Gesualdo Bufalino osservava, riferendosi al pluralismo della nostra Isola, che bisognerebbe parlare non di una ma di cento Sicilie. E in effetti le Sicilie sono tante: quella verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava. Ma vi è anche – continua lo scrittore – una Sicilia “babba”, mite fino alla stupidità, e una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alla violenza e alla frode, una Sicilia pigra e un’altra frenetica… (2017:5).
Un eccesso di identità dunque che sembrerebbe tuttavia immediatamente smentita dall’ostinata ricerca, da parte di intellettuali e scrittori, di quei tratti unitari e specifici che caratterizzerebbero l’animo dei siciliani. Un paradosso.
Nella letteratura e pubblicistica non soltanto siciliana, si è stati concordi nell’attribuire all’Isola un’identità culturale così marcata da averla resa impermeabile a tutte le dominazioni straniere che l’hanno attraversata. Come se la condizione stessa dell’insularità bastasse a giustificarne l’idea di separatezza e segregazione dal resto della penisola: motivo di orgoglio e autonomia da un lato e di inferiorità e debolezza dall’altro.
Eppure da Pirandello a Sciascia, da Giovanni Gentile a Gramsci si è insistito nel riconoscere quali elementi peculiari della personalità dei siciliani la diffidenza, la paura, l’immobilismo e il fatalismo. Contrapposti a un’eccessiva vanità e presunzione. Tutto quello che Sciascia ha espresso eloquentemente col termine “sicilitudine” e che riscontra, a livello dialettale, nella mancanza di coniugare il verbo al futuro.
Vengono subito in mente a questo proposito le parole di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo: «Siete un gentiluomo Chevalley, e considero un privilegio avervi conosciuto. Voi avete ragione in tutto, tranne quando dite che i siciliani certo vorranno migliorare. Non vorranno mai migliorare perché si considerano perfetti. La vanità in loro è più forte della miseria…». Così si rivolge il principe Fabrizio di Salina a Chevalley per motivare il suo rifiuto ad assumere la carica in Senato. E aggiunge: «Noi fummo i gattopardi, i leoni. Chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene. E tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra».
In realtà – è quello che sostiene Franco Lo Piparo nel suo ultimo saggio edito da Sellerio dal titolo Sicilia isola continentale. Psicanalisi di una identità, la rappresentazione di una Sicilia orgogliosa della sua separatezza, immobile e autosufficiente è stata fondata spesso su un mito e, come spesso accade, finisce per cadere nei luoghi comuni. Il rischio è quello di credere a una finzione, proprio come accade a Giufà, lo stolto furbo che vede il riflesso della luna sull’acqua e si lancia in mare per recuperarla. Ma è il salvataggio di un’allucinazione, di “un niente che pretende di essere qualcosa” secondo Goethe.
Così si apre l’analisi di Franco Lo Piparo, filosofo del linguaggio e linguista, studioso di Wittgenstein, che con spirito lucido e talvolta provocatorio ricorre alla psicanalisi – come lo stesso sottotitolo avverte – per compiere la sua opera di decostruzione. E lo fa partendo dalla questione linguistica su cui, inspiegabilmente, proprio coloro che hanno rivendicato l’autonomia della Sicilia, non si sono mai interrogati. Come si spiega infatti – si chiede in primo luogo l’autore – che a partire dal separatismo siciliano e dal suo principale esponente, Andrea Finocchiaro Aprile, tutti i documenti prodotti in sua difesa sono stati scritti in lingua italiana? E che nessun cenno alla questione linguistica si trovi nella Costituzione del 1812, il primo documento politico con cui si afferma l’indipendenza della Regione? Dove non solo si tace su un elemento fondativo dell’identità ma, al contrario, viene ribadito l’uso dell’italiano come requisito necessario. Una stranezza: da un lato si sottolinea una presunta identità sicula, dall’altro si ritiene, a torto, che l’idioma non sia necessario o non concorra alla formazione di una specificità etnica.
Per dimostrare l’infondatezza di questi fantasmi che per secoli hanno alimentato l’idea di una Sicilia autonoma e autosufficiente, il nostro autore si sofferma sul testo di Aglianò Che cosa è questa Sicilia? mettendone in luce una sfilza di luoghi comuni sui siciliani che siciliani non sono e sembrerebbero al contrario tratti comuni e universali della natura umana: l’amore per una donna, l’attaccamento ai beni economici e alle cose materiali, la fede religiosa e il culto del santi. Perché tutto questo dovrebbe essere una prerogativa dei siciliani o non si tratta di valori che accomunano l’intera umanità? La Sicilia è di certo una metafora – afferma Lo Piparo ricordando Sciascia, ma così come qualsiasi altra parte del mondo.
Ma c’è di più: ed è che questa idea della Sicilia ha nascosto e nasconde un vizio ideologico: quella di una terra che, a causa della cattiva sorte, è rimasta vittima di un piagnisteo senza soluzioni se non quella di una continua richiesta di assistenza allo Stato. È ciò che viene espresso a chiare lettere nello Statuto siciliano: maggiori contributi a chi, come i siciliani, versano in peggiori condizioni economiche rispetto al Norditalia. Un reddito di cittadinanza ante litteram.
Ne viene fuori un’immagine della Sicilia improduttiva e parassitaria, che consuma senza produrre quasi per destino o vocazione naturale. Le figure del giovane ‘Ntoni dei Malavoglia, nipote del capostipite della famiglia e di Mastro Don Gesualdo sintetizzano il contrasto fra una Sicilia dell’ozio, qual’è quella rappresentata dal nipote di padron Ntoni nella sua aspirazione a vivere in città senza far niente, e Mastro Don Gesualdo che invece ha speso tutta la sua esistenza nella dedizione al lavoro in funzione dell’accumulazione capitalistica.
In verità – e qui si arriva al nocciolo della questione – la Sicilia è stata molto più continentale di quanto si creda e lo rivela proprio la questione linguistica. Bisognerà richiamare la presenza normanna in Sicilia per capire la nascita e la diffusione del volgare siciliano e le ragioni della sua affinità col tosco italiano. Il fenomeno sorprendente sta nel fatto che nei primi documenti ufficiali di quel periodo si nota la totale assenza di termini arabi e la presenza di parole di derivazione gallo romanza.
Con i normanni la Sicilia viene inserita, in modo irreversibile, nel circuito della storia politico – continentale e diventa parte imprescindibile della cultura europea. In questa direzione la Chiesa gioca un ruolo fondamentale di diffusione culturale, soprattutto in funzione antislamica. In tutti gli apparati pubblici e istituzionali si registra inoltre una forte immissione di gente proveniente dal nord. Il volgare siciliano nasce dunque in un contesto non insulare durante la dominazione normanna e all’interno della Scuola poetica di Federico II, costituendo la lingua ufficiale del Regno.
Quando, nel Cinquecento, il toscano diventerà una lingua nazionale, in Sicilia era già in uso un idioma molto simile al tosco italiano. E così, in definitiva, il volgare siciliano si è andato diffondendo anche fuori dai confini regionali, sviluppandosi in modo parallelo e autonomo rispetto al tosco italiano con cui aveva manifestato dalle origini notevoli affinità. Dal Medioevo fino all’età moderna.
Basti pensare al fatto che l’abate Meli, considerato uno dei maggiori poeti dialettali del Settecento, componeva i suoi versi in una lingua più vicina agli italiani che non ai siciliani. Un siciliano immediatamente traducibile rispetto a tanti altri idiomi regionali. Giovanni Meli fu, com’è noto, uno dei principali estensori dello Statuto dell’Accademia Patriotica e nella scelta di adottare un volgare siciliano facilmente comprensibile agli italiani, era consapevole dell’affinità e vicinanza dell’idioma siciliano con l’italiano. Tant’è che gli italiani leggevano i suoi versi senza chiedere aiuto. Così come accadrà a Camilleri due secoli dopo. Il vigatese di Camilleri altro non è che la lingua parlata nella sua famiglia. Si tratta in fondo di una “scrittura parlata”. È la lingua parlata dalle persone colte, che diviene esercizio di scrittura. Una soluzione che per certi versi era già stata adottata da Verga nei Malavoglia.
Grazie all’opera mediatrice della Chiesa e al suo farsi interprete e traduttrice attraverso la predicazione orale, il volgare arriva gradualmente anche alle masse analfabete, senza particolari difficoltà. La stessa opera di diffusione viene compiuta contestualmente dall’Opera dei pupi, teatro amatissimo dal popolo siciliano, che seguiva le vicende dei paladini di Francia comprendendo quell’italiano solenne declamato dai personaggi cristiani.
Il volgare siciliano diviene cosi una lingua parlata, mezzo d’ascolto senza barriere nette, con tale forza espressiva da ritornare scrittura anche nelle autobiografie di due narratori “inafabeti”: Vincenzo Rabito in Terra Matta e Tommaso Bordonaro con La spartenza che hanno dato origine, tramite l’oralità, a due straordinari romanzi diffusi anche in Italia.
In definitiva il libro di Franco Lo Piparo dimostra, con grande ricchezza di documenti d’archivio e componimenti letterari, che l’idea della Sicilia isolata e separata dal resto del mondo è solo il frutto di una visione infondata. «E se l’errore consistesse nella ricerca della sicilianità?» Si chiede in conclusione l’autore. «Ci piace pensare l’italianità e la continentalità come la luna di Giufà, che, incapace di vedere la realtà per quello che è, insegue nel riflesso le proprie allucinazioni. La scomparsa dell’italianità dalla percezione comune è dunque il frutto dei fantasmi ideologici di chi ha subito un trauma».
Ma alla Sicilia immobile del Gattopardo, Lo Piparo oppone quella di Vittorini delle Conversazioni in Sicilia: una terra diversa, basata sul lavoro e sulla tecnica, su una moderna concezione della donna, sul progresso in generale. Come avrebbe potuto essere, avendone tutte le carte in regola. Una Sicilia continentale appunto. Che si è portata sulle spalle il peso di un’eredità di pensiero piuttosto ingombrante. Imbrigliata in un’immagine che ancora una volta ripropone il dilemma di una questione meridionale mai risolta.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Riferimenti bibliografici
Aglianò S., Che cos’è questa Sicilia, Sellerio Palermo 1996.
Bufalino, G. – Vago, N., Cento Sicilie. Testimonianze per un ritratto, Milano Bompiani, 2017
Lo Piparo F., Sicilia isola continentale. Psicanalisi di una identità, Sellerio Palermo 2024
Sciascia, L., La Sicilia come metafora, Milano, Mondadori , 1979
Tomasi di Lampedusa, G., Il Gattopardo, Milano Feltrinelli, 1958.
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Orietta Sorgi, etnoantropologa, ha lavorato presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, quale responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015); Sicilia rurale. Memoria di una terra antica, con Salvatore Silvano Nigro (2017).
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