il centro in periferia
di Paolo Nardini
Principina Terra è una piccola frazione del Comune di Grosseto, posta circa a metà strada, sulla strada delle Collacchie, fra il capoluogo e il mare. Il suffisso “Terra” la distingue dalla più nota località turistica balneare di Principina a Mare. Il nome “Principina” ha origine dal fatto che una ampia parte della pineta costiera in prossimità dell’ultimo tratto del fiume Ombrone, sulla riva destra, era la dote di una principessa della numerosa famiglia Corsini di Firenze, intorno al XVIII secolo. L’area fu acquistata dalla famiglia Ponticelli di Matteraja, pastori provenienti dal Casentino, che attraverso unioni matrimoniali accorparono altri terreni di proprietà dei Pallini e dei Pierini.
Nell’attuale area della Principina Terra sorgeva in un primo tempo una fornace di laterizi, detta “fornace Millanta”. Nei primi decenni del Novecento fu edificata la casa padronale, e la tenuta fu denominata “Poggialetto”; più tardi il nome della tenuta fu cambiato in “La Principina”, uguale a quello della pineta costiera sulla riva destra dell’Ombrone, che era stata la prima proprietà dei Ponticelli. Nel 1928, accanto alla casa padronale, fu costruita una cappella gentilizia.
Al censimento del 1961 abitavano a Principina Terra poco più di un centinaio di persone, prevalentemente dipendenti della Fattoria. Nei decenni successivi la popolazione risultava ridotta a circa la metà, per riprendere in numerosità negli anni Novanta, con la realizzazione di una serie di edifici destinati ad abitazione. Del progetto iniziale facevano parte circa centotrenta abitazioni, a cui si sono aggiunte successivamente un’altra trentina. Al censimento del 2011 abitavano a Principina Terra poco meno di quattrocento persone, e non sembra che nell’ultimo decennio il villaggio abbia subìto modificazioni demografiche sostanziali.
Negli anni Novanta, quando fu realizzato il complesso edilizio, pareva che a Principina Terra dovessero sorgere anche una serie di servizi: bar, alimentari, altri negozi, insomma una sorta di piccolo centro commerciale. Di tutto questo non è stato realizzato nulla: gli unici negozi del villaggio restano i due bar storici, aperti negli anni sessanta, lungo la principale strada delle Collacchie. Nei decenni Sessanta-Ottanta i due bar, grazie alla loro posizione lungo la strada che congiunge il capoluogo al mare, servivano soprattutto la clientela turistica di passaggio, sia quella estiva diretta alla costa che quella autunnale e invernale che frequentava la zona per motivi venatori. Si parla ancora della signora che gestiva uno dei bar, Wanda, che apriva non più tardi delle 5 del mattino per servire la sua clientela di cacciatori che provenivano dalle città dell’entroterra.
Così Principina Terra, alla metà degli anni Novanta, quando fu terminata la costruzione delle villette a schiera, e la frazione è stata popolata, la località ha assunto l’aspetto di un villaggio dormitorio: gli abitanti partono al mattino per andare a lavoro, tornano la sera, e durante la giornata è raro incontrare qualcuno. Questo almeno nei primi tempi. Come succede sempre nei nuovi insediamenti, le famiglie erano formate prevalentemente da giovani coppie con bambini. Quei bambini oggi hanno fra i venti e i trent’anni, e nella maggior parte dei casi sono emigrati. Molti dei genitori nel frattempo hanno raggiunto l’età del pensionamento. Non c’è stato molto ricambio, e molte delle famiglie che ci abitano oggi sono quelle che hanno comprato casa alla metà degli anni Novanta.
Una comunità?
Io sono arrivato a Principina Terra intorno al 2001. Allora, nelle vie (tutte intitolate a volatili palustri: via del tarabuso, del germano reale, dell’alzavola…) non c’era ancora l’illuminazione pubblica. I lampioni furono istallati intorno al 2003.
Solitamente vado a letto molto tardi, perché mi piace il silenzio della notte. Ma qui, il silenzio era continuamente rotto dal passaggio delle macchine sulla strada delle Collacchie. Una strada trafficata a ogni ora, del giorno come della notte. Ma dove vanno, tutti questi, mi chiedevo. Dopo un po’ di tempo ho capito che il passaggio di così tante macchine era normale, perché al di là di Principina Terra nella direzione del mare ci sono molti poderi, sparsi per la campagna, oltre al fatto che questa strada congiunge Grosseto a Marina, a Principina a Mare, a Castiglione, e proseguendo a Scarlino, Follonica. Dall’altra parte c’è il capoluogo. Così è stato per tutti questi anni: mi svegliavo la notte e sentivo passare le macchine. In questi ultimi mesi, però, dalla metà di marzo in avanti, al contrario mi ha impressionato il non-passaggio delle macchine. Né di giorno, né di notte. Non passava nessuno. Dalla finestra vedo almeno un paio di chilometri di strada, e di notte, con i fari, le automobili si vedono ancora da più lontano. Scrutavo l’oscurità, ma non vedevo, come mi aspettavo, i fari che si avvicinavano. Questo silenzio, questa assenza, mi dava il senso di un tempo sospeso, dell’attesa di qualcosa che aspettiamo che passi… ma non sappiamo quando.
Un’altra assenza che ho notato sono i bus turistici. Nei primi anni 2000 la famiglia Bianchi, proprietaria della antica Fattoria La Principina che era stata dei Ponticelli, ha costruito un hotel nel mezzo della campagna. Lo ha chiamato “Hotel Fattoria La Principina”. È un complesso molto grande, forse fin troppo grande, per questa zona, che tuttavia è riuscito ad avere successo grazie all’accordo con le grandi imprese turistiche del Nord Italia e dell’Europa centrale. Si tratta di circuiti prestabiliti per i quali i servizi offerti vengono resi a un prezzo più basso, ma che garantiscono alle strutture recettive la continuità del flusso di clienti. Poiché né la viabilità né le indicazioni sulla strada sono chiarissime, e i dispositivi di geolocalizzazione inducono all’errore, per tutti questi anni abbiamo visto passare davanti a casa questi enormi bus. Arrivavano in fondo alla strada, facevano l’inversione con mille manovre e si attardavano nell’attesa di vedere qualcuno a cui chiedere le indicazioni giuste per raggiungere l’hotel. Come si vedeva arrivare uno di questi autobus si pensava: vai, anche questo s’è sbagliato, ora arriva in fondo e torna indietro. Anche di questi, gli ultimi sono arrivati a febbraio. Poi più niente. Come tutte le strutture turistiche, i ristoranti, i bar, anche l’Hotel Fattoria La Principina è rimasto chiuso in questi mesi. Sono quelle cose che fanno parte del paesaggio, non del paesaggio naturale, ma del paesaggio culturale, il rumore delle macchine, gli autobus che arrivano e che vedi ripartire al mattino presto per un’altra destinazione, carichi di gente, magari per visitare altre località della Maremma o dell’Amiata.
Un altro cambiamento che ho avuto modo di vedere in questi due decenni è l’edificazione della chiesa parrocchiale, finita di costruire nel 2009. Prima di questa data la gente si recava alla cappella gentilizia, in prossimità della casa padronale, fatta costruire dalla famiglia Ponticelli (allora proprietaria della tenuta) nel 1929 ed elevata a chiesa parrocchiale nel 1960. Per quanto possa sembrare paradossale, ma non lo è del tutto, la nuova chiesa è diventata un centro di aggregazione più laico che religioso. Soprattutto il sagrato. I ragazzi, fra i 15 e i 20 anni di età, hanno iniziato fin da subito a raccogliersi sugli scalini della chiesa, soprattutto a sera, talvolta fino a tarda notte. Sentire gli schiamazzi, le risate, qualche volta vedere una breve partita di pallone improvvisata sulla strada, in qualche modo rassicurava, dava il senso di continuità di quelle pratiche di quando eravamo ragazzi noi, oggi sessantenni. Anche in questo caso: il silenzio. Il Covid ci vieta le aggregazioni. I ragazzi forse sono quelli che hanno sofferto di più del lockdown.
È una comunità quella di Principina Terra? Ci sono alcuni segnali positivi. Uno sembra essere quello citato dell’aggregazione sul sagrato. Un altro punto di aggregazione, per età più avanzate, era costituito, prima dell’esplosione epidemica, da almeno uno dei due bar lungo la strada delle Collacchie, quello più vicino all’abitato. L’ex bar di Wanda, che con una delle ultime gestioni ha assunto il buffo nome di “Bar Coyote”, era un luogo di incontro e di scambio di informazioni, gli anziani soggiornavano in veranda giocando a carte e fumando un tabacco pestilenziale. Poco prima del lockdown erano stati avviati lavori di ristrutturazione, che naturalmente si sono interrotti in questi mesi, per riprendere solo con l’allentamento delle misure di sicurezza. La gente ha ricominciato a frequentarlo.
Un altro aspetto che depone a favore della comunità è l’istallazione, al margine della strada davanti alla chiesa, di un baldacchino con un cesto e un cartello con la scritta “chi ha metta, chi non ha prenda”. Si è notato un certo ricambio dei generi alimentari depositati nel cesto, e questo vuol dire che c’è qualcuno che mette e qualcun altro che prende. Si tratta di una iniziativa dal basso, per la quale non escluderei ci sia stato il suggerimento del prete, ma che comunque la gente sente come propria, e alla quale si rivolge sia nel dono, un dono anonimo verso ignoti fruitori, che nella ricezione, senza sapere chi sia il benefattore.
La comunità è soprattutto comunicazione: fra i cortili, dalle finestre, lungo i vialetti di accesso alle abitazioni, la gente incontrandosi in questi mesi di restrizione, di non lavoro o di lavoro a casa, come nel mio caso, approfittava per un saluto, per commentare le ultime notizie sentite in tv, per una nota di incoraggiamento “che presto finirà, vedrai…”. Qualche volta ho visto famiglie riunirsi in un cortile a chiacchierare, talvolta con e a volte senza mascherina, al limite del consentito dalle norme di restrizione. La compliance o meglio la sua assenza fa parte della popolarità delle pratiche.
Il lockdown ha anche stimolato, specie nella prima fase, una intensa attività di bricolage. Chi ha sistemato e ripitturato imposte delle finestre, chi ha verniciato i mobili di casa, chi le porte interne, chi ha rivoluzionato completamente il giardino o la piccola corte degli appartamenti al piano terreno.
Un episodio, invece, riguarda Grosseto, che nonostante l’espansione degli ultimi decenni, resta sempre un paesone. O almeno questa è l’impressione che fa a noi grossetani. Un pomeriggio nel primo periodo di restrizione, mi trovavo nella zona del tribunale, dove abitano i miei suoceri. È un quartiere nato negli anni sessanta e sviluppato nei settanta, palazzi alti e condomini numerosi. Da una terrazza venivano le note di una canzone di quegli anni: una ragazza aveva portato lì due grosse casse acustiche, e cantava accompagnandosi con la chitarra. Nei palazzi dirimpetto la gente si affacciava alle finestre e ai balconi. Mi sono soffermato ad ascoltare. Al termine del brano tutta la via applaudiva.
L’ultima nota riguarda l’amico colpito duramente dal Covid, che finalmente dopo 60 giorni di isolamento, le prime due settimane dei quali in grave difficoltà respiratoria, ha ricevuto la risposta del secondo tampone negativo. Ogni giorno ha tenuto i suoi amici di Facebook aggiornati sulla sua condizione, i suoi stati d’animo, manifestando a volte la speranza di poter tornare ad abbracciarci, o lo scoramento, lo sfogo di rabbia per la sua sorte o per qualche notizia sulla gente accalcata sui Navigli o a Napoli, sulle dichiarazioni farlocche di Trump. Un modo per restare in contatto col mondo, per dimostrare a se stessi di esserci ancora. Massimo, questo è il suo nome, in un certo senso è fortunato, perché sa utilizzare questi dispositivi, fa parte di una comunità social numerosa, e ogni giorno ha ricevuto parole di incoraggiamento. Ma penso a chi, trovandosi nelle stesse condizioni, e alla stessa età di settantenne, magari usa ancora il telefonino di prima generazione. Anche il poco, di fronte al nulla, diventa tanto.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
______________________________________________________________
Paolo Nardini, consulente e ricercatore per l’Archivio delle tradizioni popolari della Maremma (un centro di studi e ricerche attivo nel sud della Toscana) dal 1986 al 2015 e presidente dal 2015. Dal 2016 cura le visite e organizza laboratori presso la Collezione Etnografica “Roberto Ferretti” di Grosseto. È impegnato nella ricerca antropologica e nella documentazione e promozione della conoscenza delle attività tradizionali popolari; si è occupato di migrazioni, di identità etnica, di storia orale, di poesia estemporanea e di musica popolare. Ha curato l’edizione di alcuni volumi, fra i quali: La Casa Rossa. Memorie di acqua e di vita. Genti, memorie, saperi del padule maremmano (1999); L’arte del dire. Atti del convegno di studi sull’improvvisazione poetica (1999); Delle erbe e della magia (2008); Improvvisar cantando. Atti dell’incontro di studi sulla poesia estemporanea (2009); Il cerchio magico. Atti del convegno sulle figure magiche nella narrativa di tradizione orale in Maremma (2011); La nave dei poeti ancora viaggia. Incontri dei poeti estemporanei a Ribolla (2012).
______________________________________________________________