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Non è romantico il lieto fine, è politico

da C'è ancora futuro

da C’è ancora domani

di Chiara Lanini 

Straordinario il successo del film di Paola Cortellesi, che, evidentemente, è riuscita a catalizzare lo spirito del tempo. Molto si è detto, si è scritto, si è commentato. Del resto, nella capacità di moltiplicare significati anche oltre e al di là delle intenzioni di chi l’ha prodotta si rivela la generatività di un’opera, un oggetto vitale che esprime la propria azione nel mondo, oltre la sua concezione.

Il film si presta a livelli di lettura diversi. Quello più letterale racconta di una donna, di una famiglia, di un sistema di relazioni fondato su un ordine di genere tanto violento quanto legittimo e naturalizzato. La stessa autrice, commentando, sottolinea come per la protagonista iniziare la giornata con uno schiaffone fosse del tutto normale, del resto la patria potestà, il matrimonio riparatore e il delitto d’onore: circostanze attenuanti la gravità di un reato contemplate dalla legge fino al 1981. Con un chiaro riferimento al linguaggio neorealista, Cortellesi evoca frammenti di memoria in bianco e nero che potrebbero sollecitare il ricordo di mamme e nonne, ma anche senza riconoscere nella protagonista le parvenze di una figura familiare sappiamo bene di essere figli, figlie o nipoti di una cultura che faceva di questa una storia come tante, da rubricare, al limite, come esempio di un destino non proprio fortunato.

iccd11586983_13174_ve-48867Del resto, in mezzo secolo attraversato da due guerre e un regime che del corpo delle donne aveva fatto un dispositivo al servizio della «potenza demografica del Paese» (La Banca, 2007:160), c’era poco da pretendere. Infatti, la storia, fino a un passo dalla fine, sembra riproporre la liturgia che prescrive alle donne un buon matrimonio quale unica chance per sperare in una vita decente, economicamente ma non solo, come chiosa il coro delle donne del cortile e come rilanciano le paternali del suocero Ottorino, che rimbecca il figlio richiamandolo a dosare con maggior saggezza il bastone e la carota, per ottenere dalla moglie una ancor più docile obbedienza. La stessa figlia Marcella, che pure pare consapevole di ciò che gli altri sembrano ignorare, è candidata a un buon matrimonio quale miglior destino a cui aspirare. Noi stessi, spettatrici e spettatori, partecipiamo della speranza di un’alternativa anche per Delia, che, un indizio dopo l’altro, vediamo comporsi nella prospettiva di un uomo migliore, un altro amore, quello che sarebbe stato se alla medesima lotteria il biglietto scelto fosse stato quello giusto. Aderiamo, complice la regista che fa tutto per sviarci, al canovaccio che vede la salvezza di Cenerentola in un principe che la porta via, un po’ malmesso in questo caso, ma buono, gentile, amorevole, il perfetto antagonista del marito violento.

locandinaPierre Bourdieu, con altri, ha analizzato a fondo questo modo di agire del potere, che funziona quando viene interiorizzato anche e soprattutto da chi lo subisce, determinando il normalizzarsi di una logica che lo studioso descrive come forma di sottomissione tanto paradossale quanto straordinariamente ordinaria, una forma di dominio che si esprime attraverso una violenza simbolica di cui proprio il dominio maschile (Bourdieu, 2021) è paradigma, ma non l’unica declinazione possibile. Per inciso, un altro film uscito quest’anno rende perfettamente visibile, attraverso una regia magistrale, la violenza simbolica: Kafka a Teheran. In C’è ancora domani, la violenza, in realtà, è piuttosto esplicita, sebbene una scelta stilistica anti-didascalica la trasfiguri in un balletto che ben rende il ripetersi di un evento che diventa una routine di poco conto e come tale viene percepita. Si determina così uno stacco emotivo e narrativo che ci fa resistere alla seduzione di sprofondare nel pathos del dettaglio morboso, cui tanto pessimo giornalismo ci ha abituato catturando tutta l’attenzione di chi guarda per distoglierla dalla sostanza del tema generale.

Detto questo sul piano della storia, lo spessore di questo film si esprime, a mio avviso, in due operazioni particolarmente interessanti che riguardano l’uso del tempo storico e del frame narrativo.

Cortellesi, infatti, guarda al passato per rivolgersi al presente, per parlare a noi e di noi, suscitando un coinvolgimento insolito per un’opera che riguarda, solamente, una vicenda lontana. Adottando una lente contemporanea, infatti, riesce a produrre una sorta di strabismo dall’effetto perturbante, a partire dall’ambivalenza che si gioca fra ciò che è facile collocare in un mondo superato e un richiamo all’attuale che non può essere rimosso.

1831945Oltre a questo, la scintilla che infiamma questo film sta, a mio parere, nel finale, ovvero in ciò che l’autrice riesce a fare delle categorie di chi guarda, agendo fra seduzione e spiazzamento. Se il finale romantico che da spettatori stavamo immaginando si fosse realizzato saremmo rimasti nel frame classico di una vicenda, una protagonista, un conflitto fra bene e male, che si risolve senza intaccare la logica nella quale si produce la cultura raccontata dal film. La storia, invece, ci spiazza, perché Delia, che evidentemente ha un progetto che pensiamo trasgressivo mentre invece è sovversivo, non prepara il vestito buono per la fuga d’amore cui sembrava alludere il susseguirsi di indizi fuorvianti, ma per andare a votare, per la prima volta, come tutte le altre che vengono invitate a togliere il rossetto prima di sigillare la scheda.

La soluzione del dramma non si dà nella stessa cornice, ma la apre, la supera, la rompe. Non è dentro il sistema di una relazione migliore che risiede il superamento della soggezione ma nella soggettivazione all’interno di una cornice più ampia e più sociale, quella della cittadinanza. Olimpia Capitano a tal proposito, in un bell’articolo comparso su Jacobin (1° dicembre 2023), parla di come una tradizione fortemente radicata nella nostra cultura abbia reso lo spazio privato il luogo di un dominio fondato sul presupposto della dipendenza – il lavoro domestico è storicamente considerato un lavoro non propriamente produttivo – che legittima l’esercizio naturale di relazioni asimmetriche, nonché l’esclusione dallo spazio pubblico e dal contratto sociale: 

«La casa continua, dunque, a precludere l’accessibilità alla cittadinanza. Donne a servizio e donne padrone vivono così una forma di uguaglianza al ribasso: le due figure femminili sono accomunate dall’esclusione dai diritti politici e il genere diventa (quasi) l’unico elemento decisivo nel precluderne o permetterne il godimento. Si tratta di una trasformazione di estrema rilevanza in una prospettiva di storia di genere, definibile come femminilizzazione della dipendenza – ossia la tendenza sempre più marcata, nel XIX e in una parte del XX secolo, a considerare e costruire la dipendenza come condizione tipica delle donne piuttosto che degli uomini, tendenzialmente visti e costruiti come individui indipendenti. La figura della dipendenza resta, ancora una volta, confinata in casa». 

Uno dei tanti indizi che ci portano nella direzione sbagliata è la lettera che Delia riceve, indirizzata a suo nome, con l’invito a partecipare su questioni che fino ad allora non la dovevano riguardare. Sembra che stia organizzando un tradimento, una fuga, un’evasione, ed effettivamente è così perché esce dallo spazio della casa per prendere parola in quello pubblico. Non si può dire che oggi quello stesso modo, in cui tanti e tante non si riconoscono più, abbia lo stesso significato, ma a maggior ragione ci parla l’atto di sovvertire la logica che esaurisce il senso dell’agire soggettivo entro l’ordine del privato o al massimo della più vicina prossimità, per iscriverlo in una dimensione pubblica, sociale, collettiva e politica.

news-violenzadonne_bigIl messaggio potente di questo film, a mio avviso, non sta tanto nel farci più consapevoli della storia naturale della quale siamo figli, ma nell’indicarci, spiazzandoci, la via di uscita. Quando Delia, uscendo dal seggio, trova il marito furibondo e minaccioso è la folla di tante e tanti che cantano con lei, a bocca chiusa ma cantano, a segnare la sconfitta di quell’ordine patriarcale.

Mentre il film scalava la vetta di incassi e premi, l’ennesimo femminicidio ha catalizzato la nostra attenzione e richiamato un dolore e una rabbia forse senza precedenti. Questa volta ha riguardato due ragazzi troppo giovani, troppo studiati, troppo simili a tanti dei nostri figli e figlie per permetterci quella distanza che ci difende facendoci pensare che per qualche motivo questa storia non ci riguardi davvero. Lui non voleva che nessuno, nemmeno il destino li potesse separare, come canta la colonna sonora del film. Forse, al di là e oltre la coscienza, è ancora necessario rompere un paradigma, quello che oggi ci vede frammentati, antagonisti, competitivi e soli nel mondo sociale tanto quanto fragili e chiusi in quello privato, rifugio e baluardo di compensazione entro il quale permanere in istanze tanto simili a quelle che governano relazioni primarie, così difficili da superare in un mondo dove non è affatto affascinante andare a votare.

In questo senso, c’è ancora domani, ma c’è molto da fare. 

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Riferimenti bibliografici 
Capitano, O (2021), Schiave, serve, lavoratrici domestiche, in “Jacobin Italia”, 1° dicembre 2021
Bourdieu, P. (2021), Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano
La Banca, D. (2007), La Giornata della madre e del fanciullo: un esempio di propaganda fascista, in “Genesis: Rivista della Società Italiana delle Storiche”, A. VI – N. 1, 2007, Roma, Viella. 
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Chiara Lanini, pedagogista, operatrice sociale, Phd in Scienze Sociali presso Disfor-Unige, curriculum Migrazioni e Processi Interculturali. Dal 1995 ad oggi lavora in ambito educativo, è cultrice della materia presso le cattedre di Sociologia della Famiglia e di Sociologia dell’educazione e docente a contratto di Sociologia dei Media presso il Corso di Laurea in Media, Comunicazione e Società dell’Università di Genova.

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