, la conoscenza e la stima dei Leone, degli Scianna, degli Scafidi, dei Labruzzo. Ancora, una cultura pazzesca. Una conoscenza illimitata di Palermo, che pure non era la sua città. E quella foto sulla patente e sulla tessera di giornalista, baffone e capellone, irriconoscibile. Comunista. Anche quello era Nino.
Di lui e di Armando Vaccarella un collega un giorno mi disse: “Cia’ taliari i mani”, devi imparare guardando, spiando, imitando, rubando il movimento delle mani, come si faceva nelle antiche putie artigiane di una volta. In parte l’ho fatto, senza mai riuscire a eguagliarli, se non per la costanza, la cura dei dettagli e per l’attenzione anche alle cose apparentemente minuscole, ma che poi si rivelano enormi. Un altro, quasi maniacale, insegnamento che mi ha lasciato – e che ho sfruttato solo molti anni dopo, quando mi è toccata la ventura di sedermi sulla poltrona che un tempo fu sua – è la “persecuzione” dei cronisti, la funzione di pungolo, sollecitazione, stimolo a scavare, scavare, scavare per trovare sempre qualcosa di veramente nuovo, originale, interessante, esclusivo, in altre parole una notizia. Per qualcuno era solo un rompipalle, quando faceva così: io invece – pur tra comprensibili ritrosie – capivo che lo faceva per il mio bene, più che per il suo.
Oggi che tutto è cambiato è difficile far capire a un cronista, più o meno giovane, che la frase che mi insegnò Nino, per avermela detta migliaia di volte (“Come stai perdendo il tuo tempo?”) è segno di attenzione e non di persecuzione, di interesse e non di disinteresse, di amore del prossimo e non di amor proprio. Ma oggi che tutto è diventato più difficile, se non impossibile, persino un Nino Giaramidaro avrebbe avuto difficoltà a reggere il ritmo, la tensione, la pressione. Difficoltà, non impossibilità: uno come lui sarebbe rimasto incollato alla sedia per molto più tempo ancora. E per non correre il rischio di non arrivare in tempo in bagno, si sarebbe fatto mettere il catetere.
Dialoghi Mediterranei, n.68, luglio 2024
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Riccardo Arena, per una vita cronista giudiziario al Giornale di Sicilia, prima di diventare capocronista, incarico che ricopre attualmente, collabora con La Stampa e con l’Agenzia Italia, dopo avere lavorato anche con il Foglio, il Giornale, Panorama e con l’emittente Tgs, soprattutto negli anni dei “grandi processi” di Palermo, che ha seguito tutti, fino alla Trattativa Stato-mafia. Ha anche scritto il saggio Sanità alla sbarra (Arbor, Palermo 1994) e i romanzi Quello che veramente ami (Dario Flaccovio, Palermo 2008) e Anche oggi non mi ha sparato nessuno (Leima, Palermo 2015). In via Lincoln iniziò come vignettista, poi passò alla scrittura: Nino Giaramidaro è stato uno dei suoi primi capicronisti.
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