Il problema dell’identità è al cuore del discorso sull’uomo, non tanto o non soltanto con riferimento alle scienze antropologiche che lo definiscono come uno dei suoi oggetti costitutivi, ma anche e innanzitutto con riferimento all’appellativo di uomini che le comunità etniche riservano a se stesse. Il concetto di identità evoca quindi immediatamente quello di alterità, in un’opposizione complementare che lascia intravedere, già nell’uso linguistico, le contaminazioni tra i due termini. Due esempi di area romanza e altri due dal mondo amerindiano saranno sufficienti a esplicitare quest’ipotesi.
Il primo esempio emblematico del rapporto ineludibile tra noi e gli altri ci è fornito dal termine con cui, in alcune lingue e dialetti romanzi, si esprime il concetto di persona, e cioè cristiano. Si dirà per esempio: chiama, rivolgiti a quel cristiano. In Sicilia, certamente in ragione della sua storia, questa particolare valenza del termine cristiano si definisce in opposizione al termine turcu, che non è riferito tuttavia a un individuo proveniente dalla Turchia ma, genericamente, a un individuo di pelle bruna che professa una fede diversa da quella cristiana, in particolare musulmana. Le espressioni proverbiali testimoniano in modo eloquente queste concezioni. Di un neonato che è stato appena battezzato si usa dire per esempio: di turcu lu ficimu cristianu, “di turco lo abbiam fatto cristiano”. La caratterizzazione siciliana di quest’espressione è ancora più pregnante, perché implicitamente, senza averne cioè consapevolezza, si ammette che alla nascita, e prima del battesimo, i siciliani siano tutti musulmani, esattamente la stessa concezione dell’Islam per parte di padre. La conferma di quest’appartenenza per nascita avverrà, per i musulmani, attraverso il rito religioso, così come per i cristiani soltanto attraverso il battesimo si entrerà a far parte della comunità dei credenti.
Un altro esempio di “contaminazione identitaria” è dato nelle lingue romanze dalla prima persona plurale – noi – che può essere coniugata con il termine usato per gli altri, senza particolari sfumature di significato. In italiano si dirà noi-altri, in francese nous-autres, in spagnolo nos-otros. Una sorta di compensazione semantica avviene con la seconda persona plurale – voi – che nelle stesse lingue prima evocate può diventare voi-altri, vos-otros, vous-autres.
Spostiamoci nelle Americhe. Qui, registriamo un caso particolare di contaminazione identitaria tra gli Ayoreo del Chaco boreale paraguaiano. Per questi amerindiani, da noi studiati una ventina di anni fa, il mondo delle origini non risulta da un atto di creazione. Agli inizi tutto era Ayoreo, etnonimo che designa l’essere umano. Tutte le cose conosciute, anche quelle introdotte dai bianchi e persino concetti astratti come il coraggio, sono diventate tali a seguito di una metamorfosi raccontata dai miti. Soltanto gli Ayoreo sono rimasti uomini, proprio per il fatto di non avere subìto nessuna trasformazione. Il che non impedisce loro di dividersi su basi territoriali in sottogruppi le cui relazioni, in ragione delle contingenze, possono essere bellicose o, al contrario, improntate alla reciprocità e allo scambio matrimoniale. Quest’esempio mostra come l’identità, lungi dall’essere immutabile, possa risultare da processi di decostruzione e ricostruzione, come possa essere diversamente modulata in funzione dei rapporti che un gruppo etnico intrattiene al suo interno. Per esempio, nel caso in cui tra due sottogruppi prevalgano relazioni bellicose piuttosto che pacifiche, viene ritualmente dismessa l’appartenenza clanica su cui si fondano tra gli Ayoreo le scelte matrimoniali.
Ancorché posto al limite estremo dell’umano, il caso del cannibalismo tupinamba appare anch’esso proverbiale, in ordine alla possibilità di esplorare gli apparati simbolici connessi alla “contaminazione identitaria”. Secondo le descrizioni dei cronisti del XVI e del XVII secolo, tra i quali Jean de Lery, Hans Staden e il cosmografo del re André Thevet, i diversi gruppi Tupinamba della costa occidentale brasiliana si facevano la guerra non per uccidere ma per catturare prigionieri. A questi ultimi veniva data una moglie con cui fare figli ai quali sarebbe stata riservata dopo qualche anno la stessa sorte del padre: essere cucinati e mangiati dopo che a quest’ultimo era stato imposto di simulare un conflitto con il suo carnefice. L’obiettivo era duplice. Da un lato, si volevano recuperare i “brandelli di identità” incorporati da chi in precedenza aveva mangiato qualcuno del tuo gruppo: una sorta di “alterità costituente”, come è stata denominata dagli antropologi amazzonisti; dall’altro, si voleva rifondare la società attraverso il comportamento del carnefice. Quest’ultimo era infatti l’unico a non partecipare al festino antropofagico, ma prendeva il nome della vittima oltre che imitare la segregazione alla quale tra i Tupinamba veniva esposta la donna mestruata. Attraverso la rinuncia al consumo antropofagico, attraverso il transfert delle qualità associate al nome e alla femminilizzazione fecondante del carnefice era dunque possibile, periodicamente, ridefinire l’identità dell’intero gruppo.
Ritorniamo nel Vecchio Mondo. “La contaminazione identitaria” si realizza in rapporto a ciò che potremmo definire, utilizzando un concetto di Roland Barthes, il “grado zero” dell’alterità, e cioè la condizione di selvaggio (primitivo o barbaro) di cui si nutre l’identità dell’essere civile o civilizzatore delle società del Mediterraneo e fino all’antica Mesopotamia. Ripartiamo dal rapporto identità-alterità riprendendo la tesi sostenuta nel nostro volume Le sauvage et son double (2011). La tesi sottoposta a verifica era la seguente: l’eroe è accompagnato spesso da un doppio, caratterizzato come un selvaggio che deve morire o subìre una mutilazione permanente perché l’altro possa assolvere al suo ruolo di fondatore o rifondatore della civiltà.
La messa in scena del doppio ha consentito di cogliere una complessità di rapporti e delle varianti singolari della “contaminazione identitaria”. Più precisamente, il selvaggio e l’uomo civile ritengono ciascuno qualche tratto dell’altro, ed è questa la condizione preliminare perché la dimensione complementare dell’opposizione tra noi e gli altri possa diventare operativa. Come affermava Lévi-Strauss nella famosa intervista con Didier Eribon: «Il selvaggio persiste in noi tutti. E poiché egli è sempre presente in noi, faremmo male a disprezzarlo quando si trova fuori di noi» (1988).
L’analisi comparata di qualche testo di letteratura mitica (D’Onofrio, 2011) ha consentito di cogliere, con le differenze, alcune delle invarianti che strutturano l’identità. Cominciamo dal poema di Gilgamesh, il più antico tra quelli conosciuti fino a questo momento. Esso presenta una serie di “riconfigurazioni identitarie” volte a modulare, sullo sfondo dell’opposizione vita-morte, il rapporto tra il selvaggio e il civilizzato. Gilgamesh, il re di Uruk (dalle grandi mura), è non soltanto celebrato per le sue imprese, ma anche stigmatizzato dal suo popolo per la hybris sessuale che lo spingeva a imporre il suo desiderio a tutti i giovani (comprese le spose promesse) rischiando così di far naufragare la civiltà da lui stesso fondata. Gli Dèi creano quindi Enkidu, un doppio selvaggio di Gilgamesh che subìsce anche lui una metamorfosi.
Affinché possa battersi contro il re di Uruk, purificandolo in qualche modo dagli aspetti di sauvagerie, Enkidu viene “civilizzato” da una ierodula che non soltanto gli insegna le arti dell’amore, ma lo introduce all’uso di vesti, di unguenti e al consumo di prodotti della civiltà quali il pane (prodotto lievitato) e la birra (bevanda fermentata). Enkidu e Gilgamesh finiscono per compiere insieme grandi imprese (contro il guardiano della foresta di cedri come contro il toro celeste), ma mentre Enkidu muore, Gilgamesh, pur non riuscendo a conseguire l’immortalità, svolgerà un ruolo di mediatore tra gli Déi e il regno dei morti.
Analoga “contaminazione identitaria” tra il selvaggio e il civilizzato la ritroviamo nei poemi omerici, e segnatamente nell’incontro assiale tra Ulisse e Polifemo di cui si racconta nel IX libro dell’Odissea. La caratterizzazione antropofagica di Polifemo sembra volere accecare l’ascoltatore o il lettore per impedirgli di vedere quanto siano intrecciate le sorti dei due contendenti. Il primo banco di prova del corpo a corpo tra identità e alterità che Ulisse e Polifemo mettono in scena è, non a caso, uno degli aspetti di maggior rilievo della civiltà greca: la xenìa.
Sebbene i compagni gli avessero consigliato di rubare agnelli e capretti e di prendere il largo, Ulisse rimane perché vuole vedere se Polifemo ha rispetto per gli ospiti. Il figlio di Laerte infrange tuttavia per primo il codice dell’ospitalità consumando e sacrificando in assenza del pastore e aspettandolo all’interno dell’antro. Ciò non sfugge a Polifemo, come testimoniano le prime parole che indirizza a Ulisse:
Stranieri, chi siete? E di dove navigate i sentieri dell’acqua?
Forse per qualche commercio, o andate errando così,
senza meta sul mare, come i predoni,
che errano giocando la vita, danno agli altri portando?
Né sfugge a Polifemo – figlio del dio del mare – la menzogna di Ulisse a proposito delle navi nascoste dietro l’isola delle capre.
Nell’Odissea, Polifemo è l’“uomo selvatico” per eccellenza (l’anér agrios). Pur svolgendo l’attività umana di pastore, egli non è un mangiatore di pane, né conosce la bevanda fermentata: Zeus lo rifornisce soltanto di biade e grappoli d’uva. Accompagnando i suoi primi due pasti cannibalici con il latte (prodotto naturale), Polifemo dormirà saporitamente; vomiterà invece i pezzi di carne umana inghiottiti durante il terzo pasto accompagnato con il vino datogli da Ulisse. L’ebbrezza è all’origine della sua cecità, ma segnala anche una sorta di disgiunzione dalla sua vocazione cannibalica: a partire da quel momento Polifemo non mangerà più altri compagni di Ulisse.
Polifemo non è da meno relativamente al destino del suo doppio. Figlio di un dio e parlante greco, è lui che stabilisce i termini del ritorno di Ulisse a Itaca, attraverso la supplica al padre perché punisca il figlio di Laërte che lo aveva accecato:
Ascolta Poseidone se è vero che io sono tuo figlio e tu sei mio padre
concedimi che Ulisse figlio di Laerte, distruttore di città, non torni mai in patria;
ma se è destino per lui tornare a casa e rivedere i suoi cari,
che arrivi tardi e malamente, dopo aver perso tutti i suoi compagni
e trovi nella sua casa sciagure.
In effetti, la hybris guerriera conduce quest’eroe civilizzatore, Ulisse, a fragilizzare il suo regno uccidendo, dopo venti anni di assenza, i pretendenti di Penelope. Ma c’è di più. Riformulata nell’Ade dal divino Tiresia, la profezia di Polifemo non soltanto stabilisce le condizioni per la scomparsa dei compagni di Ulisse (perché essi mangiano le mucche del sole mentre l’eroe si addormenta), ma costringe quest’ultimo a ripartire: è il suo ultimo viaggio, questa seconda Odissea su cui la letteratura occidentale (da Joyce a Graf, da Kanakis a Borges) non ha mai smesso di interrogarsi. Va anche osservato che troviamo, nelle parole con cui Giovanni Battista (nel Vangelo secondo Matteo) annuncia la venuta del Messia, lo strumento della civiltà contadina evocato nell’Odissea per rappresentare la fine del vagabondare di Ulisse: “Tiene in mano la pala per ventilare e pulirà la sua aia”. Attraverso questo strumento (la pala per ventilare il grano), si afferma la funzione di rifondatori cosmici dei nostri eroi.
In altre parole, non soltanto l’identità dell’eroe risulta dalla condivisione con il suo doppio selvaggio di alcuni dei valori che rispettivamente li caratterizzano, ma si incontra in società lontane tra di loro nel tempo come nello spazio. In questo senso, l’identità, oltre che suscettibile di contaminazione, sembra risultare da invarianti presenti in culture assai diverse.
Lo testimoniano nell’Antico Testamento Caino e Abele. “La contaminazione identitaria” tra il selvaggio e il suo doppio si manifesta tra i figli della coppia primordiale Adamo ed Eva in forma di conflitto, strutturale nelle società mediterranee, tra allevamento e agricoltura: Caino, il più anziano, coltiva la terra; suo fratello Abele è pastore. È proprio in relazione a queste attività che si innesca il dramma, non senza la responsabilità di Jaweh che, non soltanto approva Abele e la sua offerta animale ma, dimenticando lo status di primogenito di Caino ne rifiuta l’offerta vegetale. È la gelosia che spinge Caino a uccidere suo fratello.
Come nel poema di Gilgamesh, ma questa volta per mezzo di un fratricidio, è ancora il piano divino che si realizza trasformando il pastore di bestiame Abele in vittima sacrificale affinché suo fratello Caino possa essere all’origine di alcuni benefici per gli esseri umani. Jaweh impone tuttavia a Caino un cambiamento inaspettato e sorprendente nella sua attività. A seguito della menzogna di Caino, che dichiara di non sapere dove fosse Abele da lui appena ucciso, Jaweh lo esorta ad ascoltare il sangue di suo fratello che gli grida da terra aggiungendo che, per punizione, sarebbe diventato “un pastore errante sulla terra”. Caino, com’è noto, non avrà nulla da temere dalla sua condizione nomade. Troviamo così all’inizio della storia degli ebrei, temi essenziali del poema di Gilgamesh, come l’oscillazione tra due condizioni che Caino finisce per cumulare: l’allevamento (connesso all’erranza) e l’agricoltura (connessa all’attività agricola sedentaria). Rassicurato dalle parole del Signore, Caino soggiornerà nella terra di Nod, ad est dell’Eden, dove conoscerà sua moglie. Significativamente, egli condivide uno degli attributi più prestigiosi di Gilgamesh e di Romolo: ancorché Yahweh lo costringa a vagare, “diventa un costruttore di città e dà alla prima da lui fondata il nome del figlio, Enoch”. Osserviamo infine, tra parentesi, l’“assenza di identità” delle donne. La moglie di Caino non soltanto non ha nome, ma sembra essere uscita da un’etnia parallela che esiste soltanto in funzione strumentale rispetto a quella di Adamo e Eva.
Tra le invarianti delle letterature mitiche suscettibili di definire l’identità di un individuo abbiamo inoltre già evocato il pane e il vino. Sono i doni che Isacco fa al figlio Giacobbe dopo averlo benedetto. Giacobbe ricevette questa benedizione dal padre Isacco attraverso un’astuzia identitaria ordita dalla madre, fingendo cioè di essere suo fratello, il cacciatore di selvaggina Esau. Tuttavia, una volta concessa, la benedizione non poteva più essere ritirata. Esau sarà quindi costretto a vivere nel deserto, mentre Giacobbe sarà il padre delle dodici tribù d’Israele.
Nel Vangelo, pane e vino – alimenti identitari nelle culture mediterranee – segnano ancora più chiaramente il confine tra Giovanni Battista (figura del selvaggio che, come Enkidu, vive nel deserto) e Cristo (figura del civilizzatore). Quest’ultimo non soltanto li moltiplica a beneficio degli uomini, ma li trasforma in sostanze mistiche della sua alleanza con essi, attraverso l’equivalenza del suo sangue con il vino e del suo corpo con il pane. Simbolicamente, Cristo li dà da bere e da mangiare agli Apostoli durante l’Ultima Cena. Giovanni Battista, al contrario, non mangia pane e non beve vino, come aveva annunciato l’angelo Gabriele anche prima della nascita del precursore. Il Battista si nutre inoltre di locuste e di miele, cioè di insetti e prodotti derivati da insetti. Il suo statuto di uomo selvaggio è completato dalla veste che indossa, una pelle di cammello, e da un elemento come l’acqua, che lo caratterizza e fa la differenza con lo Spirito Santo e il fuoco di cui il Cristo è portatore. Giovanni Battista muore decapitato per avere denunciato il corto circuito incestuoso tra Erode Antipa e Erodiade, il suo corpo non conosce resurrezione.
In conclusione, nei testi di letteratura mitica, l’identità dell’eroe civilizzatore è largamente influenzata da quella del suo doppio. Il selvaggio non è soltanto una vittima sacrificale, come vorrebbe René Girard (1982), non è soltanto un capro espiatorio la cui morte violenta rende servizio all’eroe civilizzatore che talvolta la provoca. Partecipando della natura dell’altro, il selvaggio accompagna il suo doppio, l’eroe, fino alla fine del suo viaggio. Troviamo quindi il selvaggio non soltanto sotto le spoglie dell’uomo civile ogni volta che si tratta di fondare una cultura, ma spesso anche all’origine delle ambiguità e del destino dell’eroe civilizzatore.
Dedicheremo l’ultima parte della nostra introduzione all’emigrazione, fenomeno che dappertutto e da sempre costituisce una sfida, non soltanto per l’identità di chi accoglie, ma anche per l’identità di «chi, per motivi di enorme disagio – citiamo dalla definizione di ‘emigrante’ dell’Enciclopedia Treccani – è costretto a lasciare il proprio Paese e cerca di trasferirsi, temporaneamente o definitivamente, in Paesi in cui le condizioni e le opportunità di vita sono migliori». Segnaliamo tuttavia un duplice problema. Innanzitutto, l’esistenza di una platea più ampia di emigranti: non soltanto “economici”, come usa dire, ma anche “politici” (i rifugiati che fuggono dalle guerre) o “climatici” (spinti a spostarsi a causa dei cambiamenti delle condizioni ambientali, provocati peraltro in gran parte dall’Occidente). Inoltre, la possibilità di riconoscere l’identità, di un individuo come di un gruppo, soltanto a partire dalla costellazione degli aspetti che la definiscono.
Il fenomeno migratorio presenta, in epoca contemporanea, un altro elemento di complessità indicato dal termine oggi più usato per chi emigra: e cioè migrante. Benché sia presente sin dalla fine dell’Ottocento accanto a emigrante, il termine “migrante”, come puntualmente registra ancora l’Enciclopedia Treccani, viene «identificato soltanto con la persona più disperata, quella che affronta il viaggio di trasferimento sui barconi, mentre, in realtà, la maggior parte dell’immigrazione avviene attraverso i confini terrestri e soltanto occasionalmente con esiti tragici. In ogni caso – aggiunge la Treccani – migrante sembra adattarsi meglio alla definizione di una persona che passa da un Paese all’altro (spesso la catena include più tappe) alla ricerca di una sistemazione stabile, che spesso non viene raggiunta. In tal senso, il senso di durata espresso dal participio presente che sta alla base del sostantivo viene sottolineato: il migrante sembra sottoposto a una perpetua migrazione, un continuo spostamento senza requie e senza un approdo definitivo».
L’identità “mobile” o “sospesa” dei cosiddetti “migranti” si aggiunge alle acquisizioni nell’analisi del fenomeno migratorio degli anni ’90. Pensiamo segnatamente al libro La doppia assenza del sociologo algerino Abdelmalek Sayad (2002). Il sottotitolo, “Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenza dell’immigrato”, rende bene ragione degli aspetti strutturali del fenomeno migratorio. Attraverso la nozione di “doppia assenza” il problema dell’emigrazione viene analizzato sullo sfondo dello scenario conflittuale tra società ricche e società povere della terra. L’emigrante, secondo Sayad, è sempre “fuori luogo”, assente sia nel luogo d’origine che in quello che lo accoglie. È questo il caso di molti immigrati non più riconosciuti nei Paesi di origine e non ancora nei Paesi di approdo ancorché spesso vi siano nati e vi abbiano lavorato e frequentato le scuole.
Abbiamo evocato sin qui concetti che esprimono un rapporto inaggirabile tra noi e gli altri: contaminazione identitaria, alterità costituente, invarianti identitarie, identità “mobile”, “sospesa” o “assente”. Lo sviluppo delle comunicazioni di massa e la cosiddetta globalizzazione hanno tuttavia resa più complessa la “questione identitaria”, al punto che è possibile parlare – parafrasando Sayad – di una “doppia presenza” degli immigrati, nel senso di relazioni quotidiane più fitte con il luogo di origine e di livelli di integrazione sconosciuti fino al più recente passato.
È sul concetto di “integrazione” che, in conclusione, vogliamo soffermarci, facendo nostro, al riguardo, il punto di vista di Claude Lévi-Strauss. Provenienti dalle popolazioni più povere del pianeta, gli emigranti rappresentano innanzitutto, come i cosiddetti primitivi, la dimostrazione palmare della straordinaria diversità delle culture. La cucina etnica, anche quando di non buona qualità, è lì a testimoniarlo. Ugualmente l’abbigliamento tradizionale, soprattutto festivo o le attività coreutico-musicali. Il riconoscimento, la valorizzazione e la salvaguardia della diversità sono consentiti dall’esistenza, al di sotto della varietà culturale, di schemi universali riconducibili all’esercizio, precipuamente umano, del pensiero simbolico.
A un giornalista del Corriere della Sera che, in un’intervista del 1997 chiedeva se nelle società contemporanee non si corra il rischio che gli accresciuti contatti tra popoli diversi determinino «una perdita d’identità delle diverse culture e una loro tendenziale omogeneizzazione», Lévi-Strauss risponde:
«Benché oggi si parli anche troppo di mondializzazione e di globalizzazione, una vera omologazione culturale non è avvenuta e, a mio avviso, neanche avverrà. Nonostante tutti gli attacchi cui sono state sottoposte in questi anni, le culture hanno dimostrato una capacità di resistenza superiore a ogni previsione. Certo, in molti Paesi alcuni aspetti della vita quotidiana si sono avvicinati, ma la diversità culturale profonda, quella che conta davvero, persiste e sembra destinata a continuare nel tempo. Ogni cultura – conclude Lévi-Strauss – ha un nucleo duro, per così dire, e questa è la base della sua resistenza. Le visioni del mondo e le concezioni della vita, soprattutto quelle legate alle grandi religioni, continueranno a essere diverse».
Si tratta, con ogni evidenza, di una riflessione in controtendenza sulle resistenze al cambiamento che le comunità etniche dispiegano anche, se non soprattutto, nelle situazioni di emigrazione. Contrariamente all’opinione di molti esponenti politici, per esempio francesi, che oppongono ai valori della Repubblica il cosiddetto comunitarismo, il rispetto dei primi non esclude le pratiche identitarie degli immigrati. Il riferimento, positivo, alle grandi religioni è al riguardo emblematico: esse sono la cornice nella quale si iscrivono gli apparati simbolici che in situazione di immigrazione permettono di salvaguardare e persino di sviluppare i tratti identitari della propria cultura.
Ugualmente emblematica è l’integrazione, considerata in Occidente come la premessa necessaria alla convivenza nello stesso territorio di gruppi umani di diversa origine. Ancora una volta Lévi-Strauss si discosta dal senso comune affermando che: «L’integrazione degli immigrati può avvenire anche senza l’assimilazione culturale». Da questo punto di vista è possibile parlare, aggiungendo ancora un concetto, di un’“identità plurima”, dal momento che, accanto alle forme di integrazione, si afferma con sempre maggiore determinazione, tra gli immigrati, il desiderio di salvaguardare i tratti distintivi della cultura originaria. Ne abbiamo preso concretamente la misura nell’ambito delle attività degli “Archives du nouvel an à Paris” che abbiamo fondato in seno al Laboratorio di antropologia sociale del Collège de France per documentare le feste di capodanno delle comunità etniche che vivono a Parigi. Decine di migliaia di cittadini francesi di religione hindu o buddhista, musulmana o ebrea, oltre che nei loro templi scendono ogni anno in strada per festeggiare Ganesh o il capodanno cinese, la festa di Norouz o di Roch Ashana. Molti indossano i costumi tradizionali, tutti consumano i propri cibi, rispettano i tempi del digiuno, eseguono i propri canti e balli, venerano le proprie divinità. Mostrare agli altri le proprie differenze serve senza dubbio a favorire il dialogo tra le culture, condizione necessaria allo sviluppo della civiltà oltre che alla salvaguardia delle identità culturali degli immigrati e dei cittadini del Paese che accoglie.
Il mantenimento della diversità è quindi, per Lévi-Strauss, ineludibilmente al cuore del rapporto con l’altro. E tuttavia, bisogna tenere conto anche delle sfumature di segno contrario. Lévi-Strauss arriva a sostenere che soltanto una comunicazione non frequente né rapida tra culture diverse può garantire la stimolazione reciproca e l’originalità della creazione in ciascuna di esse, mentre quest’ultima è condannata da una “piena comunicazione” con l’altro. Di qui la necessità, secondo l’antropologo francese – cito da Razza e cultura –, di «una certa sordità al richiamo di altri valori, che può giungere fino al loro rifiuto o addirittura alla loro negazione» (1984: 30).
La ricerca di un “giusto equilibrio” tra la necessità di aprirsi agli altri e il desiderio di rimanere tra sé, ha generato sistemi di variazioni concomitanti che l’antropologia ha il compito di studiare. Nonostante le apparenze, le differenze sono tuttavia spesso più importanti tra culture contigue, che hanno cercato di differenziarsi per praticare meglio la reciprocità, che tra culture lontane. Gli scarti differenziali di queste ultime permettono di riconoscere meglio l’identità umana attraverso i meccanismi inconsci del funzionamento della mente. Necessaria per mantenere l’identità di ogni gruppo e l’esistenza stessa della specie, la diversità culturale favorisce gli scambi contribuendo alla riproduzione persino delle differenze biologiche.
Né etnocentrica né relativistica, l’antropologia mira a conseguire una definizione universale della natura umana componendo le differenze all’interno di sistemi di trasformazione coerenti, che si tratti di culture contigue o distanti nello spazio e nel tempo. L’unico modo scientifico per capire di che cosa sia fatta l’identità, multipla oltre che mobile, consiste nello scoprire le leggi d’ordine sottese alla diversità osservabile di credenze e istituzioni.
Ringraziandovi per l’onore che mi avete fatto invitandomi a introdurre un convegno così importante per le nostre discipline, mi permetterete di concludere con un’ultima citazione di Lévi-Strauss (1997) tratta dall’intervista già citata al Corriere della Sera: «Esistono due grandi virtù: la tolleranza e il rispetto per la diversità. È questa una lezione che in questo secolo tragico abbiamo appreso a un prezzo molto alto e che non dovremmo dimenticare». Mi permetterete di aggiungere: è questa una lezione che non dovremmo dimenticare per evitare che la catastrofe possa avere di nuovo luogo.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
[*] Per gentile autorizzazione dell’Editore Mimesis si pubblica in anteprima un saggio contenuto nel volume La Vergine senza età e altri studi di antropologia, di Salvatore D’Onofrio, in libreria nelle prossime settimane.
Riferimenti bibliografici
D’Onofrio, S., 2011, Le sauvage et son double, Paris, Les Belles Lettres.
Lévi-Strauss, C., 1984, “Razza e cultura. Antropologia, cultura, scienza a raffronto”, in Lo sguardo da lontano, Torino, Einaudi.
Lévi-Strauss, C., 1988, Da vicino e da lontano. Discutendo con Claude Lévi-Strauss, Milano, Rizzoli.
Lévi-Strauss, C., 1997, intervista di U. Melotti, “Immigrazione, diversità, demografia, il punto di vista di Claude Lévi-Strauss”, Corriere della sera: 27 dicembre.
Sayad, A., 2002, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano, Raffaello Cortina.
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Salvatore D’Onofrio, professore all’Università di Palermo, è anche docente all’École des hautes études en sciences sociales e membro del Laboratoire d’anthropologie sociale del Collège de France, dove coordina i Cahiers d’anthropologie sociale e l’équipe “Archives du Nouvel An à Paris”. Tra le sue ultime pubblicazioni: Le Sauvage et son double (2011) , Les Fluides d’Aristote (2014), Le Matin des dieux (2018), Le parentele spirituali (2018), Lévi-Strauss face à la catastrophe (2018, trad. it. Lévi-Strauss e la catastrofe, 2019) e La Vergine senza età (2020). Ha coordinato la pubblicazione di due libri di Françoise Héritier: Une Pensée en mouvement (2009) e Sida, un défi anthropologique (2013). Ha diretto, con Emmanuel Terray, il Cahier de L’Herne Françoise Héritier (2018).
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