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Non sto zitta, io canto pure a bocca chiusa

da C'è ancora domani

da C’è ancora domani

di Annamaria Clemente 

Una stanza, una parete lercia, dei vestiti abbandonati su una sedia, e uno specchio dalla cornice lineare, una cassapanca addossata ad una pediera in legno, una coperta di lana e un uomo in canottiera seduto a braccia conserte, c’è una donna che dorme al suo fianco. Si sveglia, «Buongiorno Ivà!» in risposta una sberla a man rovescio e la prima rosa rossa è già sbocciata, canta in sottofondo Fiorella Bini, generando turbamento immediato mentre sullo schermo le immagini scorrono e la donna, insensibile all’urto ricevuto, allunga la mano verso il comodino cercando una spazzola dalle setole morbide come quelle viste mille volte sulle tolette a casa delle nonne.

Inizia in questo modo il giorno di Delia in C’è ancora domani, film interpretato, co-scritto (insieme a Furio Andreotti e Giulia Calenda) e diretto da una strabiliante Paola Cortellesi. Un film delicato e potente, necessario nell’incerto momento storico che stiamo vivendo, obbligatorio per non dimenticare quella che era, o è, la condizione femminile, imprescindibile per incrementare spazi di dialogo e critica intorno ai processi di negoziazione dei modi di essere donna ma soprattutto di poter essere uomo. 

È «una storia che ci riguarda tutti, con sfumature diverse di patriarcato. Magari non tutte hanno vissuto un rapporto così tossico con un uomo, o non tutti i figli hanno visto il proprio padre picchiare la madre. La maggior parte ha sentito un insulto, un “non vali niente”, un atteggiamento di sopraffazione, accettato per troppo tempo e che magari adesso risale. Ma chi non ha avuto queste esperienze in famiglia? Io non so di percosse nella mia, ma di “sta zitta” ne ho sentiti, e da un nonno dolcissimo con i suoi nipoti. Capisce il cortocircuito? Non ci sono solo i mostri, cattivi sempre. Vedo tanti uomini al cinema, uno mi ha detto: “Mi vergogno di far parte di questa categoria”, un altro: “Ho vissuto queste cose, ero bambino e si andava nell’altra stanza per non vederle”. C’è un comune denominatore evidentemente, se c’è tutta questa emozione» (cfr. Paola Cortellesi: «Le donne dicono basta», intervista di S. Bombino, 14 Novembre 2023, Vanity Fair, consultabile al sito http://www.vanityfair.it/article/paola-cortellesi-intervista-film-violenza-sulle-donne). 

Un comune denominatore, dichiara la Cortellesi, qualcosa che pur nel variare delle storie personali è presente in misura maggiore o minore, seppellito al fondo della coscienza e che la storia di Delia e delle donne che popolano l’universo di C’è sempre domani fa riaffiorare, in un rispecchiamento tale che potrebbe essere la storia delle nostre nonne, ma anche quelle delle nostre madri o ancora la nostra stessa storia. 

da C'è ancora domani

da C’è ancora domani

In un susseguirsi senza fiato di battute sessiste e discorsi svalutanti conosciamo Delia e la sua famiglia: il marito Ivano, interpretato da Valerio Mastandrea, uomo inetto e manesco, il suocero Ottorino, incarnazione della mentalità maschilista, la figlia femmina Marcella, bella e con un futuro ancora da vivere, i due figli maschi. La storia è ambientata nell’immediato dopoguerra, anno 1946, in una Roma ancora presidiata dalle truppe americane. Il mondo di Delia è tracciato da una limitata geografia: la casa, il cortile, il mercato e i cui confini sono tutti tracciati in corrispondenza del limitare del quartiere. Quotidianamente Delia si muove tra questi poli cercando di contribuire al bilancio familiare, improvvisandosi infermiera, sarta, operaia in un laboratorio di ombrelli, lavando i panni altrui. È una vita umile fatta di lavoro e fatica, di poca riconoscenza da parte del marito, ma di tanta speranza riposta intorno al destino della figlia femmina che potrebbe trasformare le sorti della famiglia, fino a quando una lettera ed una parola sconvolgono la traiettoria già tracciata.

Complice il bianco e nero e un’accurata attenzione scenografica quasi etnografica per la cultura materiale degli anni ’40 il film richiama il taglio documentaristico, ricorda i discorsi dei Comizi d’Amore di Pasolini e in effetti il film potrebbe  quasi porsi come un documentario dove diviene possibile osservare quella «macchina simbolica» (Bourdieu, 2015: 18) che muove il grande ingranaggio del patriarcato con la sua pedagogia, «non fare la femminuccia» e i mezzi con cui attua il dominio «nun je poi mena’ sempre, se no s’abitua. Una, ma forte!».

9788807884054_0_536_0_75Il film presenta la protagonista come assuefatta alla violenza, o meglio, Delia sembra inscrivere le azioni del marito Ivano nell’ordine naturale delle cose come se la condizione di assoluta subalternità, di svalutazione costante della propria figura di donna, del ruolo di moglie e madre, il continuo clima di sospetto aleggiante tra le mura domestiche, fosse la conditio sine qua non dell’essere donna, una condizione in cui Delia non è sola, ma è tratto caratterizzante tutti i rapporti uomo-donna proposti nel film. A casa del notaio, tra le tazzine e la teiera di porcellana fine, orecchiando i discorsi tra un padre e un figlio Delia sente, nel momento in cui la madre vorrebbe prendere parola, un: «Cara taci, non entrare in discussioni che non ti competono», o a lavoro di fronte all’apprendista che guadagna più di lei «Commendatore si può sapere perché quello prende più di me?» «Perché quello è omo», o ancora in merceria quando il rifornitore di bottoni e cerniere chiede alla merciaia la presenza di un uomo per firmare le carte, come se vi fosse nella donna una strutturale inferiorità che menoma le capacità intellettive, da sottolineare una meravigliosa Paola Tiziana Cruciani che con la sola presenza scenica e uno scambio di battute lapidarie fa intendere tutta la forza di emancipazione e coraggio di Sora Franca. La condizione di sudditanza è interclassista e visivamente evidente dal luogo in cui Delia vive: un seminterrato umido e senza luce, prigione più che casa, e dalla “parannanza”, il grembiule utilizzato da Delia per i lavori domestici, motivo di cruccio della dolce Marcella, ma indumento, direi habitus, funzionale ad occultare i rattoppi della camicia ed elemento stridente rispetto alla cura dei sempiterni capelli impomatati di Ivano e al profumo richiesto poco prima di uscire. 

Pierre Bourdieu in uno dei suoi saggi, Il dominio Maschile, interrogandosi sui rapporti di forza tra i sessi e le forme di potere esercitate dall’uomo scriveva come sia 

«[…] sorprendente, il fatto che l’ordine stabilito, con i suoi rapporti di dominio, i suoi diritti e i suoi abusi, i suoi privilegi e le sue ingiustizie, si perpetui in fondo abbastanza facilmente, […], e che le condizioni d’esistenza più intollerabili possano tanto spesso apparire accettabili e persino naturali. E ho sempre visto nel dominio maschile, nel mondo in cui viene imposto e subìto, l’esempio per eccellenza di questa sottomissione paradossale, effetto di quella che chiamo la violenza simbolica, violenza dolce, insensibile, invisibile per le stesse vittime, che si esercita essenzialmente attraverso le vie puramente simboliche della comunicazione e della conoscenza o, più precisamente, della mis-conoscenza, del riconoscimento e della riconoscenza o, al limite, del sentimento» (Bourdieu 2015: 7-8). 

Il concetto di violenza simbolica si riferisce ad una forma di subdola violenza, esercitata non con la gretta azione fisica ma sottilmente, carsicamente. Dissimulando i rapporti di forza sottostanti alle pratiche agite dagli attori sociali, questa forma di violenza genera un asservimento inconsapevole mediante l’introiezione, da parte dei dominati, di determinate visioni del mondo e strutture mentali, di categorie cognitive basate sulla differenziazione dei ruoli, dei generi, il maschile e il femminile, inoculazione resa possibile da un processo di naturalizzazione del dato biologico, in cui la differenza è giustificata dalla diversità anatomica. 

«Le apparenze biologiche e gli effetti assolutamente reali che ha prodotto, nei corpi e nei cervelli, un lungo lavoro collettivo di socializzazione del biologico e di biologizzazione del sociale si coniugano per rovesciare il rapporto tra le cause e gli effetti, e per far apparire una costruzione sociale naturalizzata (i “generi” in quanto habitus sessuati) come il fondamento in natura della divisione arbitraria  situata alla radice sia della realtà sia della rappresentazione di essa» (ivi: 9-10). 

Da questo processo di inversione che trasforma prodotti culturali in natura discende che i modi in cui uomini e donne definiscono e si percepiscono, le loro differenze, il diverso modo di rapportarsi al mondo e di abitarlo non sono altro che prodotti arbitrari, creati da un ordine altrettanto arbitrario: quello patriarcale. In questo assetto «La forza dell’ordine maschile […] non deve giustificarsi: la visione androcentrica si impone in quanto neutra e non ha bisogno di enunciarsi in discorsi miranti a legittimarla» (ivi: 17-18). Un processo pericoloso poiché i soggetti femminili incorporando tale ordine simbolico entrano in un circolo vizioso tale che loro stesse, nella costruzione della propria femminilità applicano al loro modo di pensarsi e costruirsi donne quegli stessi schemi elaborati dalla visione androcentrica, riconfermando paradossalmente la loro condizione di subalternità: 

«Quando i dominati applicano a ciò che li domina schemi che sono il prodotto del dominio o, in altri termini, quando i loro pensieri e le loro percezioni sono strutturati conformemente alle strutture stesse del rapporto di dominio che subiscono, i loro atti di conoscenza sono, inevitabilmente, atti di riconoscenza, di sottomissione» (ivi: 22). 
da C'è ancora domani

da C’è ancora domani

Alla luce degli strumenti teorici forniti dal sociologo diviene possibile interpretare con più consapevolezza certi comportamenti agiti dalla protagonista come esito dell’introiezione di una lunghissima tradizione di dominio simbolico e di disciplinamento fisico: l’insensibilità a seguito dello schiaffo ricevuto, la normalizzazione della violenza del marito attraverso un meccanismo di autoinganno, «è nervoso, ha fatto due guerre», il chiedere permesso per azioni che dovrebbero essere parte inalienabile della propria libertà come il recarsi dall’amica Marisa per cucinare la marmellata, la mancata ribellione rispetto alle offese quotidiane, l’evidente differenza nel rapporto tra madre e figli maschi. A tal proposito occorre segnalare come l’apparente disinteresse di Delia nei confronti dei figli potrebbe non derivare da un ipotetico e mancato sviluppo narrativo ma, al contrario, l’omissione potrebbe essere coerente al tentativo di documentare meglio una determinata realtà. Apprendiamo come i due ragazzi posseggano il diritto di studiare, al contrario della sorella, li vediamo urlare, sghignazzare, utilizzare un linguaggio scurrile, potremmo forse affermare che sono piccoli “selvaggi” lasciati ad uno stato di “natura”.

In fondo tale rappresentazione non è una conferma della “natura delle cose”, dell’ordine presentato dal grande macchinario della supremazia maschile, un ordine in cui i maschi in quanto maschi sono liberi di poter fare ciò che vogliono, mentre Delia in quanto madre e donna è relegata ad una posizione di impotenza? La protagonista non può educarli e giunge, durante un’occasione importante, ad una soluzione paradossale: pagarli per tentare di ottenere comportamenti consoni alla buona educazione. Delia è succube, inconsapevolmente, dei suoi stessi figli e quella che può sembrare astuzia si risolve, a ben riflettere, in una sottomissione. Non solo Delia, anche il comportamento delle comari, supporto sì, solidali, ma spesso anche occhio vigile che osserva e diviene feroce censore di comportamenti ritenuti poco conformi, come nel caso della vicina che consegnando la lettera e giudicandola come qualcosa che non rientra in quel modo giusto di essere donna e madre di famiglia dice di non voler saper nulla di quanto potrebbe accadere, manifesta la completa adesione di un modo di pensare rapportabile al dominio maschile.   

Ma la condiscendenza di Delia, lungi dall’essere servile, è al contrario impastata di dignità, fatta di sorrisi, grandi, di occhi luminosi e gesti pieni di riservato pudore, di camicie tirate sul collo per nascondere i lividi. Delia non si lamenta, non drammatizza, non esaspera, eppure nonostante il terrifico monito «stai zitta», «te devi imparà a sta zitta», lei parla, comunica, e lo fa non usando le parole. Ed è qui che il talento della Cortellesi implode in sagacia e intelligenza. Oltre la mimica dell’attrice, la cui grande capacità espressiva è canale trasparente per i turbamenti che agitano il suo personaggio, colpisce emotivamente il brillante utilizzo di codici altri, cifrati da simboli e note musicali. La colonna sonora accompagna Delia come fidata amica capace di interpretare e tradurre quei silenzi di cui è prigioniera nolente o volente. Il suo ingresso in scena coincide con Aprite le finestre, brano la cui musicalità inquadra lo spazio-tempo narrativo, per poi proseguire con un cambiamento di registro, di note moderne a ritmo di blues, come a voler prefigurare già dall’inizio quel cammino verso la conquista dei propri diritti che Delia dovrà percorrere con la stessa determinazione e falcata d’amazzone presentata ad inizio film mentre tenta faticosamente di far quadrare il bilancio familiare.

La musica è la lingua di Delia, una lingua che presenta una propria sintassi e rende possibile al taciuto di trovare la propria voce, di opporre un efficace contraltare all’afasia imposta dal dominio. È soprattutto durante le scene di violenza che la musica assume densità di significati. Ivano picchia Delia sulle note di una briosa cover di un brano di Mina, “Nessuno”, interpretato dal duo di Musica Nuda, e le botte diventano passi di danza, le spinte volteggi, le mani al collo abbracci, e nessuno/ ti giuro/ nessuno/ nemmeno il destino/ ci può separare/ perché questo amore/ che il cielo ci dà/ sempre vivrà/ suggellato da un rivolo di sangue che scompare come per magia allo sgranare degli occhi della Cortellesi. Un effetto straniante che lascia incredulo lo spettatore e che nello scarto tra immagini e musica lo obbliga necessariamente a inserire delle parole per comprendere quanto osservato, a produrre pensiero rispetto all’assurdità appena vista.

Non solo la musica: anche la scena in apparenza più semplice da interpretare nasconde un messaggio importante. Delia incontra il suo primo amore Mario e in uno scambio fitto di ricordi in cui gli occhi dicono più delle parole decide di condividere del cioccolato. La scena in cui assaporano il quadratino li trasporta in una dimensione altra, in cui è possibile sentire insieme il piacere. Ma ciò che sembra idillio è guastato da un sorriso che scopre denti macchiati, quasi marci, guastati da quello stesso alimento che li ha portati, per un attimo solo, a compenetrarsi. Un simbolismo forte che suggerisce sicuramente altro, forse quello stesso dubbio manifestato da Bourdieu nel suo saggio in merito al sentimento d’amore. «L’amore è un’eccezione, la sola, anche se di prima grandezza, alla legge del dominio maschile, una messa tra parentesi della violenza simbolica, o la forma suprema, perché la più sottile, la più invisibile, di tale violenza?» (Ivi: 126).

Tale ipotesi sembrerà trovare conferma nel finale inaspettato del film, non è l’amore a riscattare, ed anche qui la Cortellesi in questo plot twist sembra costringere lo spettatore a rendersi conto dei propri limiti interpretativi, in quella speranza di un amore romanzato che tutto può. Ed è sempre una scena d’amore ed una parola, anzi un aggettivo possessivo a destare definitivamente Delia dal torpore: «Sei mia» pronunciato a labbra strette da Giulio, il fidanzato di Marcella. Da qui la narrazione prende vie inaspettate e Delia farà di tutto per salvare la figlia dallo stesso destino di sopraffazione, superando perfino l’invalicabile barriera linguistica e culturale, rappresentata dall’improbabile amicizia con Willian il soldato americano, grazie a una eversione al tritolo.

9788858435823_0_536_0_75L’attenzione accordata al linguaggio percorre tutto il film ed è evidente anche nelle scene che sono antecedenti il risveglio della protagonista, quando Delia sognava un destino da sposa per la bella Marcella e rubava qualche spicciolo da quanto guadagnato per acquistare l’abito nuovo per la figlia. Sentiamo durante la confidenza di questo innocente atto sovversivo la risposta di Marisa: «Non ho capito, rubi? Ma non sò i sordi tua!», la precisazione dell’amica è ovviamente una correzione alla visione distorta proposta da Delia ed è un suggerimento agli astanti di avere cautela nelle parole usate, nei modi in cui vanno strutturate le frasi, perché le parole plasmano il mondo e condannano destini. Una maggiore cura all’uso delle parole nei rapporti tra uomo e donna è la strategia adottata dagli studiosi di genere per tentare di contrastare atteggiamenti sessisti e patriarcali: illuminante un piccolo volume di Michela Murgia che analizza una serie di frasi di uso comune, apparentemente innocue, ma che nascondono legami con quel retaggio altamente degradante per la donna. Scriveva la Murgia: «La politica del linguaggio […] non sembra la cosa più importante da perseguire, ma è invece quella da cui prendono le mosse tutte le altre, perché il modo in cui nominiamo la realtà è anche quella in cui finiamo per abitarla» (Murgia, 2021: 111-112). Non a caso il libro si intitola Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più.

Delia non vuole stare zitta e attraverso un percorso scandito da micro eventi, insignificanti ma rivoluzionari nella loro semplicità: il fumare una sigaretta, bere un caffè al bar con tantissimo zucchero, comprare una camicia nuova e si riappropria di una volontà che le era stata espropriata, smette la parannanza e indossa un habitus nuovo, ma soprattutto dona alla figlia l’unico strumento capace di spezzare quelle catene di asservimento: la scuola, la cultura, il voto. Straordinaria la scena serale, una Sera dei miracoli, in cui le donne che popolano la pellicola si fanno belle: chi attorciglia i capelli in bigodini, chi mette un rossetto, chi prepara i vestiti per l’appuntamento del giorno dopo, è la sera in cui cercheranno di scoprire quale stella ognuno di loro è, per andare finalmente incontro a un nuovo ordine: quello della parità, dei diritti collettivi, di una dignità finalmente riconosciuta in quanto esseri umani. Il giorno seguente sarà il 2 giugno 1946 e le donne avranno finalmente una voce. «E senza scudi per proteggermi né armi per difendermi/ né caschi per nascondermi o santi a cui rivolgermi/ con solo questa lingua in bocca/ e se mi tagli pure questa/ io non mi fermo, scusa/ Canto pure a bocca chiusa». 

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024 
Riferimenti bibliografici 
Bourdieu P., Il dominio maschile, Milano, Feltrinelli, 2015
Murgia M., Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire più, Torino, Einaudi, 2021 

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Annamaria Clemente, laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo, è interessata ai legami e alle reciproche influenze tra la disciplina antropologica e il campo letterario. Si occupa in particolare di seguire autori, tendenze e stili della letteratura delle migrazioni. Su questo tema ha scritto saggi e numerose recensioni. Ama la fotografia cui si dedica da dilettante.

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