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Nella parola la speranza di salvezza della Natura

9788864293820_0_0_536_0_75di Costantino Cossu 

La prima traccia è la parola. È da questa porta che bisogna passare per entrare nelle pagine di Annìle. Ovvero la falsa fiaba della montagna di ferro, il romanzo di esordio di Edoardo Mantega appena pubblicato dalla casa editrice Il Maestrale. È per avere parola che la montagna di ferro si fa essere umano. Il racconto assume subito i toni magici della fiaba. Ma fiaba non è, anzi è dramma.

Annìle, il blocco vulcanico che dall’altopiano di Seneghe arriva sino a Cuglieri per guardare il mare di Santa Caterina, prende il corpo di un bambino. Di un bambino caduto per accidente da una rupe. «Il giorno in cui il giovane Pietro Ladu è scivolato giù per la cascata di Massabari, battendo la testa, ho preso il suo corpo. E, anche se il mio nome è Annìle, come mi chiamarono un giorno mio padre e mia madre, o Montiferru, come mi ribattezzò la storia civile, la mia vita di essere umano fu quella di Pietro Ladu, morto ufficialmente il tredici aprile del 1950 all’età di undici anni, ritrovato riverso da un gruppo di cacciatori ai piedi della cascata di Cuglieri e portato in camposanto; nato, per altro verso, il tredici aprile del 1950, nel corpo di un bambino di undici anni, ai piedi della cascata di Massabari, e subito fuggito nel buio del bosco». Ma Annìle resta bambino un giorno soltanto. Nel breve volgere di un ciclo solare il suo corpo diventa quello di un «vecchio decrepito».

La montagna ha voluto farsi umana perché gli umani hanno la parola: «Ho imparato questa cosa da loro, dagli uomini, che credo sia ciò che li rende diversi da qualsiasi altra buffa creazione sulla faccia della terra: il potere di fermare il tempo e rubargli i colori. È la parola». E ci riesce, Annìle, a conquistare la parola. Tanto bene ci riesce che scrive un diario. Le cui pagine, ormai consumate dal tempo, l’io narrante che guida il racconto dice di avere trovato per caso. E nel racconto Annìle si fa casa in una grande sughera, che scava con le mani di ferro: «La mia storia, questa storia, inizia da questa sughera, da quando ho desiderato fortemente di conoscere la vita degli uomini perché mi mancava qualche cosa. Volevo dire, raccontare, cantare oltre la forza delle mie acque e il silenzio delle mie pietre. E un giorno è successo. Non chiedete troppo sul come: rimane il fatto che la morte è l’evento che ci tiene tutti vivi». E ancora: «Comprendevo che oltre la croce in camposanto, che presto sbiadiva come il ricordo e il dolore dei morti, tutto ciò che rimaneva era sempre lei, la parola. La parola che perpetua il ricordo, redivive la storia, rimescola sentimenti e amore e, quando può, gli conferisce un ordine».

È grande lo stupore della montagna, partorita nella notte dei tempi dal ventre di un vulcano e ora diventata un vecchio tenace che insegue un sogno assurdo e pericoloso, di fronte alla possibilità che la parola offre di fermare il tempo: «Il vecchio –  annota il narratore –  si sente all’improvviso immerso in qualche cosa che non capisce fino in fondo. Come possono degli esserini così piccoli e insignificanti, inutili, generare tanto potere? Stanno sulla carta nel loro debole nero, sono stanghe, pance, curve. Eppure, generano la vita. Delle semplici lettere che si fa fatica a seguire, ci vuole concentrazione. Si ritrova più volte a leggere una parola o una frase rimuginando sul senso e sull’accentazione. Risillaba ogni lemma invertendo l’ordine delle lettere e creando nuove parole. Più ne ripete una, più il significato e il significante s’intrecciano, disperdono la neonata intelligenza letteraria e lo lasciano con una sbornia tale da renderlo irriconoscibile».

A insegnare ad Annìle a leggere e a scrivere è una maestra bambina, Maddalena. Curiosa del vecchio che tutti a Cuglieri dicono pazzo, gli insegna l’alfabeto. Scuola improvvisata è la capanna costruita dal padre pastore della bimba accanto all’ovile (s’annìle). E la montagna elabora così una sua personale teoria. Dal diario di Annìle: «La parola penso debba assolvere a un’idea di precaria necessità visceralmente lirica. Non decorazione fine a se stessa ma realtà oltre la realtà: come le pennellate di Van Gogh, singolarmente potenti e necessarie, ognuna bastevole di per sé e al contempo funzionale al tutto». Un sogno per poter perseguire il quale devi essere – ricorda Maddalena ad Annìle –  anche un po’ «cozzone». Senza la giusta stoltezza nessun varco si apre. Tra i due si intreccia un rapporto che passa da un’origine di stupore e di meraviglia per entrambi a fasi più complicate.

Maddalena entra tanto nel gioco con la montagna fattasi uomo che, a poco a poco, il suo corpo si trasforma, si naturalizza. Le crescono rovi sulle braccia e sul  ventre, fiori tra le gambe. Ma quando, ormai più che adolescente, s’innamora del figlio del medico condotto  – un continentale, un piemontese  – il distacco da Annìle diventa ineluttabile. I due ragazzi si sposano, vanno a vivere a Torino e lei, maestra di parola, diventa una scrittrice di successo. Per Annìle comincia un lunghissimo inverno, più lungo di tutti gli inverni. Il diario registra giorni disperati: «La mia storia è una falsa fiaba priva di morale e colore. Tutto è nero e incattivito». Maddalena è lontana, è passato tanto di quel tempo che anche lei sarà vecchia, forse è morta. Annìle vorrebbe rivederla almeno una volta per chiederle se ricorda. «Chiederle se si ricorda: mi ha insegnato l’arte della parola. L’arte dell’amore. Chiederle se ricorda della notte che ci accarezzava e non lasciava entrare nessuno all’infuori di noi. Dirle che tutto morirà, oggi, domani, poi, fuorché la parola. Morirò io e morirà lei, diverremo cenere in camposanto. Cadranno gli alberi come cadono i giorni e così le bestie con le loro paure. Ma non la parola, quella non morirà. Chiederle se si ricorda: un giorno di tanti anni fa mi chiedeva, appena sveglia dopo un brutto sogno, se facevo mai gli incubi».

cossuL’incubo ricorrente della montagna, quello del fuoco, diventa realtà il 24 luglio 2021. «Una macchina – annota Annìle nel suo diario –  s’incendia in un terreno di campagna. La benzina cede copiosa alle fiamme, il boato arriva da lì. E il vento, il vento fa il resto: inorgoglisce le lingue ingiuriose del fuoco e le porta a spasso. Le incattivisce e le sprona alla distruzione. I piedi iniziano a bruciarmi. Gli animali si riparano dove riescono, cercano posti che non si possono trovare: presto non ci sarò più. Non ci saranno i miei boschi, le mie pietre cadranno come pedine spezzate, il campo da gioco verrà inghiottito dal fumo della fine. Lo so perché lo vedo. Lo so perché l’ho già visto». E ancora: «Fuori è un inferno di fuoco, le mie sembianze, quelle vere, mi richiamano a ciò che non può evitarsi: la fine è l’unica certezza che abbiamo, l’unica che ci tiene in vita. Il fuoco mi raggiunge oramai il collo, il dolore è insopportabile. Lascio queste parole alla cura della pietra». È il grande rogo del Montiferru, quello vero, storico, dell’estate 2021. Ma le fiamme non cancelleranno tutto. Alla fine per Maddalena e per Annìle una possibilità resterà aperta. Ma sarà lontano dalla montagna di ferro, oltre il mare, in un luogo e in un tempo che si possono solo immaginare, «realtà oltre la realtà». «La parola non deve morire», il patto siglato tra Maddalena bambina e il vecchio Annìle è la sola speranza.

C’è una fiducia disperata nella potenza del racconto nelle pagine che Federico Mantega ci consegna. Il racconto che affronta e sfida la morte biologica e insieme l’orrore di cui è intessuta la storia degli uomini. E c’è la coscienza che tra umano e naturale la frattura è soltanto storica, il portato di un’evoluzione delle società umane che ha fatto della natura un oggetto da possedere e da sfruttare senza limiti. E se una speranza c’è per il futuro è che questa frattura e questo dislivello di potere che alla fine, con la sottomissione della natura porta alla mortificazione e all’annientamento dell’umano, vengano cancellati e ricomposti in un ordine senza più confini tra i due universi. Perché l’universo è uno. Lo hanno compreso i movimenti green più consapevoli e linee di pensiero come l’ecologia politica e l’ecologismo femminista e queer.

Montiferru, località Arghentes

Montiferru, località Arghentes

Su questo piano, lo scrittore sardo più vicino a Mantega è Alberto Capitta, che non a caso l’autore di “Annìle” cita esplicitamente nel libro. Ma nel racconto di Mantega si registra anche un’altra linea di continuità. «La montagna – leggiamo nella Nota finale al testo –  forse è sempre stata questo per me: una piccola enorme quota di bellezza minacciata. Perfezione già sfiorita. Ecco, un’ossessione: rintracciare la vita e la storia di questi luoghi. Rubarne i segreti profondi, le  voglie inconfessabili. Le inevitabili mancanze. Ricostruire un’immagine funzionale di questa montagna: atta alla piccola transumanza, non alta, ben lontana dall’idea turistica dei rilievi continentali, scarsa di nevi se non nel periodo freddo, micro-ecosistema a sé stante che tende a viversi solo negli occhi di chi la pratica abitualmente o la erotizza, in una misura che ancora mi sfugge». E in maniera più aperta: «Questa dannata e miserabile ossessione per questo luogo, o per i luoghi più generalmente: cosa è l’uomo senza le istantanee dei luoghi che ha vissuto? Le abbiamo, ci sono, dentro gli occhi, giù nella pancia, ci sono. Io non credo la vita una possibilità sradicata. Sarò medio, provinciale, mediamente cieco e ottuso: leggo ciò che cammino e cammino ciò che scrivo. Così sia. La mia istantanea più forte, ecco, sono io con questo diario. Io con la sua storia, con le sue parole. Questa scarpata fradicia, questa pioggia che scende e non dà tregua. La perifericità della sua condizione esistenziale e narrativa».

Una perifericità che volge l’isolamento, apparente debolezza, in forza. La possibilità di raccontare il mondo da un margine apre spazi di libertà e offre soglie di comprensione negati a chi resta in un centro dal quale lo sguardo non riesce a posarsi più su niente. Quanto di scrittori come Alberto Capitta, Sergio Atzeni, Giorgio Todde, Giulio Angioni, Maria Giacobbe ma persino Salvatore Satta e Salvatore Mannuzzu sarebbero incomprensibili senza questo ostinato tenersi alla perifericità di un luogo e di una storia? «La Sardegna – ricordava Mannuzzu – è un’isola vera». È cioè, oltreché un’entità geografica, anche una categoria ermeneutica. Senza alcuna mitizzazione. Anzi, il contrario: “Perfezione già sfiorita”, come scrive Mantega. La bellezza ha sempre come orizzonte la fine, «la morte è l’evento che ci tiene tutti vivi». «Perfezione già sfiorita» di fronte alla quale, in estremo, resta solo il battere lento sul mare di un paio di remi che portano al largo su una fragile barca due vecchi. Lontano dall’isola, lontano dalla montagna di ferro. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025

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Costantino Cossu, giornalista, ha studiato a Sassari al Liceo Azuni e a Urbino alla Scuola di giornalismo e alla facoltà di Sociologia dell’Università “Carlo Bo”. Dal 1993 al marzo del 2022 ha curato le pagine di Cultura del quotidiano La Nuova Sardegna. Dal 2004 collabora con il quotidiano Il Manifesto. Ha collaborato con il settimanale Diario diretto da Enrico Deaglio e con la rivista Lo Straniero diretta da Goffredo Fofi e collabora con le riviste Gli Asini e Doppiozero. È stato docente a contratto nel corso di laurea in Scienze della comunicazione dell’Università di Sassari. Per la casa editrice Cuec ha curato il libro Sardegna, la fine dell’innocenza; e per le Edizioni degli Asini il libro Gramsci serve ancora?

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