di Carolina Galli
Questo contributo nasce da un’esperienza concreta e riporta estratti del diario di campo raccolti durante due mesi di stage in un Centro di accoglienza Straordinaria (CAS). Non ha importanza il luogo in cui è stata fatta l’esperienza, non vuole essere una critica al lavoro del personale interno al CAS. È da tenere in considerazione che le esperienze negative, in termini di non rispetto dei diritti umani dei richiedenti asilo, ospiti dei centri di cui si sente spesso parlare nella cronaca non sono unicamente imputabili ai gestori dei centri. Bisogna necessariamente considerare il quadro normativo di riferimento e la gestione del fenomeno che realizzandosi spesso ai margini della legalità lascia spazio alla concretizzazione di cattive pratiche.
L’analisi non vuole essere estesa a tutti i Centri di Accoglienza, esistono esperienze positive che mi auguro in futuro di poter raccontare. L’intenzione è però quella di lasciare entrare il lettore dentro un centro di accoglienza almeno attraverso il racconto.
Giovedì 4 Agosto 2016
C. dice che i pantaloni che indossa (una tuta da ginnastica) nel suo paese li danno ai carcerati, mi chiede se non mi sembra una prigione quella. Non rispondo, continuo a guardarlo, la risposta è chiara. Lui continua come se io avessi risposto di “sì”.
Bloccati in una prigione senza avere una colpa. Con rancio la mattina, a pranzo e alla sera, senza possibilità di scelta di qualunque genere. Senza aver visto il mondo esterno, venti giorni senza aver avuto altri contatti se non con persone che lavorano là. Contatto è una parola grande, C. non parla italiano, è appena arrivato.
Continua dicendo che se dovesse comparare quello che ha lasciato con quello che ha trovato, direbbe che ha toccato la morte tre volte consecutive. Quando era nel suo paese per minaccia di morte è dovuto scappare, non sa cosa sarebbe successo se fosse rimasto là. Quando ha attraversato il mare, il cielo ha voluto che lui al bivio tra l’incognita e la morte scegliesse l’incognita per trovare una terza morte, la peggiore. Una prigione a cielo aperto dalla quale non sai quando ne uscirai, dove ogni giorno muori dentro un po’ di più, logorato dai pensieri. E nessuno se ne cura. (Parole Ospite [1] n. 89 CAS-37)
Locazione e logistica degli spazi e del tempo all’interno della struttura
La struttura che consideriamo nasce come un villaggio turistico in una località balneare sul mar di Sicilia. Ad oggi la struttura è un Centro di Accoglienza Straordinaria (CAS) ma, nonostante la sua chiusura come meta turistica al suo ingresso, riporta ancora l’insegna e capita spesso che persone si fermino a chiedere informazioni inerenti al villaggio turistico o che siano alla ricerca di un bar/tabacchi.
Giovedì 28 Luglio 2016
Chiedo a B. di portarmi alle cucine, che sono dopo i campi da calcio e le piscine, dopo il recinto del campo, che è stato buttato giù, in un blocco cementificato di bagni pubblici dell’ex villaggio, nascosti da un canniccio. Poggiato su un lavandino, un fornellino da campeggio è la cucina nascosta degli Ospiti che odiano il mangiare portato dal catering.
In lontananza scorgo delle roulotte e chiedo, “chi abita laggiù?”. B. e R. (due Ospiti del Centro) mi dicono che sono dei palermitani che vengono in vacanza, ogni tanto si avvicinano alla cucina e si mettono a parlare con loro. R. dice che certe volte sono andati a giocare con loro a calcio nei campi o al mare insieme. Vado a vedere. Un filare di piazzole con roulotte e verande annesse, recinzioni, cucinotti e piscinette gonfiabili. Una parte del Centro viene ancora adibita a campeggio, il guardiano notturno che è lo stesso di quando c’era il villaggio turistico si occupa dei pagamenti.
La struttura si trova isolata rispetto ai centri abitati, dai quali dista circa 14 km. Sorge come una cattedrale nel deserto tra distese di campi agricoli in cui molti richiedenti asilo, Ospiti del Centro, lavorano per 2.50 euro l’ora, nella raccolta di angurie e ortaggi. Le strade che collegano il CAS con i centri abitati non hanno marciapiedi e di notte non sono illuminate. I Richiedenti le percorrono per obbligo in bicicletta, ma se di giorno sono già pericolose, di notte il rischio di essere investiti è ancora più alto.
Il CAS è circondato da un muro di cemento alto circa un metro e sessanta centimetri e presenta un unico ingresso ufficiale riconoscibile da un cancello di acciaio a scorrimento che dalla mattina fino alle 20:00 è aperto. Ci sono, però, altri ingressi, nascosti da teli ombreggianti: un altro cancello in fondo alla struttura e altre fessure dovute al crollo del muro, necessari anche per l’entrata e uscita dei campeggiatori.
Dalla chiusura del villaggio i locali già presenti hanno cambiato la loro funzione, ma non è stata fatta alcuna manutenzione alle strutture che risultano piuttosto fatiscenti e decadenti, eccetto che per l’ufficio del personale.
Entrati nel cancello dopo un piazzale, il primo edificio in cui ci si imbatte è l’ex reception convertita in ufficio del personale. Al suo interno l’arredamento è rimasto da reception: una scrivania unita ad un alto bancone in legno (per cui chi entra deve affacciarsi al di là di questo muro che ‘protegge’ il/la receptionist o l’operatore/operatrice), un armadio con ante scorrevoli (sopra vi sono attaccati l’organigramma dei dipendenti e una grande tabella riportanti le consegne del materiale per l’igiene personale, costantemente aggiornati). L’armadio ha funzione di archivio della documentazione inerente agli Ospiti del Centro. Accanto è stata lasciata la bacheca delle chiavi degli alloggi che non è usata, forse perché le porte delle case degli Ospiti non sono chiudibili. Sotto è posta una macchinetta del caffé a pagamento.
A sinistra della reception, dopo due filari di piccole palme non curate e potate, inizia la zona degli alloggi degli Ospiti. Dai 20 bungalow dell’ex villaggio sono state ricavate delle “casette” [2]. Gli Ospiti risiedono in 15 di queste e in 4 condividono 40 mtq. Due bungalow sono diventati gli sgabuzzini dove il Personale tiene materiali per le pulizie e beni di prima necessità (scarpe, asciugamani ecc.) che dovrebbero servire per fornire il kit-igienico all’arrivo di nuovi Ospiti. Un’altra invece, la più vicina al muro e la più isolata, è diventata una sala di preghiera.
Ogni “casetta” ha, prima dell’ingresso, una piccola veranda cementificata. Nei 40 mtq di ogni alloggio sono concentrati: un bagno con doccia, lavandino e bidè, una camera con due letti con un armadio di tela o plastica e un piccolo corridoio adibito anch’esso a stanza, dove sono sistemati altri due letti e un armadietto sempre in tela o plastica. Entrambe le “stanze” hanno una finestra.
Tra le “case” ci sono ampi spazi, il suolo è coperto da ciottoli bianchi e sabbia, ci sono cassonetti collettivi, anche se capita spesso di trovare a terra rimasugli di cibo con cui si cibano cani randagi e gatti che girano per il centro liberamente. In un angolo dello spazio alloggi sono lasciati ad arrugginire resti di bici.
Dietro la reception dopo una siepe alta quasi due metri, al centro di un grande piazzale, troviamo un bagno pubblico dell’ex-villaggio in cui ci sono quattro docce pubbliche e due lavatrici rimaste a pagamento. A destra dell’ufficio invece si apre una strada che porta all’ex supermarket del villaggio adesso diventato la mensa. Al suo interno non avviene che la mera distribuzione di cibo e acqua, non è percepita come stanza comune dove mangiare e durante il mio stage era il luogo dove si svolgevano le lezioni di italiano (corso che si svolgeva sporadicamente).
Oltre tale edificio si arriva alla zona degli impianti sportivi (piscina, campi da calcio e campi da tennis). Solo il campo da calcio è utilizzabile, anche se malandato. Gli Ospiti usano due bidoni pieni di sassi per fare le porte. Oltre gli impianti e dopo una strada il centro è chiuso da un telo ombreggiante legato a degli alberi. In verità una parte di questo “muro” è stata buttata giù per avere accesso alla cucina degli Ospiti.
La giornata lavorativa per il personale inizia alle 9:00 di mattina e termina alle 13:00/14:00, eccetto che per il mediatore che resta 24 ore all’interno del centro. Non è prevista alcuna attività per i Richiedenti Asilo che abitano il centro, gli Operatori sbrigano unicamente il lavoro burocratico e di pulizia. Ad ogni Richiedente Asilo viene assegnato, dal momento del suo arrivo, un numero identificativo interno al Centro e un “kit-igienico/sanitario” comprendente: un sapone in condivisione con le persone che abitano la sua stessa “casetta”, rasoio, asciugamani, un paio di mutande, un paio di calzini, un paio di pantaloni, maglietta e felpa, e un paio di ciabatte estive. Ai numeri personali corrispondono dei dossier nei quali, in teoria, vengono inseriti tutti i dati e la documentazione (copia della cartella dell’hotspot, screening sanitario e risultati degli esami, cartella conoscitiva chiamata “cartella sociale”, pratiche burocratiche relative alla domanda d’asilo e residenza, carta d’identità, codice fiscale e carta sanitaria e copia di tutta la documentazione) relativi all’Ospite identificato dal numero appuntato sulla copertina del dossier.
Alle 10:00 è previsto un servizio navetta CAS-centro città per gli Ospiti con ritorno alle 12:30. In caso di appuntamenti per le visite mediche, per le audizioni in Commissione o per risolvere le pratiche burocratiche, vengono appese comunicazioni in inglese fuori dall’ufficio il giorno prima
Alle 12:30 e alle 18:30 arriva il pulmino del catering, in convenzione con il CAS, che consegna rispettivamente il pranzo e la cena. Puntualmente viene chiamato il mediatore al telefono il quale deve immediatamente lasciare ciò che sta facendo per andare a scaricare le casse di cibo trasportate dal pulmino alla “sala mensa”. È qui che avviene la distribuzione dei viveri. Il mediatore si occupa di distribuire i pasti sia a pranzo che a cena. La consegna è segnata su fogli che riportano la data del giorno e una matrice con i numeri identificativi e la colazione, il pranzo e la cena. I pasti comprendono monoporzioni preconfezionate: un primo (es. riso bianco) e un secondo (es. un pezzo di frittata o patate arrosto o carne) un frutto (es. una pesca) e una bottiglia d’acqua. Le porzioni sono piccole e la varietà di cibo è modesta, la qualità è medio-bassa e, in effetti, poco nutriente [3]. Gli Ospiti si lamentano spesso del cibo che viene loro consegnato e talvolta rinunciano alle porzioni spettanti. Capita, infatti, che si presentino in ufficio infuriati con le porzioni sigillate (perché conoscono già quello che è all’interno) e battono con forza sul bancone le confezioni di cibo urlando: “no buono!”. Per questo sono state allestite, o meglio per usare le parole del personale “concesse”, delle cucine nascoste e talvolta gli Ospiti hanno in camera dei fornellini elettrici. A cena sono consegnate loro anche delle brioches confezionate (2 cadauno) e un cartone di latte a lunga conservazione (250 ml) per la colazione della mattina seguente. Per il caffé è necessario aspettare l’apertura dell’ufficio in cui è stata posta una macchinetta con cialde (40 cent di euro l’uno).
Dal Bando della Prefettura di competenza sul territorio, risulta che la Cooperativa ha un’entrata come importo pro-die/pro-capite di 28,508 euro. Il pocket money è di 2,5 euro pro-die/pro-capite ed è consegnato entro i primi dieci giorni del mese. Durante la mia permanenza non ci sono stati ritardi nella consegna, anche perché è argomento su cui potrebbero nascere tensioni che si cerca in tutti i modi di evitare. Nonostante questo, alla consegna del pocket money di agosto ho avuto modo di assistere ad un avvenimento alquanto strano.
Venerdì 5 Agosto 2016
Arrivo al Centro con la Psicologa ore 9.00. Davanti all’ingresso dell’ufficio c’è un grande affollamento di Ospiti, strano non ne ho visti mai così tanti davanti all’ufficio. Entriamo e il Responsabile del Centro è seduto dietro al bancone, oggi darà i soldi mensili: 75 euro per ognuno, (2,5 x 31 giorni = 77,5 euro meno 2.50 di detrazione per il wi-fi). A turno prendono i soldi e firmano il foglio di consegna.
Oggi dobbiamo andare a portare R. alla visita dal medico di base. Arriva R. davanti all’ufficio e aspetta ad entrare, nonostante le nostre sollecitazioni perché siamo stretti con i tempi. Entra quando tutti gli ospiti sono usciti. Il Responsabile consegna a R. la sua quota mensile. Io e la Psicologa domandiamo se è pronto e facciamo per uscire, R. continua ad avere una mano aperta sul bancone rivolta verso il Responsabile che gli passa 20 euro. Il Responsabile alza lo sguardo e dice rivolgendosi a noi: “eh ragazze mie, la democrazia e la pace hanno un costo”. Usciamo tutti e saliamo in macchina.
Durante il tragitto chiedo in francese a R. se ha capito cosa ha detto il Responsabile quando siamo usciti dall’ufficio. Mi dice che non ha capito, allora traduco e lui ride. Chiedo il perché della sua risata. Mi racconta che qualche mese fa, poco dopo il suo arrivo (fine aprile 2015), aveva provato a promuovere una protesta per il cibo offerto, il suo corpo lo rigettava. Sapendo che era un malessere condiviso, aveva proposto a tutti quanti di recarsi in ufficio in massa per chiedere un servizio migliore. R. incoraggiava i compagni dicendo che si sarebbe messo lui davanti a tutti e si sarebbe fatto capire anche se non parlava italiano. Ma tutti erano titubanti e, alla fine, hanno rinunciato alla protesta. Allora inizialmente ha rinunciato anche lui. La rabbia che aveva addosso e il rifiuto verso il cibo lo hanno però portato a trovare il coraggio di protestare da solo. Così mi racconta che è andato dal Responsabile e ha chiesto di trovare una soluzione al problema dei cibo. Il Responsabile gli ha proposto un compromesso: gli avrebbe dato 20 euro in più al mese per comprarsi da mangiare in cambio di non agitare proteste e di tacere. È passato più di un anno e ancora nessuno lo sa.
All’interno del CAS le figure lavorative sono:
- Coordinatore Responsabile (Direttore) del Centro: ha un contratto da 38 ore settimanali. Possiede un diploma tecnico superiore e pare che in passato abbia gestito altri Centri. Dagli Ospiti è chiamato “Il Capo”. Nei suoi confronti è riconosciuta una forma di rispetto, probabilmente dovuta alla sua posizione di potere all’interno del Centro. Non trascorre molte ore settimanali al Centro, ha delegato qualunque funzione agli operatori, ma soprattutto all’Assistente Sociale.
- Assistente Sociale: (Ass. Sociale di albo B – ritardo dei pagamenti dello stipendio di circa 10 mesi). Ha un contratto da 24 ore settimanali. Ha imparato le prassi per l’ottenimento di documentazione e tutto quello che riguarda l’immigrazione sul campo. Non conosce neanche una delle storie delle persone che abitano il Centro e la sua modalità per farsi “capire” e “rispettare” è principalmente alzare la voce. Mi si è presentata come il vice-responsabile del Campo. In teoria non è così, ma nella pratica è lei che decide i ruoli, i compiti degli Operatori e gestisce tutto. Gli Ospiti francofoni la chiamano “la Patronne” (che in italiano potrebbe essere tradotto come “la boss”).
- Psicologa: (si è licenziata negli ultimi giorni di agosto). Neo-laureata, ha un ritardo dei pagamenti di circa 5 mesi, ovvero da quando è stata assunta con il ruolo di operatrice e non di psicologa. Ha un contratto da psicologa per 24 ore settimanali. In effetti è l’unica che aiuta l’Ass. Sociale nelle pratiche burocratico-organizzative anche se non si trova in accordo con le modalità e decisioni prese da quest’ultima.
- Operatore legale. È responsabile di altre strutture di accoglienza per MSNA gestite della Cooperativa. Non esercita, e dai racconti dei Richiedenti Asilo residenti al centro ormai da un anno, non ha mai esercitato all’interno del CAS alcuna attività informativa per gli Ospiti.
- Sei Operatori. Si occupano delle pulizie delle “casette” e degli edifici prima descritti e in generale del controllo e del mantenimento dell’ordine. Ogni operatore ha un contratto da 38 ore settimanali. Parlano solo italiano e siciliano. Tre non li ho mai visti all’interno del Centro e non ho mai avuto modo di conoscerli. Uno dei tre operativi, ha lavorato al Centro il primo mese del mio stage, il secondo mese è stato spostato in un nuovo Centro per MSNA aperto dalla Cooperativa. Un altro operatore si occupa delle pulizie insieme al mediatore, mentre l’ultimo rimasto fa il guardiano notturno.
- Un infermiere in convenzione: non ho mai avuto modo di conoscerlo su due mesi di permanenza.
- Due mediatori. Entrambi sono titolari di Protezione Umanitaria. Hanno ottenuto il permesso durante il loro soggiorno all’interno dello stesso CAS. Uno dei due non lavora al CAS in questione ma è stato spostato, sin da prima del mio arrivo, in un altro Centro di Primissima Accoglienza MSNA gestito dalla stessa Cooperativa. Ha un contratto di 38 ore e io ho avuto modo di incontrarlo solo durante una mia visita al Centro suddetto.
Solo uno dei due mediatori è effettivamente operativo all’interno del CAS. M. è madrelingua mandingo, parla arabo, inglese e poco, pochissimo l’italiano. Ha un contratto da 24 ore settimanali, ma poiché vive all’interno del Centro le sue ore lavorative si dilatano costantemente. Ha un ritardo di pagamenti di 5/6 mesi, non ha un mezzo a disposizione per spostarsi e continua di fatto a fare la vita da Ospite. Il mediatore non viene chiamato per traduzioni, ad eccezione di casi estremi, e svolge un lavoro da ausiliare, come gli altri operatori. M. non può allontanarsi dal Centro.
Durante il mese di agosto è stato assunto in prova un altro operatore che ha stretto amicizia con M. e, rilevando in lui la necessità di allontanarsi dal Centro, lo ha condotto fuori. Dopo qualche settimana, però, il Responsabile lo ha chiamato all’ordine: M. doveva restare al Centro anche nelle ore in cui non lavorava. M. è un punto di riferimento per il mantenimento della struttura a livello legale, non certo per il mantenimento dell’ordine. Agli occhi degli altri Ospiti, infatti, è visto come colui che riveste una posizione privilegiata perché collabora con i “bianchi”.
Mercoledì 3 Agosto 2016
Arrivo al Centro alle ore 9:30. È tornato J., un Ospite che non ho mai conosciuto. Il Responsabile è già in ufficio. Il Richiedente Asilo chiede di voler lasciare il Campo, è arrabbiato. Il Responsabile non capisce cosa stia dicendo l’Ospite, allora chiede di chiamare M. (il mediatore), il quale traduce. Il Richiedente ribadisce che vuole andarsene e che vuole i suoi documenti, è particolarmente alterato, urla contro M. le sue ragioni e M. risponde senza tradurre (forse sta cercando di calmarlo). J. inveisce allora contro il Mediatore, dice che lui è nero ma che lavora con i bianchi, la sua è una situazione privilegiata, è facile parlare dalla sua parte. M. se ne va senza rispondere, esce dall’ufficio, J. lo segue e continua a urlargli dietro in inglese nigeriano mentre M. si allontana.
Nelle ultime settimane il mediatore mi confessa che, avendo ottenuto il permesso di protezione umanitaria, non dovrebbe risiedere nel Centro. Il Responsabile allora per non fargli perdere il lavoro ha trovato il modo di fagli avere una residenza fittizia.
Riporto di seguito alcuni aspetti che hanno sia direttamente che indirettamente delle ripercussioni sull’andamento delle relazioni tra gli Operatori e gli Ospiti:
Tranne il mediatore nessuna delle altre figure lavorative parla altra lingua fuorché l’italiano. Nessuna delle figure appena elencate ha una formazione specifica nell’ambito delle migrazione, dell’interculturalità e della gestione di conflitti interpersonali. Il Responsabile, l’Ass. Sociale e la Psicologa hanno appreso in itinere e nella prassi le operazioni burocratiche necessarie all’adempimento della domanda di Protezione internazionale, la legislazione in merito al soggiorno dello straniero in Italia, i diritti e i doveri dello straniero e sullo specifico dei Richiedenti Asilo. Gli altri Operatori non sono a conoscenza della materia perché non è necessaria per lo svolgimento del proprio lavoro.
Tutti coloro che lavorano all’interno del Centro hanno un ritardo nella percezione dello stipendio di più di quattro mesi. Questo ha, in tutta evidenza, un forte impatto sulla precarietà e dunque sulla vita privata degli Operatori, e conseguentemente anche sulla qualità del lavoro. Oltremodo se si parla di lavoro sociale: l’abbassamento dell’operato in termini di qualità ha un impatto diretto sulla vita dei beneficiari cui dovrebbe spettare quel servizio, ancor più se il luogo di lavoro coincide con l’alloggio degli Ospiti. Allora l’impatto della frustrazione dei lavoratori si ripercuote in maniera devastante sui beneficiari.
Fatta eccezione per gli appuntamenti programmati, le giornate e il lavoro degli Operatori si alternano tra le pratiche burocratiche, la routine delle pulizie e le eventuali imprevedibilità. In una logica di emergenzialità dilagante e spiazzante, il lavoro all’interno del CAS sembra non considerare la differenza tra chi dovrà affrontare un soggiorno di un anno o di un mese. Non ci sono, ma non sono neanche pensati, momenti di formazione, spazi creativo/professionali, di scambio o confronto tra gli Operatori, per riflettere insieme e scaricare le tensioni. La gerarchia tra le posizioni lavorative è molto forte e rispettata da tutti i lavoratori.
Abitanti del CAS
Alcuni, pochissimi, sono già titolari di protezione umanitaria o sussidiaria o godono dello status di rifugiato e continuano ad abitare il Centro perché sono in attesa del permesso. Di conseguenza, l’unico elemento che unisce queste persone è il fatto che tutti sono abitanti del CAS. Non è dunque appropriato definire quest’insieme di individui come “gruppo” nel senso sociologico del termine, ovvero insieme di individui in relazione che condividono un’interdipendenza, piuttosto che una somiglianza. L’interdipendenza percepita dalle parti è ciò che permette loro di riconoscersi nell’identità di “gruppo”(K. Lewin,1948:184)
La percezione iniziale suddivide in due insiemi gli attori che agiscono ed entrano in relazione nello scenario del CAS. Durante i mesi passati nel CAS ho messo in crisi questa prima lettura quando uno degli Ospiti mi ha fatto notare che “loro” l’unica cosa che condividevano era l’ottenimento di un documento. Ognuno ha la sua storia, ognuno ha il suo passato; pure combinazioni, coincidenze e casualità li hanno condotti in quel luogo. All’interno del Centro un occhio esterno li raggruppa in un insieme unico e organico per la condizione che si trovano a vivere e per le analogie come l’abitare lo stesso spazio e la ricerca di uno status o di una identità cartacea. L’appartenenza al gruppo, creato dall’occhio esterno, manca di ‘volontà di adesione’ da parte dei membri: è illogico allora pensarli come unità. Inoltre, anche se la situazione mette gli Ospiti in condizione di simpatizzare gli uni con gli altri e comunicare fra loro, essa non esita necessariamente in solidarietà e spirito di gruppo.
Gli Ospiti camminano paralleli ma senza incontrarsi. È un po’ come quando ci si trova ad aspettare un treno. Una massa di persone alla stazione ferma ad un binario cosa condivide più della direzione o della destinazione del treno? Allora è difficile sentire o pensare un’azione comune perché non ci si pensa come un’unità, come un gruppo, ma piuttosto come tanti singoli che riempiono uno spazio. Non è un caso che ad esempio la mensa, l’unico spazio pensato dagli occidentali per momenti di condivisione, sia un luogo che non ha mai preso vita. Gli abitanti del Centro non consumano i loro pasti nella sala pranzo ma nei propri alloggi.
Al fine di poter comparare e mettere in relazione la categoria del personale con quella degli “altri”, nella mia analisi raggrupperò gli abitanti del CAS in una visione di “insieme” che mi possa permettere di privilegiare i tratti descrittivi del gruppo e di farne un’analisi. Secondo la Convenzione con la Prefettura di competenza, il centro può “ospitare” al massimo 60 migranti, solo maschi maggiorenni. Durante i mesi di luglio e agosto il numero di Ospiti del CAS è oscillato tra le 54/56 persone. Le presenze sono registrate e controllate due volte al giorno con il ritiro dei pasti. Al momento della consegna il mediatore registra chi è passato a ritirare le porzioni che gli spettano. Un altro momento di censimento degli abitanti del villaggio è invece la distribuzione del pocket money, poiché all’atto della consegna gli Ospiti sono obbligati a firmare.
Le provenienze degli Ospiti sono varie: Bangladesh, Pakistan, Sudan, Ciad, Camerun, Nigeria, Benin, Niger, Ghana, Mali, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Senegal e Gambia. La maggior parte degli Ospiti arriva direttamente dall’Hotspot di Trapani (ex-CIE di Milo), alcuni sono neo-maggiorenni, dunque provenienti da comunità per minori, altri ancora sono stati spostati da altri centri a causa della chiusura per cattiva gestione, come ad esempio dal CARA di Salinagrande (TP).
Al momento del loro arrivo, viene assegnato loro un numero identificativo, un letto, un kit igienico/sanitario e viene in teoria fatta compilare la ‘cartella sociale’. Tale fascicolo, riportato nei dossier in cui sono deposti tutti gli atti e la documentazione degli Ospiti, nella pratica non viene redatto. Inoltre, già da una prima lettura della ‘cartella sociale’ si percepisce come siano abbastanza fuori luogo le richieste che si cerca di esplicitare, queste sono pervase da etnocentrismo, ignoranza e ingenuità. Non viene fatto/dato loro alcun colloquio o supporto psicologico. La Psicologa e l’Ass. Sociale, come mi è stato detto più volte, ritengono infatti di non avere all’interno del CAS alcun “caso vulnerabile” tra le persone arrivate e che dunque i colloqui siano superflui.
Non essendo programmate attività dagli Operatori, gli abitanti del Centro passano le giornate nel vuoto esperenziale più assoluto. Nessuno ha spiegato loro dove si trovano e perché siano là, qual è l’iter che sarà seguito per la formalizzazione della domanda di asilo, cosa sia la Commissione e cosa succederà in caso di esito positivo o di diniego e quale sia la situazione e le prospettive che derivano dalle attuali normative europee. Nessuno traduce o spiega loro perché sono necessarie le loro firme nella compilazione dei moduli. Nessuno li ha informati sui servizi di cui possono usufruire sul territorio circostante. Nessuno ha chiarito loro il significato dei permessi di soggiorno o cedolini che ottengono, la funzione delle tessere sanitarie, dei documenti della residenza, della carta d’identità e delle relative lungaggini burocratiche e delle prassi legate all’ottenimento di tutte queste carte.
L’isolamento geografico del Centro fa sì che non ci sia contatto, neanche quello fisico e visivo, con l’esterno e con la vita “normale”, ad eccezione dei momenti di effettuare le visite mediche, i colloqui in Commissione, le firme all’ Ufficio Immigrazione o le foto all’anagrafe. Per la maggior parte degli Ospiti la giornata è scandita dall’orario del servizio navetta e dagli orari del ritiro del pranzo e della cena. Per coloro che sono di religione musulmana il richiamo del muezzin alla preghiera articola la giornata, mentre per i cristiani cattolici la domenica aiuta spezzare la settimana.
Circa una trentina di persone lavorano nei campi circostanti dalle 6:00 alle 14:00/16:00 per 2,50 euro l’ora. La maggior parte vaga per il Centro alternando letto, telefonate e smartphone a visite all’ufficio per scambiare un “Buongiorno”, comprare un caffè, chiedere medicinali o novità sul “documento”. Alcuni giorni gli Ospiti improvvisano partite di calcio nei campi da gioco interni al centro.
Ad eccezione del fatto che devono tornare a dormire nel CAS (anche se non c’è alcun controllo reale), gli Ospiti sono di fatto liberi di gestirsi e di gestire il loro tempo. Ora, se consideriamo che il centro è isolato dalle città adiacenti, che gli internati non hanno scelto quel luogo e che non conoscono il territorio, le località dei dintorni, né le persone, né la cultura del posto (luoghi di aggregazione, modalità di vita, scansione del tempo) né hanno possibilità di entrare in contatto con questo modello di società, se non per attività burocratico/amministrative e sanitarie, risulta difficile pensarli capaci e intraprendenti di prendersi il tempo che hanno a disposizione e pensarlo come proprio per costruirvici qualcosa o gestirlo con libertà.
Relazione tra personale e abitanti del CAS: dinamiche e conflittualità
Il solo incontro tra i due gruppi risulta di per sé un territorio di potenziale conflitto, sia per la posizione che rivestono se li collochiamo dentro un unico sistema organico sociale (il CAS) dove esistono ruoli e rapporti di forza, sia per la costituzione e le problematiche interne di ciascun gruppo ignorate sistematicamente dall’altro. Come sostiene Goffman (1961: 37) in questo tipo di istituzioni c’è una distinzione fondamentale fra un grande gruppo di persone controllate e un piccolo staff che controlla. La cosa fondamentale è che l’uno è fatto per l’altro.
La ricerca di relazione tra i due gruppi descritti è unidirezionale: dagli Ospiti al “Personale”. Sono infatti gli Ospiti che si recano all’ufficio dello staff per un saluto o qualunque tipo di richiesta e mai viceversa, ad eccezione di un caso: il lavoro degli Operatori è infatti quello di recarsi nelle “casette” per svolgere i lavori di pulizia e di fatto di controllo, invadendo in tal modo gli unici spazi privati che gli abitanti del centro hanno a disposizione. Nel caso in cui l’Ass. Sociale abbia bisogno di qualcuno per firmare dei moduli o compilare degli stampati, la relazione è statica e mediata: solitamente viene chiamato il mediatore al telefono che dovrà provvedere a trovare la persona necessaria.
La relazione verbale è limitata perché non esiste tra i due gruppi un linguaggio comunicativo condiviso: gli Ospiti parlano poco l’italiano e lo staff non parla né francese né inglese né altra lingua che non sia italiano né c’è la propensione alla comprensione di ciò che gli Ospiti cercano o vorrebbero comunicare. Al contrario, lo Staff pretende dagli Ospiti la totale comprensione delle comunicazioni. Nel colloquio, infatti, ho constatato che se l’Ospite dice di non aver capito o chiede di ripetere il messaggio, i toni dello Staff si alterano e assumono toni alti e aggressivi, ripetendo il messaggio, tra l’altro, con le stesse identiche parole.
Giovedì 14 Luglio 2016
La situazione oggi sembra tranquilla, qualcuno saluta o compra un caffè. R. entra in Ufficio, saluta con un “Buongiorno” in italiano e chiede “tutt’apposto?”. Nessuno risponde. L’Assistente Sociale seduta alla scrivania del front-office non alza la testa dalle carte che sta compilando. B. (la psicologa) sta preparando delle slide al computer per una lezione di italiano sui verbi all’imperfetto. R. chiede in francese a M. (operatrice) la colazione perché la sera prima non gli è stata data. M. mi guarda, traduco. R. chiede a B. (la psicologa) se ci sarà lezione di italiano. L’Assistente Sociale riceve una telefonata: qualcuno deve andare in Commissione, nessuno se l’era segnato. Chiede a B. di lasciare ciò che sta facendo per partire. R. chiede nuovamente a M. se ci sarà lezione di italiano. La lezione è saltata. R. si arrabbia, in francese dice che è molto tempo che non fanno lezione. L’Ass. Sociale con tono alterato replica a R. di calmarsi perché loro stanno lavorando. R. riceve due brioches preconfezionate senza latte, allora si rivolge a M. con rabbia chiedendo la bevanda. Senza guardarlo lei chiede di domandarglielo cortesemente. Lui sbatte le brioches sul bancone del front-office. Allora M. riprende le brioches e le rimette al loro posto e, alzando ancor più il tono della voce per farsi sentire, gli comunica che per oggi non avrà la colazione, mentre R. gesticola e protesta che non va niente in quel posto. A questo punto l’Ass. Sociale si rivolge a M. e, come se R. non ci fosse, le dice di dare la colazione a R. che così se ne sarebbe andato. R. prende le porzioni che gli spettano e, continuando a sbuffare, esce dall’ufficio.
Per il 90% dei casi le visite all’ufficio del gruppo degli abitanti sono mosse da quattro tipi di richieste o argomenti: “documenti”, “medicine”, “pocket money” e “cibo”. Alle richieste viene data poca importanza e, a parte rari casi, nessuna di queste viene tradotta in italiano. In ogni caso la risposta data è sempre quella di pazientare. Sui chiarimenti intorno ai tempi per l’ottenimento dei loro documenti, agli appuntamenti o alle tessere sanitarie che gli Ospiti richiedono, non viene mai dato un periodo indicativo, la risposta è sempre la stessa: “piano piano”. Come nell’ufficio, così anche fuori dal CAS, la parola “documenti” è una di quelle che fanno scatenare più facilmente il conflitto verbale, così come tutti gli argomenti inerenti le tempistiche e le pratiche legali/amministrative.
Giovedì 25 luglio 2016
L. è titolare di protezione umanitaria, ma il suo documento tarda ad arrivare. Il 25 luglio è chiamato all’Ufficio Immigrazione di competenza per un’ulteriore fotosegnalazione. A L. non è stato spiegato il motivo della convocazione, ma è dal mio arrivo al Centro che con ossessione chiede novità sul suo documento, ricevendo sempre risposte indispettite con toni alterati, e in alcuni casi viene mandato via in malo modo dall’ufficio dello staff.
Stamani mentre l’Assistente sociale è distratta, L. si è “permesso”, con l’aiuto della mia traduzione, di chiedere, al funzionario dell’Ufficio Immigrazione, dei chiarimenti sul suo documento. Io ho tradotto fedelmente ciò che lui stava chiedendo, bypassando l’Assistente sociale, la quale si è infuriata davanti a tutti con il ragazzo (diciannovenne) perché doveva smetterla di chiedere dei suoi documenti.
Lunedì 29 agosto 2016
F., un Ospite, ha ricevuto un diniego da parte della Commissione. Si reca in ufficio e con l’aiuto di un altro Ospite (S.) che parla un po’ meglio l’italiano spiega all’ Ass. Sociale che non vuole gli avvocati del “campo” ma che sarà lui a scegliere il legale che seguirà il suo ricorso. Gli è stato detto di “sì” senza problema, ma gli è stato specificato, da parte dell’Assistente Sociale, che l’avvocato poi si sarebbe dovuto relazionare con lei. S. traduce e F. scuote la testa. L’Ass. Sociale innervosita, dice: “che ha da dire no, questo?” S. spiega che F. vuole scegliere l’avvocato e seguire lui la sua pratica. Sarà lui a parlargli direttamente, non vuole che l’Ass Sociale ci parli. Allora l’Ass. Sociale dice che se lui non vuole che lei ci parli, se ne dovrà andare dal “campo”, quello è il suo lavoro, lei è là per aiutarli. Dopo la traduzione, F. sta per uscire dall’ufficio, S. lo ferma e gli chiede per il suo bene di ringraziare l’Ass. Sociale. F. si volta e dice in inglese nigeriano che non vuole e non deve ringraziare nessuno.
Nella maggior parte dei casi, se un Ospite si reca in ufficio per sollevare un problema sanitario, che sia mal di testa, pensieri, o malessere generale vengono concesse senza alcun riguardo bustine di ibuprofene oppure la risposta è ancora una volta quella di pazientare. Secondo lo staff infatti tali richieste vengono fatte per attrarre l’attenzione e distrarli dal loro lavoro. Alcune volte è l’Ass. Sociale a formulare una cura con le medicine a disposizione. Una volta è stato somministrato dal Responsabile del centro ad un ragazzo un farmaco per la gastroenterite che ha generato una diarrea.
Quando gli Ospiti chiedono di voler andare dal medico molto spesso gli Operatori si inventano scuse per non accompagnarli (es. “non posso, non c’è la macchina”) oppure rimandano al giorno dopo. E così anche il giorno successivo. In generale è l’Ass. Sociale (cui spetta la gestione dell’intero centro e del lavoro dei colleghi) che decide se vale la pena o meno assecondare le richieste fatte. Nel caso della reiterata domanda di una visita medica susseguita da costanti rinvii, l’Ass. Sociale ha risposto: “non vedi che sto lavorando, non mi sembra che tu stia morendo!”. Così anche quando il medico fa delle richieste sanitarie per degli accertamenti sullo stato di salute del paziente-Ospite, come nel caso dello screening sanitario iniziale, che per prassi e sicurezza devono fare tutti i nuovi arrivi, è l’Ass. Sociale che decide quali analisi fare o meno.
Dopo le visite mediche effettuate, raramente viene tradotto all’Ospite cosa il medico ha detto riguardo al suo problema, gli viene unicamente spiegato, in caso debba prendere dei medicinali, che deve recarsi in ufficio tutte le volte che deve assumere i farmaci prescritti. L’approccio allarmista scatta in caso di diagnosi “grave e infettiva” fatta e percepita dagli operatori.
Durante la mia permanenza mi è capitato di accompagnare D. (Ospite arrivato alla fine di luglio) in ospedale perché aveva dolore ai testicoli. Il medico mi ha chiesto di consegnargli i risultati dell’analisi delle feci per considerare o scartare l’eventualità di una schistosomiasi. Nonostante la richiesta di tale analisi fosse stata avanzata dal medico generale un mese prima, le analisi non erano mai state effettuate. Al mio ritorno al centro ho raccontato all’Assistente Sociale quello che il medico aveva detto. Il giorno dopo la notizia diffusa era che D. aveva la schistosomiasi. Allo stesso Ospite dopo aver fatto delle analisi era stato confermato di essere affetto da Epatite A. Il giorno dopo dalla conferma, gli Operatori nell’ignoranza più totale avevano seminato il panico anche tra gli Ospiti che lo evitavano come se l’epatite fosse contagiosa al tatto.
Per quanto riguarda il pocket money le visite sono dovute al ritiro, mentre per quanto riguarda il vitto, le visite all’ufficio da parte degli abitanti del Centro sono mosse da lamentele. Sono continue infatti le critiche sul cibo sia per la bassissima varietà che per la scarsa qualità. A questo tipo di visite aggiungo anche quelle dovute alla richiesta di beni per l’igiene (lamette e schiuma da barba, sapone, shampoo, bagnoschiuma, crema idratante ecc) e vestiari. I primi sono contenuti in delle scatole in ufficio. Al momento della consegna viene segnato su un pannello, in cui sono riportati tutti i tipi di bene per l’igiene, la data del giorno corrente e il numero identificativo dell’Ospite richiedente. Per quanto riguarda la consegna dei vestiti, invece, si tratta più che di richieste, di lamentele lecite. Ad esempio, sono state fornite scarpe chiuse ed un secondo ricambio (una maglietta e un paio di pantaloncini) dopo 3/5 mesi dall’arrivo, dopo varie sollecitazioni da parte dei richiedenti. Gli Operatori e in specie il Responsabile del Centro tendevano a rinviare a infiniti “domani”.
La relazione tra gli Ospiti e l’Ass. Sociale è basata sulla assoluta mancanza di fiducia da parte degli Ospiti. A qualunque sgarro che gli Ospiti facciano o risposta poco piacevole che diano nei suoi confronti, lei ricorda sempre quanto sia merito suo tutto ciò che hanno ottenuto, come se non fosse un loro diritto. Inoltre è usatissimo il ricatto verbale e psicologico espresso con la frase “se non ti comporti in un determinato modo io non ti faccio i documenti”. Queste sono solo dinamiche risultanti all’occhio esterno, se ci soffermiamo di più ad analizzarle osserviamo che esistono delle sub-dinamiche.
La zona grigia delle sub-dinamiche dell’in-contro
Sarebbe superficiale fermarsi alle descrizioni degli incontri riportati nel paragrafo precedente. In realtà, questi momenti, anche senza logiche intenzionali, hanno evidenti ripercussioni sociali sugli individui, a seconda della posizione che ciascuno di loro occupa nei rapporti di potere, in relazione alle proprie capacità di resilienza o di fragilità. Queste sub-dinamiche, seppur non visibili, sono forse più importanti di quelle visibili perché hanno il potere di variare e compromettere l’auto percezione del “sé”. Mi avvarrò delle analisi di due importanti studiosi di scienze sociali che hanno indagato su questo tipo di dinamiche e di istituzioni: Erving Goffman e Philip Zimbardo.
La rappresentazione derivante dal concetto di aiuto umanitario, dalla retorica dei media sui migranti assimilati a vittime impotenti ed esseri passivi da aiutare e “riempire” di “civiltà” e cultura, trasforma la logica dell’accoglienza da discorso politico ad una mera faccenda umanitaria. Questo non è che l’incipit di un circolo vizioso che ha caro prezzo sull’identità stessa del migrante e in maniera indiretta anche sull’operatore. Un conflitto costante e strisciante tra l’identificazione nell’etichetta di vittima e le microresistenze sia con l’esterno che con se stesso, può degenerare in un processo di «mortificazione del sé» (Goffman, 1961) e ricostruzione di un sé distaccato da quello in cui ci si riconosce. Questo è il prezzo che paga l’immigrato in un’istituzione di questo genere. Come sostiene Goffman:
«La recluta entra nell’istituzione con un concetto del sé, reso possibile dall’insieme dei solidi ordinamenti sociali […]. Ma non appena entrata, viene immediatamente privata del sostegno che un tal tipo di ordinamenti gli offriva. […] La recluta è sottoposta a una serie di umiliazioni, degradazioni e profanazioni del sé che viene sistematicamente, anche se spesso non intenzionalmente, mortificato. Hanno così inizio dei cambiamenti radicali nella sua carriera morale […]».
Processi di mortificazioni del sé
La prima mortificazione è segnata dall’isolamento, quindi dalle barriere fisiche che un’istituzione tende ad erigere fra la recluta e il mondo esterno. Questo isolamento fisico è necessariamente legato all’inizio di una lenta “morte civile”. Il mondo esterno si presenta, anche se raggiungibile dagli Ospiti, come impassibile alla loro presenza. Sembra piuttosto accorgersi di loro solo per le necessità essenziali (visite mediche, commissione, polizia), ma nella maggior parte dei casi la relazione tra loro e il mondo è costantemente mediata o faticosa. Non è un caso infatti che le persone passino la maggior parte del tempo al loro smartphone, unica finestra che li tiene in contatto con la realtà e con la loro famiglia. Un altro tipo di “mortificazione del sé” è allora quello di essere adulti, vivere in un centro che ti concede libertà di azione e non essere più capaci di gestirsi il proprio tempo e la propria, di fatto, “non-prigionia”.
Il secondo processo di mortificazione e perdita, simultaneo al primo, è quello del processo di ammissione: scrivere la propria storia, rispondere a domande, fare lo screening iniziale, ma soprattutto, passare il “test di obbedienza”. Per ottenere una serie di informazioni lo staff necessita un approccio collaborativo da parte della recluta, se quest’ultima si rifiuta o pone delle resistenze alle richieste dello staff allora questo provvederà, attraverso i ricatti verbali (nel nostro caso) a punire le scelte di rifiuto della recluta fino alla sua resa.
«[…] Così il nuovo arrivato si lascia plasmare e codificare in oggetto che può essere dato in pasto al meccanismo amministrativo dell’istituzione, per essere lavorato e smussato dalle azioni di routine» (Goffman, 1961: 46)
In questo processo la recluta inizia, attraverso istruzioni formali e informali, a capire qual è il «sistema dei privilegi» ovvero quel sistema su cui riorganizzare la relazione di quella che è la percezione del proprio sé. Questo sistema è quell’insieme di regole formali ed esplicite proprie dell’istituzione che l’internato deve rispettare per continuare a vivere al suo interno e che definiscono quali sono i suoi bisogni. Tale sistema è accompagnato da una serie di privilegi o compensi in cambio dell’obbedienza, dell’obbligo al rispetto e alla deferenza nei confronti dello staff.
Questa struttura proposta nei ricatti verbali o fisici dello staff ammorbidisce e orienta i comportamenti delle reclute. All’interno del Centro, per esempio, l’Ass. Sociale chiede spesso agli Ospiti di pulire la sua auto. Loro eseguono, anche solo per non mettersi contro di lei, perché la loro percezione è che lei ha in mano le loro vite in quanto gestisce i documenti e le pratiche per ottenerli. Inoltre è in base ai comportamenti individuali e sul rispetto di questo sistema, ma soprattutto sul grado di obbedienza mostrata dalle reclute, che lo staff divide gli Ospiti in quelli “bravi e buoni” e quelli invece di cui “non fidarsi” (es. “quello è una testa calda”).
Un altro tipo di mortificazione del sé è quello di dover implorare, importunare, domandare umilmente per ottenere piccole cose, problematiche che nella vita normale la recluta era capace di risolvere da solo, come nel caso di chiedere di andare dal medico o accertarsi sulla sua salute. Ma ancora di più è mortificante saper di non essere considerati o essere trattati con espressioni verbali o gesti di disprezzo. Ad esempio, quando lo staff parla della recluta come se questa non fosse presente, quando lo prendono in giro o non rispondono ai saluti.
Martedì 30 agosto 2016
T. non viene mai in ufficio. Ha 24 anni e viene dal Pakistan, ha una faccia docile e non fa mai sentire la sua voce. Non parla né inglese né italiano. Oggi si è presentato più volte in ufficio, l’Ass. Sociale lo manda via sempre e sbuffa quando lo vede. Alla fine della giornata lavorativa (13:30) rientro in ufficio e trovo T. che poggia la schiena al muro e guarda in terra tenendo le mani riunite all’altezza del pube; di fronte a lui l’Ass. sociale ride. Entro e chiedo cosa è successo (forse sbagliando), e l’Ass sociale gesticola ridendo imitando con le braccia un’erezione. T. se ne va dalla stanza credo alquanto imbarazzato e io quanto lui [4].
Un’ulteriore forma di mortificazione legata alla precedente è il fatto di praticare una routine o delle pratiche le cui implicazioni simboliche sono incompatibili con la percezione del sé che la recluta aveva prima di entrare nell’istituzione. Quello che più si realizza all’interno delle istituzioni come i CAS è un processo di infantilizzazione della recluta.
Giovedì 4 agosto 2016
Oggi ho chiesto di poter restare il pomeriggio. Così quando l’Ass. Sociale se ne va, mi dirigo verso le casette. D e C mi dicono di avvicinarsi verso casa loro e mi offrono un pezzo di anguria. Chiedo ai due nuovi arrivati, quali sono state le loro prime impressioni quando sono arrivati nel “campo”. Mi dicono che non avrebbero mai immaginato che sarebbero arrivati lì. Dicono che qualcuno li dovrebbe aiutare. C. non parla tanto, ma questa volta prende la parola. Mi dice che io oggi gli ho detto a scuola che deve andare lentamente e che deve fare le cose tante volte, piano ma tante volte per capirle. Lui dice che non ha spazio nella sua testa per imparare l’italiano perché la sua testa pensa a quello che ha lasciato indietro: una moglie e due figli, anzi tre. Durante la traversata sua moglie ha partorito la sua ultima figlia. Mi dice in francese: “tu pensa che io ho messo al mondo tre figli che non potrò educare, mentre io sono qua, ho quasi trent’anni e sono tornato un bambino. Sono in un posto dove mi danno da mangiare, sono tornato a scuola, dico mi fa male qui, mi fa male là e aspetto che qualcuno si interessi di me. Sono come un bambino che deve essere educato ed accudito anche se nessuno si prende cura di me. Nel mio paese sono adulto e se ho qualche problema, lo risolvo, qua invece devo chiedere agli adulti se possono risolverlo”.
Esiste ancora una forma di mortificazione delle istituzioni che Goffman chiama «esposizione contaminante» che comincia al momento dell’ammissione. L’individuo prima dell’ingresso nell’istituzione può contare su oggetti che gli danno la percezione del sé- il suo corpo, le sue azioni immediate, i suoi pensieri e le espressioni che li comunicano. Nelle istituzioni come il CAS, questi territori sono violati, la frontiera del sé come persona e ancor più come adulto viene invasa come nel caso di problemi fisici, documenti, storia personale, gestione del mangiare e delle medicine.
Giovedì 25 agosto 2016
Arrivati al centro M. (il mediatore) è già operativo, sta pulendo l’ufficio e ha già la faccia stanca. Fuori sono seduti alcune persone che abitano il campo. Lasciamo che M. finisca di dare lo straccio in ufficio e che si asciughi il pavimento. Io mi siedo tra loro, chiedo come stanno. Non bene. Quando lo dicono girano l’indice come sempre. Il dito non è rivolto verso l’alto come per indicare un mal di testa, la punta del dito è rivolta verso la testa come quando si vuole indicare una pazzia, un pazzo o la testa piena di pensieri. Poi JP (40 anni) inizia a discutere, dice che a lui non interessa se il mangiare non è buono, se non ha vestiti. Dice che è sempre stato bravo, non ha preso parte alle proteste ma due cose gli interessano: essere rispettato perché è una persona e non è stupido, perché non è un bambino. Mi ricorda che un giorno l’oculista gli aveva dato delle gocce da mettere e all’ufficio gli hanno detto che doveva venire due volte al giorno e che gliele avrebbero messe loro e lui si era arrabbiato dicendo che non era un bambino e che sapeva gestirsi: niente da fare sarebbe dovuto recarsi là tutti i giorni per tre volte al giorno per quindici giorni. Dice che i bianchi trascurano la salute, poi aggiunge che stanno migliorando nell’ultimo mese ma prima era ancora peggio.
Infine la mortificazione che Goffman chiama “circuito”. Infatti una reazione di difesa da parte della recluta al sistema di regole imposte genera il bersaglio successivo di una ulteriore mortificazione.
«L’individuo prova che la reazione difensiva agli assalti del sé cui è soggetto, viene divorata dalla situazione: nel senso che egli non può difendersi nel modo abituale, stabilendo una distanza fra sé e la situazione mortificante» (Goffman, 1961: 64).
Solitamente quando un individuo è costretto ad accettare delle imposizioni esterne che contrastano con la sua percezione del sé, nella società ha un margine di difesa che pur si tratti di un’espressione facciale che esprime dissenso. Non è il caso della nostra istituzione. Spesso quando gli Ospiti vengono in ufficio, l’Ass. Sociale o non saluta oppure richiede loro di essere sorridenti e, dopo varie richieste fuori luogo sul sorridere ed essere contenti, loro se ne vanno offendendola nella loro lingua (tanto non li capisce). Il dover trattenere la loro tristezza è una forma di indebolimento della propria autodeterminazione.
Queste dinamiche sono realizzate dallo staff, talvolta coscientemente talvolta inconsa- pevolmente. L’approccio alla vittimizzazione messo in atto dallo staff ha inizio già dall’arrivo della recluta nel “campo”. Infatti lo staff presuppone che l’Ospite sia «il tipo di persona per il cui trattamento l’istituzione è stata creata» (Goffman, 1961: 112). Un Operatore del personale inizia poi ad attivare dinamiche intrinseche di processi di mortificazione quando comincia a voler creare “distanza” con le reclute. È da tenere in considerazione, infatti, un particolare fondamentale, il fatto cioè che, in questo contesto, l’oggetto del lavoro sono persone, questo implica che a qualunque distanza si ponga il Personale, il materiale del suo lavoro può diventare oggetto di affetto, simpatia o comprensione. Il creare distanza e mantenerla significa per lo Staff presentarsi agli occhi della recluta in veste autoritaria.
Come si è detto, le sub-dinamiche dell’in-contro muovono dalla vittimizzazione dei migranti da parte della società. Questo processo passa necessariamente attraverso gli in-contri con persone che occupano ruoli di forza (operatori dei centri) e quindi innescano nel migrante processi di mortificazioni del sé. Il ciclo si conclude con l’accettazione dell’etichetta di vittima da parte dello straniero. La vittimizzazione esterna e la autovittimizzazione sono due dinamiche complementari che permettono la costruzione identitaria e definiscono i rapporti di forza dei due gruppi, Ospiti e “Personale”, anch’essi necessariamente complementari. Nella costruzione di identità e ruoli queste dinamiche si influenzano reciprocamente, proiettando l’obiettivo ufficiale dell’istituzione verso un fine perseguito in ogni azione dello staff: agire per controllare e difendere l’equilibrio e l’esistenza stessa dell’istituzione.
È da considerare infine che il processo di autovittimizzazione può essere visto come una forma di resistenza, che avrà comunque effetti sul “sé” a lungo andare. Riporto di seguito le parole di un Ospite incontrato al CAS che spiegano bene la forma di resistenza: «Siamo qui perché noi serviamo a loro e loro servono a noi. Noi siamo soldi e loro sono documenti».
Va precisato che non ci sono buoni o cattivi per natura, sono le condizioni che portano a definire identità nei ruoli e comportamenti. È chiaro che per comprendere quanto detto, non è possibile ignorare le macrodinamiche attuali e l’atteggiamento degli organi politici alle migrazioni, le cui conseguenze creano il mondo di azione in cui entrambi i gruppi agiscono/subiscono e perpetuano pratiche in dinamiche micro. Come sostiene Zimbardo, infatti, ciò che determina e induce un individuo ad agire con modalità non conformi ai suoi comportamenti abituali sono le condizioni situazionali in cui questo si trova ad agire. Secondo lo studioso sono sei i processi sociali che possono attivarsi e indurre un individuo a comportarsi in tal modo:
-De- umanizzazione degli altri;
- l’Anonimizzazione di se stessi;
- l’Allentamento della responsabilità personale e diffusione delle responsabilità;
- l’Obbedienza cieca all’autorità;
- Il Conformarsi acriticamente alle norme del gruppo;
- La Tolleranza passiva del male attraverso l’inazione o l’indifferenza.
Queste pratiche entrano in gioco quando ci troviamo in una situazione nuova e gli schemi abituali di risposta non funzionano, la personalità e la moralità sono scollegate (Zimbardo, 2008). Troviamo nei comportamenti degli Operatori tutti questi processi attivi. Il primo è realizzato in diverse forme, specialmente dalla sostituzione per l’immigrato di un numero al suo nome. Il secondo invece avviene quando lo staff inizia ad identificarsi come un gruppo contrapposto ad un altro debole e riveste quindi un ruolo di superiorità e di forza. L’identificarsi nel gruppo significa assumere atteggiamenti, accettare regole, distaccarsi dalla propria moralità e autonomia di azione, dunque sentirsi partecipe e portatore di prassi oggettive e ordinate dall’alto che in alcun modo possono essere variate. L’impossibilità di decidere modalità di azione e sentirsi parte di qualcosa di più grande di sé anonimizza l’individuo.
Tutto questo genera una diffusione di responsabilità orizzontale e verticale. Per quanto riguarda l’orizzontalità è comune, all’interno del CAS studiato, da parte degli Operatori, a seguito di richieste fatte dagli Ospiti, indirizzare colpe e rimandi ai colleghi. Per quanto riguarda la verticalità, è quotidiano da parte degli Operatori sentirsi parte del sistema di accoglienza nazionale. Ma non di quella parte direzionale e decisionale, quanto piuttosto dell’ultima parte, quella impotente. Infatti, a seguito di alterazioni da parte degli Ospiti dovute a scelte del personale o della cooperativa che gestisce il Centro, gli Operatori si deresponsabilizzano dando qualunque tipo di colpa alle istituzioni superiori come la Prefettura o il Ministero. Da qui l’obbedienza cieca all’autorità che pervade tutti i piani di delega delle azioni, dal Ministero dell’Interno alla Prefettura, alla Cooperativa, al Responsabile, all’Ass. Sociale, agli Operatori. Specialmente ai piani più bassi della piramide non sono previste opposizioni agli ordini o proposte e alternative di azione.
Così è facile che l’Operatore si adatti a modalità che talvolta non sono conformi alla sua personalità anche quando si parla di violenza fisica e/o psicologica. Vedere quotidianamente pratiche negative e non conformi al proprio sé e rispettare l’autorità senza alcun tipo di critica significa alimentare la tolleranza passiva del male attraverso l’inazione o l’indifferenza. Ne consegue l’introiezione di queste pratiche e la loro ripetizione da parte dell’individuo che si sentirà giustificato nell’eseguirle perché gli è stato ordinato e perché anche i colleghi le replicano, senza apparentemente nessun tipo di colpa o dissenso.
Oltre a queste categorie di analisi aggiungerei il fattore economico per niente irrilevante. La crisi occupazionale che ci troviamo ad affrontare è un altro fattore macrosistemico che ha effetti su dinamiche micro. Il mantenimento del posto di lavoro porta necessariamente ad accettare modalità che, seppur non conformi con se stessi, sono funzionali ad apparire obbedienti ai propri datori di lavoro per risultare buoni lavoratori.
Quando ero a svolgere lo stage, tornando un giorno dall’ufficio immigrazione, un gruppo di Ospiti parlava in francese sul pulmino, commentando lo staff ed esprimendo un senso di malessere su come venivano trattati. Poi uno di loro ha preso le mie parti dicendo che non ero come gli altri “bianchi”. Allora un altro l’ha corretto dicendo che, se avessi preso uno stipendio, mi sarei facilmente adattata alle modalità usate dagli altri “bianchi” del “campo”.
Devo dire che durante gli ultimi giorni della mia esperienza mi sono meravigliata di me stessa in senso negativo. Il mio occhio di osservazione si stava piano piano addormentando: cose che mi stupivano al mio arrivo come un urlo o lo “spaccio” di bustine di ibuprofene erano diventate la normalità. Ad atteggiamenti negativi che osservavo, nessun campanello di allarme suonava nella mia testa, anzi talvolta mi omologavo seppur con riguardo rispetto agli altri alle pratiche che vedevo quotidianamente e che inizialmente consideravo negative. Le pratiche negative si apprendono molto più facilmente di quello che ci si aspetta e senza alcun tipo di impegno. Sono le pratiche positive e virtuose invece che necessitano di confronto e dedizione, ascolto, uno sforzo di riflessione e rispetto per se stessi e gli altri. L’atteggiamento emergenziale dilagante dal macrosistema al micro nell’ambito delle migrazioni non permette la realizzazione delle buone pratiche, è molto più facile cadere nelle pratiche negative e di bassa qualità. Inoltre sono estremamente funzionali, in quanto contribuiscono al raggiungimento dell’obiettivo dell’istituzione: il mantenimento della sua stessa esistenza attraverso il tenere a bada gli Ospiti.
Dialoghi Mediterranei, n.24, marzo 2017
Note
[1] Nel testo sarà usata la parola ospite per indicare le persone che sono internate all’interno del Centro di Accoglienza, non si vuole fare alcun riferimento al concetto che in italiano il termine ospite esprime.
[2] Da un’intervista risulta che gli Ospiti del Centro utilizzano perifrasi per indicare i propri alloggi e non la parola casa.
[3] D. (ospite del Centro) ha 24 anni ed è alto 1.80 circa. Non si lamenta mai del cibo, ma quando è capitato di andare dal medico chiedeva sempre di pesarsi e ci faceva notare che stava perdendo decisamente peso.
[4 ] T. chiedeva di poter andare da un urologo perché aveva un problema al pene.
Riferimenti bibliografici
Erving Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza (1961), trad. it. Einaudi, Torino 2010.
K. Lewin, Resolving social conflicts: selected papers on group dynamics, Harper & Row, New York, 1948.
Philip G. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa, Raffaello Cortina, Milano 2008.
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Carolina Galli, laureata in Sviluppo economico, cooperazione internazionale socio-sanitaria e gestione dei conflitti presso l’Università degli studi di Firenze, ha recentemente completato il Master in Immigrazione, fenomeni migratori e trasformazioni sociali presso l’Università Cà Foscari Venezia. Durante gli studi ha conseguito esperienze di volontariato e tirocinio presso il Centro Regionale interculturale “Anelli Mancanti Onlus” (Firenze), “Help refugees in Gaziantep” (Turchia), e presso un Centro di Accoglienza Straordinaria a Mazara del Vallo. Frequenta il corso di laurea magistrale in Lavoro, cittadinanza sociale e interculturalità presso l’Università di Cà Foscari a Venezia.
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