CIP
di Vincenzo Padiglione [*]
Ringrazio per avermi invitato il direttore Mario Turci, il Comitato Scientifico e gli amici del Museo Guatelli. Non si tratta di un gesto di ringraziamento solo formale. Vorrei segnalare l’ottimo e pertinente lavoro di conservazione e valorizzazione che è stato svolto nella casa di Ettore interpretando al meglio la sua eredità. Difficile rendere vissuta e credibile una casa museo ancor di più la casa di un collezionista estremo, come fu l’amato Ettore.
I collezionisti di successo divengono da defunti eroi culturali con evidenti rischi di imbalsamare una vita sui generis. Non è facile evitare di trasformare le case porose (viene a fagiolo la categoria di “porosità” attribuita da Walter Benjamin al tessuto sociale e architettonico di Napoli) in musei fatalmente un po’ algidi. Difficile sottomettere un disordine operoso ad una museografia necessariamente un po’ razionale. E vale ricordare il doppio passo del Maestro Guatelli nei confronti di cose povere e malandate. Sempre ingordo, talora rapace e al tempo stesso caritatevole, pronto ad accoglierle nella sua raccolta come se fossero orfani in un Asilo (un gesto che ho visto solo nel romano Domenico Agostinelli). Merito di Mario Turci e del comitato scientifico del museo Guatelli l’aver mantenuto la casa museo porosa, il suo paesaggio barocco frutto di una passione scientifica e civile che era anche ironia e gioco (vedi le opere improvvisate).
E ringrazio ancora Mario Turci per avermi invitato a realizzare al Museo Guatelli un’installazione che pretendeva di riflettere proprio sulle narrative che gli stessi collezionisti estremi come Guatelli si raccontano per comprendere e legittimare il loro l’impegno. Era denominata InBilico tra le rovine (Ozzano Taro 2018) e metteva al centro dell’analisi la visione del collezionista che come un funambolo si muove sull’abisso, visione in parte prefigurata da W. Benjamin, anche lui collezionista. Insomma nel ringraziare la esemplare opera che è stata fatta al Guatelli mi sono permesso far emergere una certa distanza dai modi in cui vengono presentate senza anima le case museo.
Cerco di chiarire il mio discorso. Un meritorio ri-uso delle case museo è per me quello intrapreso dal Freud Museum London – The Home of Sigmund Freud. L’artista concettuale Sophie Calle nel febbraio del 1998 è stata invitata a creare nell’ultimo e definitivo soggiorno inglese di Freud (sede del Museo 20 Maresfield Gardens, London), un’esposizione intitolata– Appointment, 12 February 1999 dal 28 Marzo 1999. Nell’accettare l’impresa la Calle ricorda di essere stata immediatamente convinta da un’anticipazione avuta, dalla “visione” del suo abito da sposa disteso sul lettino divano dove Freud usava far sdraiare i suoi pazienti. «Scelsi di esporre – scrive l’artista francese – le reliquie della mia vita all’interno della casa di Sigmund Freud». E così fece, infrangendo con evidenza quell’implicito tabù che regola il senso della realtà nelle case museo: l’ordine fattuale e temporale delle cose lasciato dal suo defunto proprietario non deve essere violato. Come se la casa che ora vede il visitatore fosse integralmente identica a quella lasciata dallo scomparso famoso abitante.
E invece alle autentiche legittime reliquie di Freud Sophie Calle spudoratamente aggiunge disseminandole le sue cosine. Sovrappone altre storie dissonanti. Oltre l’abito nuziale, colloca nella casa del padre della psicoanalisi altri piccoli oggetti personali: densi e misteriosi. Li considera punti di interrogazione, oracoli (es. dadi da gioco: «Ho sempre desiderato che si prendessero decisioni per me»). Oggetti dispersi proprio nel mezzo della nota collezione di arcane antichità greche e egizie della quale Freud aveva passione e alle quali attribuiva lo stimolo ad oltrepassare costantemente il visibile. A completare la sua installazione Sophie Calle accosta la fotografia che la ritrae appena fuori della casa londinese di Freud (ovvero dell’attuale museo) con indosso un soprabito grigio che per taglio e postura molto ricorda proprio Freud in una foto degli anni 30 mentre passeggia nello stesso giardino.
Appuntamento, il titolo dell’exibit, mostra che qualcosa di atteso e al tempo stesso imprevisto si poteva generare. Al centro il fanta legame intrattenuto dell’artista (paziente?, parente?, psicologa pop?) con il padre della psicoanalisi Sophie forza in tal modo il suo ruolo, ambisce ad un’intimità impossibile. E, mentre la lascia immaginare, la esibisce come risultato del suo stare lì compiendo gesti familiari previsti: incorporandoli, ritualizzandoli, pur nella fatale distanza temporale e culturale tra Freud e lei.
Un Mimetismo ironico, parodistico? Forse qualcosa di più. Una Ripetizione “giocata” che evoca il Bambino del Rocchetto (un noto caso clinico, cfr. Freud, de Martino, Obeyesekere,) e di fatto convoca la nozione aurea di Perturbante, quale indicatore di un’inattesa presenza viva de/negli oggetti esposti. Sia quelli di Sigmund che di Sophie, che non possono essere considerati, entrambi, relegabili al passato, cose banalmente inermi. Nella poetica espositiva li possiamo invece immaginare agenti, attivati nel qui ed ora, come le associazioni verbali nel setting clinico. Dunque la Calle ci propone un “vero” incontro scaturito dall’Appuntamento con tanto di con fusione tra realtà e immaginazione.
Eccolo così, ben giocato, un esercizio antropologico e artistico, per me esemplare perché non chiude in un significato predefinito il valore della casa museo. Non prende a pretesto un’abitazione vissuta per farci scoprire chi era veramente il proprietario. Ovvero lo fa solo attraverso la prospettiva dell’ucronia, di un legame possibile inventato. Né tantomeno ci fa svelare di un grande uomo, la hidden agenda, quello che sotto sotto egli rivelerebbe visitando la sua casa: Il vero Freud, l’autentico genio, sorpreso in scarti, originariamente non pubblici della sua vita, in dettagli privati che si vorrebbe ora in grado di fornirci una rappresentazione non mediata e più autentica.
No. La casa museo, una abitazione che si fa esposizione, dovrebbe evitare di lasciar coltivare al visitatore errori epistemologici di questo tipo, l’illusione di visioni dal buco della chiave, ovvero di accedere ad una via privilegiata e più vera per semplificare la specificità della biografia culturale effervescente di chi la abitò. Dovrebbe evitare soprattutto il rischio di confondere l’uomo con l’opera.
E poi – ma qui si aprirebbe una enorme esplorazione – ricordiamoci che il secolo passato ci ha insegnato la curiosità culturale per le biografie degli Umili, dei Diseredati, degli Altri. Un fronte solo in parte aperto dall’attivo movimento delle Case museo.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
[*] Testo dell’intervento presentato al Convegno presso il Museo Ettore Guatelli, 20-21 ottobre 2023, Ci sono case che sono musei, ci sono musei che sono case.
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Vincenzo Padiglione, professore ordinario MDEA/01 all’Università di Roma “La Sapienza”, ha tenuto sino al 2020 gli insegnamenti di Antropologia culturale, e di Etnografia della comunicazione presso la Facoltà di Medicina Psicologia, e insegna tutt’ora presso la Facoltà di Lettere, Antropologia museale nella Scuola di Specializzazione in Beni Demo Etno Antropologici, Museologia nella Scuola di Specializzazione in Beni Storico Artistici; e Antropologia culturale sia presso la Facoltà di Sociologia e sia presso la Facoltà di Medicina e Psicologia. Ha tenuto corsi in Spagna, Stati Uniti e Brasile. Ha svolto ricerche nell’area del Mediterraneo sull’identità locale e il patrimonio culturale, il brigantaggio, il familismo e la relazione uomo – paesaggio nella caccia e nella pastorizia. Ha curato il progetto e la realizzazione di numerosi musei civici ed è autore di diverse pubblicazioni. L’ultima sua opera è stata edita dal Museo Pasqualino (2020): Musei del sé. Etnografie di giovani in camera, (in coll. S. Settimi).
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