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Note sul processo creativo tra arte e antropologia

Chiara tubia, Is That What we call identity, Palazzo Marchesale ad Arnesano Lecce

Chiara Tubia, Is that what we call identity, Palazzo Marchesale ad Arnesano Lecce, 2016

di Linda Armano

Ho già avuto occasione di scrivere alcuni articoli pubblicati in Dialoghi Mediterranei relativi alla inter-connessione, attraverso svariate forme e processi, tra arte e antropologia. Il primo articolo, intitolato “«Is that what we call identity?». Una riflessione tra arte contemporanea e antropologia” (Armano 2017) risale a otto anni fa. Il contributo si focalizza su una collaborazione che ebbi con un’artista visiva, Chiara Tubia, che mi chiese di lavorare con lei sulla possibilità di interconnettere antropologia e arte all’interno di un’opera artistica, esposta a Palazzo Marchesale ad Arnesano (Lecce) nel dicembre 2016, inserendo riflessioni antropologiche per affrontare la tematica dell’identità nel suo lavoro artistico. Quest’ultimo è stato quindi il risultato di profondi scambi di opinioni, in cui i nostri background disciplinari si sono intrecciati sviluppando una performance sinestetica che univa immagine e suono. Nello specifico, Chiara Tubia si rivolse a me per scrivere il testo che accompagnava l’opera che fu poi recitato dall’attrice Valentina Violo (https://soundcloud.com/chiara-tubia/is-that-what-we-call-identity).

Durante l’interscambio di riflessioni che ebbi con l’artista, emersero alcune prospettive interessanti sia dal punto di vista antropologico, sia dal punto di vista più strettamente artistico. Come espose Tubia, il concetto di identità, nel contesto artistico, non è qualcosa di statico o definito, ma piuttosto un processo in continua evoluzione che lei interpretava come un gioco di mascheramenti che rispecchiavano le dinamiche sociali. Per Chiara Tubia, l’identità non era rappresentata come un oggetto fermo da contemplare, ma come un’entità che si adatta e si riconfigura in relazione al contesto in cui emerge. Questa riflessione si allineava perfettamente con la mia visione da antropologa ingaggiata per quel lavoro e dichiarai all’artista la mia convinzione che l’identità non è altro che un costrutto sociale e culturale, qualcosa che emerge da pratiche quotidiane, interazioni e trasformazioni.

hiara tubia, Is That What we call identity, Palazzo Marchesale ad Arnesano Lecce, 2016

Chiara Tubia, Is that what we call identity, Palazzo Marchesale ad Arnesano Lecce, 2016

È noto come in antropologia il concetto di identità sia centrale ed estremamente dibattuto. Sappiamo, per esempio, come Francesco Remotti ne abbia evidenziato le implicazioni problematiche sia sul piano teorico che sul quello pratico. Per lo studioso, l’identità è un mito, una costruzione artificiosa che, anziché rispecchiare una realtà oggettiva, viene usata per consolidare appartenenze e tracciare confini tra un “noi” e un “loro”. Nel suo libro Contro l’identità (1996), Remotti sostiene che l’identità non solo non è necessaria, ma può rivelarsi pure pericolosa, in quanto l’uso di questo concetto a livello sociopolitico rischia di irrigidire le differenze e creare conflitti. Remotti, a tal proposito, suggerisce di sostituire il concetto di differenza, ritenendo che il concetto di somiglianza costituisce un’idea più fluida e aperta che consente di riconoscere sia le differenze che punti in comune senza la necessità di creare confini netti e statici.

Durante le lunghe conversazioni che ebbi con Tubia, esposi il pensiero di Remotti e riflettemmo assieme su come l’antropologo sostenga un’analisi del concetto di identità che si oppone alla tentazione di attribuirgli una natura immutabile e universale. Al contrario, sottolineai l’importanza di interpretare tale concetto nell’opera artistica esattamente come è contemplato dall’antropologo, ossia nel suo carattere processuale e relazionale in relazione alle dinamiche culturali. Il punto in cui la sinergia di Tubia si consolidò con la mia fu soprattutto nel considerare l’immagine come una metafora visiva dell’identità in divenire, una rappresentazione che non aspira a fissare un’essenza, ma a svelare il processo attraverso cui l’individuo e la collettività si costruiscono a vicenda. Entrambe quindi, come artista e antropologa, ci confrontammo con la fluidità e la molteplicità delle identità, cercando di andare oltre concettualizzazioni che vedono l’identità come una costruzione stabile e lineare.

La realizzazione artistica si configurò come altamente immersiva e multisensoriale, coinvolgendo lo spettatore in un percorso riflessivo sul concetto di identità. Attraverso una combinazione visiva e sonora l’opera guidava il pubblico in un viaggio interattivo in cui la voce narrante poneva domande e suggestioni, stimolando una riflessione profonda sulle costruzioni culturali e filosofiche legate all’identità. La disposizione dei calchi del volto dell’artista lungo file parallele creava un ambiente visivamente ipnotico e coinvolgente. I volti in gesso, replicati ma individualmente unici per la loro collocazione, suggerivano sia l’universalità che la singolarità dell’esperienza umana, sfidando la nozione di identità come qualcosa di fisso o predeterminato. Camminando tra i corridoi, lo spettatore diventava parte integrante dell’opera, un partecipante attivo che integrava i propri sensi con l’ambiente circostante. Inoltre, la scelta che facemmo assieme a monte fu anche quella di trasmettere una sfida all’ereditarietà del pensiero dualistico aristotelico. Per questo motivo riflettemmo su come invitare lo spettatore a vivere un’esperienza che definimmo in dissoluzione. La natura sinestetica dell’opera voleva trasmettere la volontà di dissolvere i confini tra il soggetto e il mondo esterno, favorendo una percezione olistica e integrata. Questa immersione sonoro-visiva trasformava l’opera in un luogo di profonda introspezione per esplorare nuovi modi di percepire l’identità e il sé liberandoli dai limiti imposti da visioni superficiali che spesso impregnano la nostra quotidianità.

Street artist

Street artist

Un secondo articolo pubblicato in Dialoghi Mediterranei in cui riflettevo sull’interconnessione tra arte e antropologia è “Branding creativity. Street Art and «making your name sing»” (2019). In questo paper sollevavo la questione su come la Street Art e i graffiti urbani rappresentino dei fenomeni culturali dibattuti, situandosi all’interfaccia tra espressione artistica e violazione legale. In questo articolo riflettevo sulle tensioni tra la libertà creativa degli artisti e le normative che regolano l’uso dello spazio pubblico e privato. Nel paper affermavo infatti la doppia valenza di chi sostiene la natura artistica della Street Art sottolineandone il valore estetico, sociale e culturale e di chi si concentra invece sulla natura non autorizzata dei graffiti vedendo in essi una violazione di leggi e una forma di vandalismo verso il decoro urbano e la proprietà privata. Queste opere portano spesso con sé un messaggio politico, una critica sociale o un’espressione identitaria e utilizzano le superfici edilizie come tele per comunicare con un pubblico eterogeneo. La loro collocazione negli spazi urbani non è casuale, ma risponde ad una logica precisa, ossia quella di mettere in discussione le dinamiche di potere, la proprietà dello spazio e il rapporto tra cittadino e città. Il contesto urbano diventa così parte integrante del significato dell’opera, la quale è concepita come un atto performativo che interagisce con l’ambiente circostante. D’altro canto, chi vede invece nei graffiti atti di vandalismo, si concentra su una valutazione più normativa che privilegia il mantenimento dell’ordine e la tutela degli interessi dei proprietari degli edifici. In questo contesto, il valore artistico può essere oscurato dalla percezione di trasgressione e disordine.

71y9cuu6rsl-_ac_uf10001000_ql80_Un aspetto centrale dell’articolo riguardava quindi la sottile linea di demarcazione tra arte e vandalismo nel caso della Street Art e dei graffiti i quali sono fortemente dipendenti dal contesto. Le opere non solo riflettono le intenzioni degli artisti, ma anche le percezioni della società nei confronti dello spazio pubblico, della creatività e della legalità. Nel contributo riflettevo anche su come studiosi, quali Walter Benjamin nel suo saggio “The Work of Art in the Age of Mechanical Reproduction” (1968 [1935]), evidenziano come la riproducibilità tecnica abbia trasformato profondamente il rapporto tra l’arte e il suo contesto sociale ed economico. L’aura, intesa come unicità e autenticità dell’opera d’arte, viene minata dalla possibilità di riproduzione meccanica, che sposta l’arte da un piano sacro e metafisico a uno più accessibile, ma anche più vulnerabile alle dinamiche politiche ed economiche. In questo contesto, l’arte perde la sua distanza simbolica dalle leggi del mercato. La riproduzione in serie, caratteristica del capitalismo industriale, rende le opere disponibili a un pubblico di massa, ma al costo di una svalutazione simbolica. Ciò che era unico e irripetibile diventa replicabile e l’esperienza dell’opera d’arte, un tempo legata a un luogo e ad un momento specifici, si globalizza e si standardizza.

Bansky, No Future, Southampton England

Bansky, No Future, Southampton England

La dicotomia tra arte e commercio è radicata in una tradizione che associa l’arte a valori trascendenti e irrazionali, spesso contrapposti alla razionalità economica del profitto. Tuttavia, questa contrapposizione può risultare stereotipata e limitante. Numerosi artisti contemporanei, ad esempio, sfidano questa dicotomia integrando elementi commerciali nella loro pratica, trasformando le dinamiche di mercato in un campo di esplorazione creativa e critica. L’idea che l’arte sia necessariamente “pura” e separata dal commercio è, infatti, una costruzione storica. In epoche precedenti, come nel Rinascimento, gli artisti erano profondamente coinvolti nelle logiche di committenza e mercato, dimostrando che l’arte e il profitto non sono necessariamente antagonisti. Tuttavia, l’Illuminismo e il Romanticismo hanno contribuito ad elevare l’arte a un livello quasi sacro, separandola simbolicamente dalla sfera utilitaristica. Oggi, nel contesto di un capitalismo avanzato e di un’economia globale, le linee di confine tra arte e commercio si fanno sempre più sfumate. Molti artisti contemporanei utilizzano la critica al mercato come parte integrante delle loro opere, riflettendo su come il valore simbolico e quello economico si influenzino a vicenda. Questo comporta una reinterpretazione del ruolo dell’arte, non più necessariamente relegata a un piano irrazionale, ma capace di dialogare criticamente con le dinamiche del profitto, senza per questo perdere la sua valenza culturale e sociale.

Biblioteca Municipale di Nablus (ph. Beatrice Catanzaro)

Biblioteca Municipale di Nablus (ph. Beatrice Catanzaro)

Un altro articolo, scritto con l’artista italo-svedese Beatrice Catanzaro e pubblicato nel n. 66 di  Dialoghi Mediterranei, in cui ho riflettuto sull’importanza di interconnettere arte ed antropologia è “Arte come mezzo di riflessione sulla documentazione demo-etno-antropologica dei conflitti. “A Needle in The Binding” (2024). L’articolo ripercorre il lavoro artistico di Catanzaro durante una sua residenza in Palestina nel 2009 in cui l’artista si concentrò sulla catalogazione di libri nella Biblioteca Municipale di Nablus. Il contributo rasgiona su come l’arte possa diventare uno strumento per esplorare e preservare memorie collettive e individuali, soprattutto in contesti di conflitto e di resistenza. In particolare, la Biblioteca Municipale di Nablus custodisce una raccolta di libri in cui i detenuti palestinesi hanno annotato appunti personali e arricchito con disegni. Questi disegni e scritte non sono semplici interventi su materiale stampato, ma rappresentano importanti testimonianze di resilienza. Nell’opera artistica di Catanzaro, gli appunti e le immagini diventano forme di espressione individuale in un contesto di privazione della libertà, un modo per mantenere viva una connessione con il mondo esterno. Essi sono anche tracce di memoria. Ogni annotazione rappresenta infatti un ricordo tangibile della vita, delle emozioni e dei pensieri di persone detenute, costituendo una memoria collettiva che si intreccia con la storia politica e sociale palestinese. Le note e i disegni costituiscono anche reinterpretazioni dei libri. Questi ultimi più che contenitori di conoscenza si trasformano piuttosto in spazi di dialogo, dove il testo originale si mescola alle voci dei detenuti, generando nuove narrazioni.

Quaderni in cui i prigionieri palestinesi copiavano testi di libri (ph. Beatrice Catanzaro)

Quaderni in cui i prigionieri palestinesi copiavano testi di libri (ph. Beatrice Catanzaro)

L’artista italo-svedese, attraverso la catalogazione, non si limita a registrare un fenomeno, ma ne evidenzia il valore culturale e umano. Assieme riflettemmo infatti sull’importanza comune, condivisa sia dalla metodologia antropologica che estetica, di dare valore ai contesti locali, documentando le annotazioni come espressioni vive di una comunità oppressa. Ragionammo poi sul processo di catalogazione definendolo come non neutro, ma come un atto che stimola riflessioni sulla relazione tra cultura, resistenza e creatività in condizioni di restrizione. Infine sviluppammo alcuni importanti pensieri sul dialogo interdisciplinare tra arte e antropologia per capire come si colloca un’opera artistica che intenda aprire spazi per un’interpretazione multidimensionale, all’incrocio tra dimensione teorica e sensoriale, del materiale raccolto. 

Interconnessioni tra arte e antropologia 

L’arte è sempre stata un tema di grande interesse nella ricerca antropologica, poiché ha offerto, e offre tuttora, una finestra privilegiata per esplorare i mondi simbolici. Questo ambito di studio si è sviluppato attraverso diverse prospettive e approcci che hanno messo in luce come l’arte non sia semplicemente un’espressione estetica ma anche un veicolo per comunicare diversi significati culturali. Soprattutto alla fine dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, la relazione tra antropologia e arte si rivolgeva essenzialmente alla raccolta di oggetti per fini museografici. In questo contesto, gli oggetti venivano decontestualizzati dalla loro funzione originaria e dalla loro carica simbolica. A tal proposito, la considerazione degli antropologi verso gli oggetti materiali delle popolazioni non alfabetizzate non era neutra ma rispondeva ad un desiderio preciso di rafforzare la distinzione tra un “noi” (civilizzato) e un “loro” (primitivo).

Arte indigena australiana

Arte indigena australiana

A seguito di questo primo interessamento dell’antropologia verso l’arte, spesso definita esotica in quanto gli antropologi miravano a raccogliere oggetti di popolazioni che vivevano in contesti geograficamente e culturalmente lontani rispetto al loro contesto di provenienza, i ricercatori si indirizzarono anche verso la ricognizione dei processi attraverso cui l’arte indigena rifletteva specifiche cosmologie e sistemi di credenze oppure era utilizzata come un mezzo di resistenza coloniale (Layton 1991). Più di recente gli antropologi hanno analizzato anche l’ingresso dell’arte indigena nei mercati globali studiandone le tensioni tra le forme estetiche originarie e le dinamiche commerciali (Ahmed 2022). Queste ricerche antropologiche si interessano all’arte soprattutto dal punto di vista materiale e mettono in secondo piano, per esempio, le tecniche artistiche come procedimenti metodologici utili per sviluppare lenti interpretative nella pratica antropologica.

Lidya Nakashima Degarrod

Lidya Nakashima Degarrod

Solo ultimamente però c’è stato un vero e proprio impegno tra arte e antropologia dal punto di vista metodologico. Alcuni antropologi infatti sono diventati diretti sperimentatori di metodi artistici nelle loro ricerche etnografiche. Tra questi, una studiosa di spicco è Lydia Nakashima Degarrod, un’artista visiva e antropologa di origine cileno-giapponese, nota per il suo lavoro interdisciplinare che combina tecniche come la pittura e l’installazione assieme all’antropologia e alla narrazione per esplorare temi legati alla memoria, all’identità, alla migrazione e alle esperienze sensoriali. Il contributo accademico più rilevante che offre Nakashima Degarrod è quello di dimostrare come la metodologia artistica possa diventare un potente mezzo tecnico per sperimentare un linguaggio diverso rispetto a quello basato sulla scrittura di articoli come strumento di documentazione etnografica. Oltre alle sue opere artistiche, la studiosa ha anche scritto su temi legati alla rappresentazione della memoria, sull’arte come esercizio antropologico e sul ruolo dell’estetica nella narrazione di esperienze traumatiche.

Oltre a Lydia Nakashima Degarrod, che rappresenta una delle figure internazionali che maggiormente sperimentano ibridazioni artistiche ed antropologiche, altri importanti dibattiti che hanno nutrito questi approcci interdisciplinari sono senza dubbio quelli costruiti sulle analisi di Tim Ingold che ha a lungo ragionato sull’arte come conoscenza. Autore di importanti contributi sull’interazione tra arte, antropologia, architettura e pratiche creative, il suo lavoro è una fondamentale pietra miliare all’interno di questi dibattiti interdisciplinari in quanto spiega come la creazione sia una parte essenziale della vita umana e come gli esseri umani diano forma, nel senso di design, al loro mondo attraverso la pratica e l’esperienza quotidiana. Ingold ha anche affermato che la creazione artistica non può essere separata dalla conoscenza antropologica. Piuttosto dovrebbe essere intesa come una forma di sapere che contribuisce a comprendere il mondo e le relazioni umane. Altri contributi importanti sono quelli di Fiona Murphy e Eva van Roekel (2024) che hanno utilizzato il teatro e la performance come mezzi per esplorare e rappresentare le esperienze sociali e culturali. Le studiose hanno riflettuto su come le performance possano influenzare le identità e le relazioni sociali in diverse comunità, creando spazi per l’espressione e l’interazione. 

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Geographies of the Imagination, Lydia Nakashima Degarrod

Il processo creativo tra arte e antropologia 

Lo psicologo Paul Torrance (1988: 43) afferma: «La creatività sfida una definizione precisa». Questo passaggio evidenzia la complessità e la multidimensionalità del concetto di creatività, che resiste a una definizione univoca. Paul Torrance, pioniere degli studi sulla creatività, sottolinea infatti come il termine sia sfaccettato e utilizzato da molteplici punti di vista, senza che si arrivi a una sintesi univoca. La creatività è infatti un termine ampio, utilizzato in relazione ad una varietà di contesti che spaziano dall’arte alle scienze, dall’educazione al problem-solving. Daniel Goleman, Paul KaufmanMichael Ray (1992) sostengono, a tal proposito, che l’aspetto fondamentale della creatività non risieda tanto nell’associazione a innovazioni in contesti straordinari, quanto piuttosto nella quotidianità in cui la creatività trova il suo vero campo d’azione. Gli autori si spingono a considerare la creatività anche come la capacità di risolvere i piccoli problemi quotidiani come, per esempio, organizzare il proprio tempo, gestire piccoli conflitti ordinari, affrontare gli imprevisti. In questo caso, questi atti di creatività spesso passano inosservati perché non sono formalizzati o celebrati, nonostante contribuiscano in modo significativo al benessere individuale e alla nostra capacità di adattamento. Questo approccio però ribalta la visione tradizionale che associa la creatività solo all’arte, alla scienza o all’innovazione tecnologica. Ciononostante, tale visione può essere applicata anche al legame creativo che emerge tra arte e antropologia. Anche nelle pratiche artistiche e nelle riflessioni antropologiche, la creatività si sviluppa spesso in contesti quotidiani. In questo senso, spunti interessanti possono emergere dall’esplorazione di come vari gruppi culturali celebrano o inibiscono processi creativi nella loro vita quotidiana. La creatività può quindi intrecciarsi con processi che riguardano la capacità di concepire scenari immaginari, di visualizzare aspetti della vita non direttamente osservabili e implica l’applicare idee nuove in contesti pratici.

La maggior parte delle teorie della creatività si sono però finora focalizzate soprattutto su approcci psicologici (come il pensiero divergente), sociologici (il ruolo del contesto culturale), neuroscientifici (le basi biologiche del pensiero creativo) e pedagogici (come favorire la creatività nei processi di apprendimento) all’interno dei quali hanno tentato di fornire definizioni univoche della creatività. Quest’ultima è però intrinsecamente interdisciplinare e, in quanto tale, la rende difficile da circoscrivere. La sua area semantica, estendendosi oltre i confini delle singole discipline, la rendono un oggetto di studio ampiamente condiviso e contestualizzato. La difficoltà nel definirla non è una debolezza, ma una caratteristica che riflette la ricchezza e la complessità di questo concetto. Roberto Travaglini, per esempio, afferma: 

«Per quanto le definizioni di creatività prendano le mosse dalle concezioni più flessibili e sfumate alle più strutturate e circoscritte, si deve constatare, comunque, che gli autori e le discipline che se ne sono nel tempo occupati, direttamente o indirettamente, hanno offerto e continuano a offrire uno specifico contributo esplicativo-interpretativo al concetto di creatività, tentando di dare una svolta, in termini scientifici, alla dialettica, viva da molto tempo, su questo aspetto della natura umana, pur sempre difficile da inquadrare sul piano meramente teoretico. Le definizioni sono state tante nel corso della storia delle scienze umane – e numerose pure in contrasto tra loro –, al punto che qualcuno, forse provocatoriamente, ha finito col sostenere che si tratta di un concetto privo di significato. Di sicuro è un concetto o più semplicemente un termine di cui si è fatto un uso eccessivo e il cui senso è spesso scaduto all’insegna dello stereotipo e delle mode culturali del momento» (2013: 197). 
Lidya Nakashima Degarrod, Opera

Lidya Nakashima Degarrod, Opera

Travaglini sottolinea come, sebbene gli psicologi e gli studiosi dell’arte abbiano dominato la ricerca sulla creatività, la pedagogia, la sociologia e l’antropologia hanno contribuito solo recentemente a questa riflessione, spesso di riflesso, basandosi sul lavoro svolto in campo psicologico. Lo studioso afferma infatti che gli studi psicologici si sono concentrati su come la creatività si sviluppa nell’individuo, su quali fattori la stimolino o la ostacolino e su come possa essere misurata. Travaglini continua dicendo che, nonostante un’espansione di interesse sulla creatività anche in altre discipline, la pedagogia, pur essendo una disciplina che si occupa della formazione e dello sviluppo umano, ha trattato la creatività in modo indirettamente legato agli approcci psicologici, spesso applicando concetti creativi ai processi educativi ma senza una sistematizzazione autonoma. In sociologia e in antropologia, la creatività è stata trattata principalmente come una risposta a processi sociali e culturali. La creatività quindi non viene solo vista come una capacità individuale, quanto piuttosto come qualcosa che emerge da contesti collettivi e che è influenzata da dinamiche sociali, politiche e culturali.

Seguendo l’approccio di Nakashima Degarrod, oltre ai tentativi di studiare teoricamente la creatività, negli ultimi decenni un crescente numero di antropologi ha prestato attenzione a come poter mescolare tecniche artistiche a metodi e a riflessioni provenienti dall’antropologia. Riflettendo, per esempio, sulla mia storia personale, l’interesse di ibridare approcci derivanti da arte e antropologia si è incrementato negli anni in relazione sia al mio passato nel mondo dell’arte prima di intraprendere un percorso antropologico, sia grazie ad una costante attenzione verso chiavi di lettura che gli strumenti provenienti dall’arte possono dare per comprendere processi socioculturali sia a livello locale che globale. Tali sovrapposizioni disciplinari mi hanno costantemente spinto a prestare attenzione ai modi in cui l’antropologia e l’arte possono comunicare, dialogare e costruire nuovi linguaggi sperimentali. Tale predisposizione è andata di pari passo con le esperienze di contatti e forti legami con alcuni artisti assieme ai quali, nel corso degli anni, ho avuto l’opportunità e l’onore di riflettere e lavorare su tematiche antropologiche viste attraverso lo sguardo dell’arte.

Il fil rouge che quindi unisce gli articoli che ho avuto il piacere di pubblicare in vari numeri di Dialoghi Mediterranei sono stati per me un tentativo di ragionare su come il processo creativo possa essere inteso come un insieme di fasi e pratiche attraverso cui sia un artista ma anche un antropologo concepiscono, sviluppano e realizzano il loro lavoro. Questo processo non si limita alla creazione di un prodotto finale, come un’opera d’arte o una monografia etnografica, ma include anche la ricerca, l’esplorazione concettuale, le scelte tecniche e materiali e le interazioni con il contesto sociale e culturale (Ingold 2013). Di qui la riflessione, più allargata, di come il processo artistico applicato anche all’antropologia possa configurarsi nei termini e nei paradigmi di un processo creativo. Quest’ultimo, a mio avviso, può essere quindi definito come la trasposizione teorica di metodologie comunemente usate nell’arte le quali, anche nell’ambito dell’antropologia, possono ispirare ulteriori metodi sperimentali ed innovativi per comprendere fenomeni culturali e comportamenti umani. 

41kntgtkcgl-_uf10001000_ql80_Conclusioni 

Giacomo Pezzano (2023) sostiene l’esistenza di una forte connessione tra natura umana e creatività. Lo studioso ritiene che la creatività sia una necessità biologica. Rifacendosi al pensiero di Marx, Scheler, Plessner, Gehlen, Heidegger e Derrida, Pezzano afferma che la natura umana è creativa in quanto è chiamata a creare il suo mondo e il suo stile di vita. Per questo motivo, egli sostiene, che la natura umana non possa che essere generica e solo grazie a questa genericità è possibile sviluppare processi, individuali e collettivi, storicamente creativi. La creatività dovrebbe quindi essere sempre svincolata da un’unica prospettiva o da ambiti di applicazione specifici e, secondo questa prospettiva, dovrebbe essere concepita come qualcosa di trasversale, che si manifesta in diversi contesti e assume forme differenti, senza che una dimensione prevalga sulle altre. Concepire la creatività in termini di genericità e di apertura alla possibilità permette pertanto di abbracciare la sua complessità e di riconoscerla come una caratteristica universale dell’esperienza umana.

L’incremento di lavori da parte di sempre più antropologi che intendono contribuire ad un approccio innovativo integrando, attraverso processi creativi, l’arte e la metodologia antropologica nei loro studi, stanno aprendo nuovi dibattiti per rendere l’antropologia una disciplina più dinamica, porosa e interattiva. L’uso della performance, della narrazione e di altre forme artistiche permette infatti di esplorare e rappresentare aspetti della cultura in un modo capace di andare oltre la tradizionale scrittura accademica, consentendo di comunicare la complessità dell’esperienza umana ad un pubblico specializzato ed accademico ma anche di restituire uno studio ai soggetti coinvolti nella ricerca e ad un pubblico più ampio di non specialisti. In questo modo, attraverso l’uso di metodi che provengono dall’arte partecipativa o dal teatro è possibile sperimentare modi nuovi per includere e dare voce a coloro che sono spesso esclusi dai canali ufficiali della ricerca. Utilizzando modalità espressive non convenzionali, gli antropologi hanno cominciato a lavorare in modo più collaborativo con le comunità, consentendo loro di partecipare attivamente alla creazione e alla rappresentazione della indagine. 

Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025 
Riferimenti bibliografici
Ahmed F. (2022). Globalization and its Impact on Indigenous Art Forms. International Journal of Fine, Performing and Visual Arts 2(2): 11-15. 
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Armano L., Catanzaro B. (2024). Arte come mezzo di riflessione sulla documentazione demo-etno-antropologica dei conflitti. “A Needle in The Binding”. “Dialoghi Mediterranei”, 66. 
Benjamin W. (1968 [1935]). The Work of Art in the Age of Mechanical Reproduction. Harvard University Press, Cambridge. 
Goleman D., Paul Kaufman, Michel Ray (1992). The Creative Spirit. Dutton, New York. 
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Layton R. (1991). The Anthropology of Art. University of Durham, Durham. 
Murphy F., van Roekel E. (eds.) (2024). A Collection of Creative Anthropologies Drowning in Blue Light and Other Stories. Palgrave Macmillan, Cham. 
Pezzano G. (2023). Il paradigma dell’antropologia filosofica tra immunità e apertura al mondo. Università degli Studi di Torino: 1-22. 
Remotti R. (1996). Contro l’identità. Laterza, Torino. 
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Travaglini R. (2013). Il processo “creativo” nei contesti socio-educativi. Filosofia Pedagogia Psicologia: 197-208.

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Linda Armano, ricercatrice in antropologia, ha frequentato il dottorato in cotutela tra l’Università di Lione e l’Università di Venezia occupandosi di Anthropology of Mining, di etnografia della tecnologia e in generale di etnografia degli oggetti. Attualmente collabora in progetti di ricerca interdisciplinari applicando le metodologie antropologiche a vari ambiti. Tra gli ultimi progetti realizzati c’è il “marketing antropologico”, applicato soprattutto allo studio antropologico delle esperienze d’acquisto, che rientra in un più vasto progetto di lavoro aziendale in cui collaborano e dialogano antropologia, economia, neuroscienze, marketing strategico e digital marketing. Si pone l’obiettivo di diffondere l’antropologia anche al di fuori del mondo accademico applicando la metodologia scientifica alla risoluzione di problemi reali. Ha pubblicato recentemente la monografia Esplorare valore e comprendere i limiti, Quaderni di “Dialoghi Mediterranei” n. 3, Cisu editore (2022).

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