di Annalisa Di Nuzzo e Benedetta Marocco [*]
1. Migrazioni, Complessità, Tempo
La complessità dei temi legati alle migrazioni postmoderne e il dispiegarsi di innumerevoli categorie di soggetti che migrano continuano a caratterizzare la mia ricerca sull’osservazione e la definizione di quanto avviene nel Mediterraneo, sempre più attraversato da ambivalenze e contraddizioni nella nostra percezione attuale di europei e non. Per un verso, il Mediterraneo è un mare di morte e disperazione, capolinea di percorsi drammatici, di flussi umani da varie parti del mondo, ma anche per un altro verso, è immaginario turistico di luoghi felici e incontaminati, arcipelago, come lo definisce Cacciari, fatto di isole e penisole, porti e città, spazio di contaminazioni e confronti. La tensione ermeneutica si dibatte tra questi due aspetti consustanziali e ossimorici nello stesso tempo, ossia le migrazioni e la ricerca di un altrove che non sia dettato dalla disperazione e dalla sofferenza, ma da desideri e nuove serene dimensioni di quotidianità.
Lo studio di cui tratta questo saggio racconta una particolare ‘Sun Migration’, di cui sono protagonisti gli italiani e non solo, avente come meta le isole Canarie. Il Mediterraneo è in quest’ottica una porta d’accesso reale e metaforica verso le Isole Canarie, è sempre più un luogo geografico e simbolico da analizzare alla luce di questi due grandi fenomeni del nostro tempo: migrazioni e turismo. Nel Mediterraneo si condensano le contraddizioni più stridenti della post modernità e si ritrovano allo stesso tempo le radici più profonde di gran parte dell’Occidente, insieme alle spinte al mutamento. La mobilità, il movimento, l’incontro degli esseri umani, che tanta parte hanno nelle mie ricerche, nel Mediterraneo finiscono con il sovrapporsi e interagire ponendo a confronto due antropologie, quella delle migrazioni e quella del turismo.
“Animali nomadi” gli umani lo sono sempre stati, ma nelle connotazioni attuali la spazializzazione vive un enorme paradosso: rapidità dello spostamento e contemporaneamente sistematico e scientifico contrasto alle migrazioni. Localismi stanziali che si radicano da una parte, insieme a forme di globalizzazione dall’altra. L’atavica necessità del migrare, che ha rappresentato storicamente uno degli elementi costitutivi e generativi delle culture, si configura oggi in opposizione a forme di esasperata sedentarietà occidentale.
In questa ricerca si tende a definisce una particolare forma di migrazione ibrida tra bisogno e disperazione da un lato e desiderio e aspirazione di un luogo e un tempo liberato dalla fatica. Questi specifici flussi migratori sembrano identificare le nuove soggettività, i ruoli sociali e culturali emergenti, gli immaginari ovvero la sfera delle costruzioni ideali delle località verso i quali convergono i migranti e i viaggiatori/turisti.
La ricerca è frutto di un lavoro a quattro mani in collaborazione con una giovane studiosa che ha messo in luce quanto il fenomeno migratorio riguardi anche le società occidentali, gli europei. In questo caso, i percorsi migratori e le rotte non sono solo quelli a partire dal sud al nord del mondo o da oriente ad occidente, ma le trasmigrazioni sono dentro l’Occidente e e contribuiscono a dare nuove prospettive di lettura dei fenomeni che investono l’attuale complessità del mondo post-moderno.
Questa specifica migrazione sembra raccogliere, come emerge dal lavoro sul campo, quanto gli immaginari turistici, quelli del rifiuto del modello panottico post fordista dell’efficienza, delle prestazioni lavorative e dei suoi tempi e la ricerca di ben-essere di un mondo rallentato e plasmato da un clima mite e da un uso del tempo diverso, si coniughino con antichi e atavici desideri dell’essere umano. In particolare, il tempo nella post modernità anche a seguito della pandemia ha assunto nuove dimensioni. Se è vero che il tempo è distensione dell’anima, si coniuga inevitabilmente l’altro elemento dialetticamente contrapposto, ma irrimediabilmente congiunto negli attuali vissuti: la frammentazione, come perdita del senso del fluire armonico del tempo.
Il tempo è, assolutamente, il senso che noi diamo alle cose e la “mancanza di tempo” non è altro che la mancanza di noi attraverso la negazione di noi. Come ogni tassello dell’attuale post-modernità, il concetto è ambivalente: è denso e leggero allo stesso tempo. C’è una tensione tra i differenti tempi sociali che si manifesta sotto forma di ciò che chiamiamo “pressione temporale”. Il tempo è sempre più vissuto come obbligo; appare come un “problema”, e si ha l’impressione che manchi tempo al tempo, quella famosa “mancanza di tempo” che altro non è che l’indice della contraddizione crescente tra i tempi sociali e del cambiamento progressivo della temporalità, cioè del tempo dominante.
È questa una della più forti motivazioni alla migrazione degli italiani verso Le Canarie, che vivono questa sempre più radicale contraddizione tra tempo dominante e tempo desiderato. La mancanza di un’autentica percezione del tempo, ossia di una proficua sintonia, con l’inevitabile crisi dei vissuti, si verifica in tutte le epoche storiche quando si evidenzia una frattura tra tempo dominante e tempo percepito. Il “tempo del lavoro” appare ancora come il tempo dominante generale, mentre non lo è più dal punto di vista della rappresentazione collettiva.
In tal senso, si individua un’ulteriore modalità di percezione che ha determinato una delle nevrosi temporali tipiche del nostro tempo ereditata dalla modernità: il tempo “in anticipo su se stesso” (Sue,2001) Questa categoria di vissuto implica la concentrazione temporale a discapito della distensione. La temporalità è proiettata continuamente nell’avvenire e assume la forma del progresso continuo, come se la società fosse sempre in ritardo sul suo tempo. Da tale presupposto il tempo si è sedimentato nella percezione sociale attuale come tempo della concentrazione, dell’apparente sovrabbondanza che non si distende ma che implode su se stesso, provocando i frantumi che determinano schegge identitarie e relazioni parcellizzate.
Nel corso degli ultimi decenni, le progressive affermazioni dei diritti dei lavoratori, la diminuzione delle ore di lavoro settimanali e le nuove tecnologie hanno, d’altra parte, operato quell’orizzonte di presunta liberalizzazione del tempo. In special modo, lo spazio e il tempo non sono più legati così come lo erano nella modernità; il tempo è de- spazializzato, non c’è più un centro ed una periferia, le relazioni attraverso il web hanno radicalmente destrutturato e ristrutturato il tempo. I lavori provvisori nel campo dei servizi, part-time, flessibili, in gran parte femminili e scarsamente strutturati hanno sostituito (in modo parziale e limitato) i lavori industriali, del posto fisso, a tempo pieno, rigidamente cronometrati, in gran parte maschili e solidamente impiantati. Questa sostituzione è la nuova spia di un inesorabile logoramento del tempo dominante e segnale di una temporalità complessa.
La ricerca di tempo liberato tende a nuove forme di individualismo libero dalle concezioni del lavoro industrializzato che spinge a nuove ricerche di definizioni della propria soggettività non disgiunte dal benessere. Il tempo libero viene ad identificarsi, essenzialmente, come tempo del privato, una privatizzazione che produce una delle categorie dominanti della post-modernità, costruita attraverso una socializzazione informale e non più legata ai tempi tradizionali, una nuova forma di individualismo che non è solo ripiegamento su se stessi e segnale di crisi della società, come sostiene Bauman, ma un nuovo modo di vivere le relazioni sociali multiformi e mutevoli.
Nell’individualismo contemporaneo, è da considerare una nuova figura dell’individuo sociale che non può essere compresa se non la si mette in relazione con la nuova configurazione dei tempi sociali, ove il tempo liberato come tempo dominante produce le nuove espressioni sociali dell’individualità. Tuttavia, l’emergere di questo specifico individualismo di questa privatizzazione nasce da una frattura insanabile tra pubblico e privato, dalla valorizzazione della sfera personale in antitesi alla sfera pubblica di cui il lavoro con i suoi tempi è l’elemento centrale. A prima vista, sembra che il valore lavoro sia ancora dominante, ma esso lo è solo in quanto assume valore strumentale, come mezzo per ottenere sempre più tempo liberato. Il tempo libero, così, non abolisce il lavoro di cui è il prodotto, ma lo marginalizza, diventando tempo dominante.
Queste nuove migrazioni numericamente sempre più rilevanti sono il segnale di questo mutamento. Il tempo “di svago” all’interno del tempo libero dominante non è considerato come semplice tempo di distensione, di ricreazione o di “perdita di tempo”, ma luogo di una creazione di sé, spazio di investimento, di scambi, d’istruzione, di autoaffermazione, di riconoscibilità sociale. Di pari passo, il lavoro è sempre più discontinuo e frammentato, la realizzazione di sé si esprime sempre di più fuori dal lavoro. Indubbiamente con il dominio del tempo liberato, la molteplicità delle tipologie possibili, la parcellizzazione sociale, la multi-appartenenza e l’irriducibilità dell’individuo ad un gruppo sono gli elementi determinanti che fanno chiarezza sulla complessità del mondo sociale, apparentemente meno gerarchizzato e più democratico, ma anche più esposto ai fenomeni della moda, agli effimeri movimenti, alle gerarchie mutevoli.
Sempre meno strutturato dalle categorie nate dal lavoro, questo nuovo tempo non è ancora definito nella rappresentazione sociale delle pratiche del tempo liberato e allora si comprende il perché spesso il sentimento più diffuso è quello di “disordine” e di “vuoto” che si percepisce, se non addirittura di anomia, non riuscendo ad essere ancora un tempo strutturante, ritarda la comparsa di un nuovo ordine sociale. Tuttavia, questa forma di emigrazione tenta di definire questo nuovo modo di vivere la condizione post-moderna da parte degli occidentali, l’obiettivo di superare il disordine e la sensazione di vuoto, coniugando individualismo, forme del privato e voglia di comunità e di condivisione. Si tratta indubbiamente di un fenomeno trasversale che si manifesta nelle diverse fasce d’età e classi sociali, anche se le giovani generazioni sono la prime a vivere in simbiosi con il nuovo tempo liberato, sono la prima visibile manifestazione di questa mutazione, che si può sintetizzare come una necessità di socialità estensiva nella forma di una socializzazione in rete, nel senso di una “vera” comunicazione in antitesi alla comunicazione necessariamente verticale dell’impresa o a quella anonima ed eterodiretta dei mass media.
Anche per la altre generazioni, come emerge dalle interviste dell’indagine condotta da Benedetta Marocco , per molti di loro si è determinata una frattura con l’illusione di un lavoro come modo di realizzazione di sé, perché non sono più colpevolizzati dall’inattività, non considerano più il tempo liberato come “meritato”, come un tempo di compensazione, ma al contrario come centro della loro esistenza, come lo spazio privilegiato della ricerca e della realizzazione di sé, essendo il tempo liberato non più limitato ad un tempo di consumo ma concepito come tempo di creazione, di costruzione, di produzione di sé, della socialità, e in fin dei conti, di produzione sociale. Una nuova esigenza di utopia, un antico e mai superato tema delle costruzioni sociali ideali con la necessità di coniugare riflessioni e considerazioni care ai diversi piani teorici di altre generazioni, tanto da far riemergere come attuali le puntuali e acute riflessioni, tra eros e civiltà, creatività, tempo della produzione e/o della liberazione delle proprie pulsioni tra fantasia e poteri regolativi. Allora, si potrebbe lasciare ampio spazio ad una nota pagina di Marcuse sulla liberazione dell’uomo contemporaneo che può essere di grande aiuto anche all’uomo post-moderno (Marcuse, 1969: 34):
«[…] la scienza e la tecnologia dovrebbero cambiare i loro attuali indirizzi e scopi; dovrebbero essere ricostruite in accordo con una nuova sensibilità – le esigenze degli istinti vitali. Allora si potrebbe parlare di una tecnologia liberatrice, prodotto di un’immaginazione scientifica libera di progettare e disegnare le forme di un universo umano liberato dalla fatica. La riduzione quantitativa del lavoro necessario potrebbe trasformarsi in qualità (libertà) non in proporzione alla riduzione stessa, ma piuttosto in rapporto alla trasformazione della giornata lavorativa che permetterebbe di abolire i lavori pseudo automatici, snervanti. Ma l’edificazione di una simile società presuppone un tipo di uomo con una diversa sensibilità; un uomo che dovrebbe parlare una lingua diversa, fare gesti diversi, seguire impulsi diversi. Questa trasformazione può diventare un fattore di cambiamento sociale solo se entra come componente nella divisione sociale del lavoro».
Una trasformazione sociale, aggiungo, che deve permeare i nuovi tempi sociali in cui l’uomo “a più dimensioni” si concede tempo e definisce i tempi come disponibilità di coniugazioni sempre pronte ad aprirsi all’alterità, superando ogni inadeguatezza, concedendosi, finalmente, i tempi giusti. In questo proliferare di rotte, percorsi migratori, partenze e approdi, viaggi e spostamenti come mai prima da parte dell’umanità, si fanno strada e riemergono altri antichi bisogni millenari, riflessioni sulla voglia di comunità, di fughe dal presunto benessere occidentale e la ricerca di nicchie all’interno del mondo occidentale. Un voler ritrovare l’esotico e il primitivo, come sostiene Rachid Amirou (1995: 20), frutto di una forte idealizzazione della natura e dei gruppi umani ritenuti “autentici” (come le figure tipiche del paesano o del pescatore), che riportano ad un’idea di mondo idilliaco nel quale l’uomo era in perfetto accordo con il suo prossimo e con l’ambiente. Un tempo vissuto con consapevolezza e desiderio di viaggiare per cui, come viene sottolineato nel corso della seconda parte del saggio in queste specifiche migrazioni, non si parte perché si è poveri, ma perché si è alla ricerca di un Paese dal welfare più protettivo, dalla cultura più inclusiva, dalla politica meno opprimente. In definitiva, non si parte perché si è costretti, ma perché si vuole.
2. Viaggi, altrove immaginari, etnografie
Lo spostamento e il movimento era secondo Aristotele una delle caratteristiche dell’anima sensitiva e di quella razionale. Attraverso i millenni, la possibilità di sposarsi diventa un diritto unito a quello del ben-essere come recita la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani:
Articolo 13: 1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato.2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.
La vera dignità dell’essere umano è tale solo se si è si è messi in grado di attivare le proprie capacità nonché il desiderio di vita dignitosa e del ben-essere frutto di quelle che Martha Nussbaum definisce nel suo essenziale ed efficace decalogo le Capability (2011). Le capacità al plurale per sottolineare che gli elementi più importanti nella qualità della vita delle persone sono molti e qualitativamente distinti: salute, integrità fisica, istruzione e altri aspetti dell’esistenza individuale non possono essere ridotti ad un unico criterio e soprattutto non possono prescindere dall’altro e dalla diversità che lo contraddistingue.
La ricerca dunque del “proprio posto nel modo” non è soltanto metaforica, ma reale, così come il viaggio è metafora della ricerca ma soprattutto concreto attraversamento di spazi e luoghi e con essi si definiscono desideri, bisogni da realizzare e talvolta realizzati. Intorno al viaggio e al viaggiare si materializzano diversi immaginari, etnografie inventate e realistiche, racconti mitici, progetti di vita, riflessioni etico-politiche fino alle trasformazioni che i processi simbolici subiscono ai nostri giorni attraverso le specifiche spinte migratorie. Il viaggio apre alla possibilità del rapporto con l’altro e con l’altrove che lo abita e consente la definizione della propria identità.
Da qui la domanda e il tentativo di definizioni su chi sono questi italiani che emigrano alle Canarie, quali gli altrove immaginati e poi abitati nel loro percorso migratorio. La spinta utopica da cui nasce il bisogno di altrove immaginari muove dall’impossibilità di agire e di vivere secondo i nostri desideri. Questo orizzonte di senso tende a soddisfare dunque la ricerca collettiva di un ancestrale felicità, un desiderio plasmato attraverso le utopie colte e popolari fin dai tempi più antichi e nelle diverse culture umane, l’anelito ad un universo pacificato, che non conosce dolori né lotte fratricide, dove la tristezza non esiste, così come l’inquietudine, e si vive in un presente senza mutamento e senza fine, senza cieli perturbati e notti senza luce, lontano dalla minaccia della storia e dalla devastazioni della morte.
Il luogo senza luogo di ogni utopia è sempre raggiungibile attraverso un lungo viaggio con il rischio dell’attraversare spazi infidi e irraggiungibili. Sia per la letteratura colta che per quella popolare, si immagina un luogo ideale: Paese di Cuccagna o di Bengodi, isole Fortunate o della felicità, La città del Sole, Utopia, persino Campi Elisi e Eden. Si tratta di archetipi delle strutture antropologiche dell’immaginario, presenti sia nei miti e racconti orali sia nella letteratura scritta. Due le componenti fondamentali: la prima è l’isola-giardino, nella quale nessun progetto è necessario perché si tratta di paradisi terrestri, che abbondano di tutto al punto da richiedere solo un minimo di saggezza nello sfruttamento; la seconda prevede un’isola con città, in cui un popolo è diventato felice per aver scelto la più saggia forma di convivenza che, descritta tramite un reportage, un resoconto di viaggio, è il modello verso cui tendere per trasformare la società.
Più radicale ed essenziale è l’utopia popolare della Cuccagna, che soddisfa i bisogni della fame e le delizie dell’amore ed elimina ogni differenza sociale:
Là non bisognan gonne né giupponi,
né camiscie, né brache, a nissun tempo:
nudi van tutti,mamolle e garzoni.
Non ci è freddo né caldo d’alcun tempo… [1]
Ed ancora sull’uguaglianza sociale:
Non v’è duca, né signor, né conti
Ognuno ci vive con la sua libertade [2]
Allo stesso modo, la letteratura filosofica descrive gli stessi desideri nobilitati da una forte tensione rivolta al Bene e al Vero, l’isola di Utopia di Moro e la Città del Sole di Campanella (solo per citarne alcuni esempi) soddisfano gli stessi bisogni e riguardano definizioni geografiche collocabili in esotiche dimensioni oltre l’Europa. L’insularità che caratterizza tutti i luoghi utopici è sinonimo di isolamento dal mondo corrotto, di distanziamento e lontananza per evitare ogni contaminazione; nel caso di Moro e di Campanella è il luogo della fondazione di una comunità ideale, il campo di sperimentazione di quanto è pensabile in termini di valori di giustizia, libertà e uguaglianza. Niente è più vero di un’utopia, scriverà Tommaso Moro. Luoghi dunque di luce e di clima temperato, luoghi legati alla solarità sia reale che metaforica. Campanella fa descrivere così dal suo viaggiatore-personaggio gli abitanti della sua Città del Sole (ed. 1977: 23):
«Io non so disputar, ma ti dico c’hanno tanto amore alla patria loro, che è una cosa stupenda, …perché è bello a vedere, che tra di loro non ponno donarsi cosa alcuna, perché tutto hanno del commune. E l’amico si conosce tra di loro nelle guerre, nell’infirmità, nelle scienze, dove studiano e s’insegnano l’un l’altro. E tutti li giovani s’appellan fratelli, e quei che son quindici anni più di loro, padri, e quindici meno, figli. E poi vi stanno l’officiali a tutte cose attenti, che nessuno possa all’altro far torto nella fratellanza».
Resta costante in tutte la letteratura utopica il tema del “lavorare tutti lavorare meno”, di un’organizzazione in cui ciascuno deve avere dignità del lavoro e liberarsi dalla fatica opprimente e disumana. Così ancora Campanella (ed. 1977:23):
«[…] invece tra loro, ripartendosi le attività a tutti e le arti e fatiche, non tocca faticare che quattro ore il giorno per uno; così ben tutto il resto è imparare giocando, disputando, leggendo, insegnando, camminando, e sempre con gaudio. E non s’usa gioco che si faccia sedendo, né scacchi, né dadi, né caste o simili, ma ben la palla, il pallone, rollo, lotta, tirar palo, dardo, archibugio…Perciò la comunità tutti li fa ricchi e poveri ricchi ogni cosa hanno e posseggono; poveri, perché non s’attaccano a servire alle cose, ma ogni cosa serve a loro».
Dunque liberare il tempo, non essere ostaggio della fatica e della ricchezza, ma allo stesso tempo non aver bisogno di nulla perché tutto è utilizzabile da tutti. Sembrerebbe che nulla sia cambiato nella ricerca della felicità e del ben-vivere, ma nell’utopia contemporanea del viaggiatore/migrante l’altrove deve essere raggiungibile, il luogo non è non-luogo, ma si definisce e si concretizza in isole da raggiugere oltre le colonne d’Ercole legate all’Europa e al Mediterraneo e tuttavia luoghi soglia e di confine di un immaginario geografico che le colloca in mondi altri, legati all’Africa, agli oceani, al viaggio di Colombo verso il Nuovo Mondo e all’ignoto.
Ancora una volta, il viaggiatore-migrante riunisce in sé il gusto per il movimento, la passione per il cambiamento, il forsennato desiderio di mobilità, la passione per l’indipendenza. Così gli intervistati sono protagonisti di un’etnografia della contemporaneità che ripropone e riscrive i temi e le esigenze metastoriche degli esseri umani. Basta rileggere con attenzione quanto raccontato dai migranti nelle loro storie di vita per riconoscere le ataviche richieste e i desideri sul tempo, sul lavoro, la coraggiosa scelta di optare per la sostenibilità, e su come la differenza di genere sia vissuta dalle donne con coraggio e assertività, lasciandosi alle spalle sogni di affermazione in contesti di economie capitalistiche. Interviste che restituiscono etnografie di una migrazione che non rinuncia ai sogni e alla felicità insieme alla prospettiva di realizzare un mondo migliore e più giusto che consenta di vivere una vita in armonia con il tutto, una utopia realizzata, insomma, un lavoro che dia dignità senza annullare il desiderio e la sostenibilità. Frammenti di un’etnografia reale ed utopica allo stesso tempo, che descrive concreti percorsi e allo stesso tempo desideri da appagare in una terra che sa di sogno e in una realtà di protezioni e liberazioni.
3. Definizione, caratteristiche e classificazioni
La sunmigration (la migrazione del sole) equivale al trasferimento abitativo verso i Paesi più caldi ed assolati del meridione, verso le isole della luce. L’Italia da Paese di destinazione delle migrazioni eliotropiche sta diventando Paese di provenienza, con la dislocazione in via definitiva e l’acquisizione di case alle Isole Canarie (Gjergji, 2015).
L’emigrazione contemporanea dei 50.143 italiani residenti stabilmente in territorio canario è in primis un espatrio da burnout e da cronicizzazione dello stress. La sindrome da esaurimento professionale, riconosciuta come “fenomeno occupazionale” dall’OMS nel maggio del 2019, è l’esito patologico di un processo stressogeno che interessa diversi operatori e professionisti impegnati quotidianamente in attività che implicano relazioni interpersonali. Tale stato è caratterizzato dalla sensazione di alienazione e di completo esaurimento delle proprie energie fisiche e mentali (Maslach e Leiter 2000). I carichi di lavoro monotoni, ripetitivi, senza sfide e obiettivi protratti nel tempo provocano lo sfinimento. Gli italiani “bruciati” migrano per allentare i propri ritmi di vita e per migliorare la qualità del tempo.
Rispetto alle migrazioni post-fordiste sono maggiori gli espatri di individui di sesso femminile tra i 20 e i 45 anni provenienti dal Nord Italia e non più consistentemente dal Mezzogiorno (De Clementi 2014). La novità consiste nell’avvio di un’emigrazione “proletaria ed operaia”, caratterizzata dalla netta provenienza urbana. Non si tratta né di fuga di cervelli né di skilled migration: emigrano i diplomati e le masse senza particolari qualifiche. I trasferimenti italiani, inoltre, sono caratterizzati dalla fondazione di aziende: questa particolare tipologia di emigrazione può essere denominata “imprenditoriale e lavorativa” e sta incrementando in contemporanea l’instabilità sociopolitica dell’Italia negli ultimi decenni, che ha subìto così sconsolata la perdita di tante menti e tante braccia. Tale esodo è altresì “meritocratico”: oggi se ne vanno anche i talenti semplici, coloro che offrono e forniscono le loro competenze intellettuali ed esecutive al servizio di qualsiasi nazione che li metta in risalto, li apprezzi e li tuteli come individui e lavoratori.
Tra Italia e Spagna non vi sono, istituzionalmente parlando, regolamentazioni direzionali e/o di accompagnamento specifico dei nuovi emigranti alla partenza; coloro che arrivano sono abbandonati alle competenze individuali del singolo lavoratore e al compiacimento di queste capacità nel mercato lavorativo del Paese di accoglienza. Quest’apprezzamento è determinato dal grado di specializzazione e di titoli di cui è portatore il singolo emigrante. L’inserimento nei Paesi di arrivo è legato a suddette proprietà individuali diversificate.
Oggi siamo in un’ottica di “anomia e individualismo migratorio”. Questo fenomeno migratorio contemporaneo non può essere rapportato a fattori prettamente economici, soprattutto nel caso spagnolo. Le cause dipendono molto dalle condizioni peculiari degli emigranti. Ed è fondamentale notare, in questo contesto, la presenza di una catena di supporto sociale e di una rete migratoria che, anche se non si basa sui parenti e sui consanguinei, si impernia su amici e conoscenti.
Dei 287.458 stranieri residenti nelle Isole Canarie (su una popolazione di 2.176.412 abitanti), la colonia italiana è la più numerosa (17,3%) e la sua presenza è divenuta preponderante soprattutto nei mesi successivi al lockdown. Il tasso è di 22,9 italiani ogni 1000 abitanti. In Spagna l’età media dell’italiano migrante è nettamente inferiore (39,7 anni): si emigra alla ricerca di impieghi dove la componente dei pensionati grava parzialmente poco (Fondazione Migrantes 2022). Attraverso il trasferimento si rivalutano le priorità di vita, si acquisiscono nuovi valori, si attribuiscono nuovi significati all’esistenza e si risana la psiche (segno di resistenza e di rinascita). Diretta conseguenza di tale drastica trasmutazione è il non ritorno. Una volta a destinazione si lavora sull’aspetto esperienziale ancorato nell’hic et nunc. Non si parte perché si è poveri, ma perché si è alla ricerca di un Paese dal welfare più protettivo, dalla cultura più inclusiva, dalla politica meno opprimente. Non si parte perché si è costretti, ma perché si vuole (Livi Bacco, 2015).
4. L’approccio metodologico: dal lavoro sul campo alla netnography
Tale esclusiva e speciale migrazione dai lineamenti multiformi e compositi è stata oggetto di un’indagine sperimentale di antropologia delle migrazioni. La etnografia della comunicazione (vera e propria analisi sociologica ai tempi di Facebook) si è avvalsa dell’alternanza di fonti miste sia virtuali (in assenza) sia raccolte (in presenza) tramite l’esperienza e il lavoro sul campo. Il metodo etnografico classico e la ricerca sul campo, che consiste nei metodi di osservazione, partecipazione e notazione dei fenomeni sociali indagati, hanno consentito un’operazione di full immersion all’interno di tale situazione socioculturale. Estremamente attiva è stata la partecipazione alla vita del gruppo in occasione di momenti di svago ed eventi culturali nelle città di Corralejo e Los Cristianos, dove gli italiani naturalizzati vivono. Durante questa fase sono stati raccolti e trascritti i diari intimi e sono stati fissati molteplici incontri con gli attori. Le interviste frontali, libere, tematiche e biografiche sono state registrate in presa diretta attraverso microfoni e telecamere che hanno permesso la realizzazione di veri e propri filmati e reportage fotografici.
L’osservazione partecipante (Malinowski 2011) [3] è una tecnica di ricerca etnografica incentrata – come è noto – sulla prolungata permanenza e partecipazione alle attività del gruppo sociale studiato da parte del ricercatore, al fine di compilare questionari ed intervistare informatori privilegiati; mentre le interviste hanno prodotto rappresentazioni della realtà dialogate e significative, cooperativamente costruite con l’intervistato. Pongono al centro il mondo visto attraverso la storia di una persona e pongono le distanze da un uso esclusivamente strumentale della conoscenza. L’ascolto della storia di vita strategico, profondo e non giudicante è inteso come viaggio ed esplorazione nelle rappresentazioni altrui. Pertanto, l’etica antropologica si impernia sull’etica del rispetto della persona e della distanza prossemica nell’ottica di un approccio dialogico che pone il fulcro del suo scopo sul “dare voce”.
D’altra parte, il metodo netnografico è un procedimento di ricerca qualitativa etnografica che ha l’obiettivo di studiare le interazioni sociali nei contesti comunicativi digitali contemporanei (online). La netnografia (Kozinets2019) si serve di pratiche relative al raccoglimento di dati, all’analisi, all’etica della ricerca e alla rappresentazione, radicati nell’osservazione dei partecipanti per indagare le collettività online, studiare gli immaginari antropologici, le nuove forme di fierezze identitarie e le nuove soggettività transculturali. È un metodo di ricerca interpretativo che adatta le tecniche di osservazione partecipante tradizionali allo studio delle interazioni, delle esperienze e delle pratiche quotidiane di produzione culturale che si manifestano tra gli utenti della rete attraverso le comunicazioni digitali. Si avvale dell’utilizzo di strumenti digitali o ICT (Information and Communications Technology) che travalicano i confini dello schermo e si configurano come luogo abitabile da parte dell’utente. I social networking sites (ed in particolar modo Facebook) diventano un campo definito e accessibile alla metodologia etnografica. La conduzione di tale ricerca ha contemplato l’analisi dell’attività online di un gruppo di utenti (dai 17 ai 72 anni), particolarmente attivi su Facebook e avvezzi alla condivisione di contenuti impegnati e al contempo eccentrici (tale osservazione specifica e strutturata è durata circa sei mesi: da giugno 2022 a dicembre dello stesso anno); successivamente, sono seguite una serie di interviste tramite questionari, sondaggi tra gli utenti (online surveymethod) e l’osservazione delle dinamiche online.
Le interviste strutturate e preimpostate sono state effettuate tramite questionari suddivisi in vari blocchi ed a risposta aperta, somministrati attraverso l’app SurveyMonkey lanciata su Messenger, il programma di messaggistica istantanea utilizzato da Facebook. Il dibattito è stato aperto anche su alcuni blog e forum (tra cui Telegram, Twitter, Pinterest, LinkedIn), su vari social di grande diffusione (tra cui Youtube), su vari gruppi Facebook, quali “Italiani a Fuerteventura”, “Italiani a Corralejo”, “Italiani alle Canarie”, “Italiani We love Canarie”, “Italiani a Tenerife”, “Italiani residenti alle Canarie”, il cui numero dei membri varia da un minino di 5 mila per arrivare ad un massimo di 50.000. Sono state utilizzate le chat di Whatsapp, Instagram e WeChat come scambio prezioso di informazioni ed estratti commenti significativi da gruppi di lavoro come Reddit, Viber e Quora. Infine, si sono sistematicamente organizzate videochiamate tramite le piattaforme Zoom, Google Meet e Skype. Alle fasi di indagine online sono, infine, susseguite fasi di osservazione statistica inferenziale offline.
Le interviste, raccolte frontalmente e tramite il personal computer, hanno preso vita in risposta ad uno schedario-questionario schematico, proposto e fornito sistematicamente ai conversanti. La campionatura totale, proveniente da Puglia, Campania (Napoli), Calabria, Sicilia, Veneto, Toscana, Emilia-Romagna e Lombardia (Milano), conta con una somma di 75 responsi, di cui 46 donne e 29 uomini (Pugliese, 2015). Ciò che è stato richiesto ai rispondenti è stato di fornire un feedback con parole loro ad una domanda aperta, che non consentisse ai rispondenti di scegliere un’opzione di risposta tra quelle predefinite. I quesiti sono serviti essenzialmente a non perdere di vista il focus della discussione e ad incanalare la conversazione, che però è sempre stata dischiusa al racconto di aneddoti personali. Quest’ultimi hanno offerto la possibilità ai colloquianti di potersi raccontare, potersi giustificare nelle proprie scelte di vita, riconoscersi, incontrarsi, consentendo uno studio del sé, un vero e proprio saggio di neuroscienza e studio del comportamento umano ed antropologico, di ricerca dell’identità umana.
L’asse investigativo si è imperniato sui seguenti interrogativi: Perché si è andati via dall’Italia, da quale zona si è partiti, a che età? Che lavoro si svolgeva in patria prima di abbandonarla? Che concezione ed immaginario si ha del proprio Paese e del Paese di destinazione? Quali erano e sono le aspettative alla partenza e le agevolazioni che spettano ai residenti delle sette isole dell’arcipelago, in quanto a tassazione, burocrazia e tutele? Si è cercato, inoltre, di assumere informazioni importanti circa i parametri di pubblica sicurezza, istruzione, sanità, del costo della vita e della situazione lavorativa in loco.
Il primo step è stato, dunque, quello della pianificazione della ricerca, individuazione di un quadro teorico e scelta degli strumenti di osservazione e analisi. Successivamente è sopraggiunto l’ingresso sul campo, l’osservazione e la partecipazione. L’adaptation del metodo etnografico al cyberspazio ha dato forma a un tipo di osservazione ascrivibile a quello di chi spia qualcuno dal buco della serratura. A ciò è seguita una fase di osservazione offline dei dati raccolti: l’archiving. L’obiettivo era quello di creare un network conversazionale in cui ognuno trovasse il proprio spazio per raccontare il proprio personalissimo viaggio che, con tanto coraggio, li ha portati in aereo, in van o in nave fino alle isole dell’eterna primavera, senza filtri e setacci artificiosi.
Per fornire una stima quantitativa e qualitativa sono stati consultati numerosi enti pubblici quali l’UNCHR (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), la Fondazione Migrantes e la Caritas Italiana, la CEI (la Conferenza Episcopale Italiana), l’ISTAT (l’Istituto nazionale di statistica) italiano e l’ISTAC spagnolo (l’Instituto Canario de Estadística) e tutti i portali online della pubblica amministrazione canaria e del Gobierno de Canarias(come il BOC, il Bollettino Ufficiale delle Canarie, l’e-portal Turismo de Islas Canarias e i Datos Abiertos de Canarias).
5. I primi risultati investigativi, sociologici ed emozionali
Ciò che risulta da tale ricerca è, in primis, che i social consentono la costruzione di una blog-grafia e di una comunicazione autentica della quotidianità che ora può essere condivisa (Di Nuzzo 2020). Danno spazio alla condivisione dei sentimenti e delle emozioni primarie (quali gioia, tristezza, rabbia, paura, disgusto e sorpresa) che, mescolate a quelle secondarie, come il senso di colpa, l’invidia e la vergogna, affiorano con naturalezza e spontaneità in ogni testimonianza dell’archivio elettronico. I migranti, ognuno dei quali con storie, forze, debolezze, malizie e sensibilità proprie, tramite il racconto narrativo e la negoziazione del proprio sé con l’Altro (con il ricercatore), hanno potuto riconoscere e dare un nome alle emozioni vissute, costruirsi un vocabolario proprio per parlare dei sentimenti e per reagire, accettare con maggior consapevolezza e coscienza i propri limiti, le proprie scelte e i rischi eventualmente connessi alla nuova condizione di vita.
Dai risultati emerge che ci si accontenta di un’occupazione modesta (conseguita nell’arco di 7-30 giorni al massimo) come camarero, barman, guida turistica, addetto alle pulizie, che assicura un guadagno che si aggira sui 1000 ed i 1300€ mensili. Il dato empirico più rilevante è che si fugge da un lavoro direttivo in banca o industriale in fabbrica ben retribuito e a tempo indeterminato, che garantisce in patria un alto ruolo industriale, ma non la salute psicofisica. Sulle isole ci si riappropria della propria spiritualità, ci si sveglia presto al mattino per svolgere un’oretta di attività fisica e per fare delle lunghe passeggiate sui lungomari pedonali. Inoltre, la maggior parte degli italiani non ha portato avanti la propria professione: chi lavorava in banca oggi gestisce case, mentre l’assicuratore oggi si è aperto un ristorante (Carbone 2018).
6. Le categorie di migranti transoceanici: una ripartizione coerente e sistematica
Gli italiani in partenza alla riscoperta della slow-life, in fuga dall’inquinamento ambientale ed acustico e profondamente segnati dalla difficoltà di socializzazione con conterranei altezzosi e materialisti, si suddividono in 18 categorie di migranti transoceanici, tenendo conto dei due criteri: età e professione. Vi sono i giovani diciottenni in cerca di nuove esperienze, i giovani investitori e le famiglie imprenditoriali impegnate nella creazione di nuove start-up, gli emigranti da Covid-19, i nomadi digitali, i tecnici-operai specializzati, i pensionati, i disabili, i giovani studenti Erasmus, una piccola percentuale di laureati, i migranti che perseguono l’unità familiare, i desocupados maduros, gli artisti e i musicisti, gli appassionati di surf e delle discipline meditative, le madressolteras e gli hombres de negocios-hosteleros (Pugliese 2018).
A scappare sono soprattutto i giovani che vogliono dare una svolta alla loro vita (portando con sé un bagaglio pesante di paure, insicurezze e di rischi che solo un cambiamento di vita radicale comporta, lontani dal proprio nido e dalla propria famiglia). L’esigenza di provare un’esperienza nuova e di ricominciare da capo, nonostante le difficoltà emozionali e gli ostacoli familiari, è più forte di tutto.
Le Canarie, inoltre, appaiono come un ambiente stimolante e con ottime potenzialità di sviluppo. La realizzazione di impianti ITC moderni, unitamente a un sistema fiscale ridotto, a notevoli facilitazioni e ad un sistema burocratico snello, ha messo in moto un radicale processo di mutamento, facendo divenire le isole un hub dove testare un nuovo prototipo di economia e la meta più idonea per esperti freelance. In mancanza di qualità professionale, se si decide di aprire una semplice lavanderia e far quadrare le cose per come devono andare, si può raggiungere grande successo. Così come gli operai-tecnici specializzati in lavori pratici nel campo dell’edilizia, i manovali o i giardinieri, gli idraulici o gli elettricisti, con particolari qualifiche, hanno la possibilità di trovare immediatamente un impiego a tempo indeterminato. Un ulteriore dato significativo è che non sono pochi i laureati italiani che si ritrovano a fare i commessi, i camerieri, i lavapiatti o i lavoratori di call center delocalizzati. Alle Canarie c’è un’atmosfera popolare priva di immagini sociali stereotipati. La gente svolge prevalentemente lavori duri e manuali che non c’entrano con gli studi. Molti laureati, che hanno preferito la qualità della vita alla carriera, portano agli alberghi le lenzuola fresche di lavanderia (McKay 2015).
Spesso sono gli anziani genitori che si ricongiungono e vanno a vivere dove un figlio è emigrato. E non perché hanno bisogno di assistenza da questi figli, ma per un discorso legato alla struttura della famiglia italiana, anche di quella moderna. Siamo una nazionalità un po’ particolare che ricongiunge la sua famiglia a volte anche non per necessità fisica, ma per necessità affettiva; mentalità che, in altre culture come quella anglosassone e germanica, risulta completamente assente. Quest’ultimi, infatti, sembrano più pronti a vivere il distacco.
L’intera fascia di persone over 40-50-60 (che hanno vissuto sulla propria pelle la disoccupazione in età matura in Italia) si ritrova alle Canarie a fare i promoter in centri commerciali, fiere o case private, gli operatori ecologici, gli operatori nel telelavoro nei call center e nei magazzini, i commessi. Inoltre, per i nomadi digitali l’arcipelago rappresenta un’opportunità per mettere a frutto le proprie competenze tecniche in un contesto di vita piacevole e sostenibile. L’idea di lavorare in spiaggia per alcune ore del giorno si fa finalmente realtà. Invece che guardarle dal desktop le palme si possono osservare alzando lo sguardo dinanzi a sé. I pro sono legati alla soddisfazione personale, alla possibilità di poter scandire le giornate in base ai propri ritmi e dal senso costante di avventura.
Migrano anche i pittori, gli scultori, i musicisti, i fotografi ed i videomakers. Sulle isole si balla e si canta (in maniera regolamentata) per strada e nei locali a tutte le ore del giorno e della notte. Pertanto, ogni sorta di artista ha potuto fare della sua passione un lavoro a tempo pieno e indeterminato. Se si lavorano 6 ore a serata il guadagno ammonta sugli 80€. Se ci si vuole esibire pubblicamente in strada, la spesa è condivisa da tutti i locali della piazza.
La maggioranza degli intervistati afferma di essersi trasferita per insoddisfazione personale e per sfuggire alla frenesia e ai ritmi di lavoro da “timbratori di cartellino d’azienda imbruttita” italiana, per l’incremento delle disuguaglianze sociali e amministrative sofferto in Italia e per godere di un clima (meteorologico e sociale) e di una tassazione più conveniente (Giannola 2015). L’associazione spagnola Madri Single (Asociación Madres Solteras), non a caso, offre molteplici sussidi sia economici, che sociali, che per l’impiego. I ragazzi dispongono nelle sedi scolastiche, sia di primo che di secondo grado, sia di una strumentazione tecnologica di ultima generazione (iPad, monitor, computer in rete e lavagna elettronica) sia di materiali e libri scolastici di testo a titolo completamente gratuito. Inoltre, hanno la possibilità di svolgere molteplici attività extrascolastiche come calcio, tennis, danza, surf, canottaggio ed arrampicata gratuitamente.
7. L’incontro-scontro con i locals e le comunità straniere empadronadas
Ma, tra la società ricevente e la sopraggiunta componente di popolazione immigrata, si può parlare di integrazione o di dis-integrazione? L’incontro tra due culture arcaiche, solide e consolidate (quali quella italiana e spagnola) è molto più composito e complesso di quel che si potrebbe pensare dal punto di vista umano e delle abitudini (poiché l’italiano vive con estrema difficoltà l’adattamento ad un cibo che sia diverso, ad uno stile di vita, ad un modo di concepire la vita, ad un modo di studiare, di vestire e di concepire le festività completamente differente). Dal 2007, a causa della precarietà sociale e lavorativa italiana e con lo scoppio della bolla immobiliare, hanno messo piede sull’isola tanti piccoli criminali senza cognizione di causa e senza competenze che vivono alla giornata. Molti compatrioti vivono di bravate ed espedienti, spacciano marijuana, borseggiano e rubano negli appartamenti. Nelle scuole, tra i bambini, il termine “italiano” è diventato dispregiativo (italiano= ladro, truffatore, disonesto). Gli italiani di Tenerife vivono una situazione simile a quella che vivono i migranti romeni e albanesi in Italia, la maggioranza dei quali sono brave persone, ma per colpa di una minoranza sono visti con diffidenza (Stella 2002).
Sulle isole potremmo essere considerati degli immigrati e i locali potrebbero fare la stessa tipologia di discorso: «gli italiani ci portano via il lavoro, hanno fatto alzare gli affitti, fanno girare droga»[4]. È abbastanza inquietante e utile sentirsi dall’altra parte della barricata mondiale messa in piedi dalle rappresentazioni in rete e in televisione di un sempre più urlato pensiero contro gli ultimi. Per affermare pubblicamente che una persona è “basura”, cioè “monnezza, schifezza”, basta pronunciare la parola italiano. Sulle mura di tutte le isole o dove abita qualche italiano o sui muri di strade principali sono frequentissime le scritte “Italianosmugres, fuera” che vuol dire “italiano pezzente vai fuori”. Mugres è il peggior dispregiativo ed offesa spagnola che significa, “sporco”, “la peggior feccia”, “essere inutile e di poco valore”!
Per ciò che riguarda, invece, l’interazione con le ulteriori comunità presenti sul territorio (di inglesi, tedeschi, francesi, venezuelani, asiatici, marocchini) la convivenza è pacifica da parte degli isolani e la solidarietà è molto alta dal momento in cui le proprie usanze vengano rispettate. Sono gli inglesi ad essere i più competitivi ed invidiosi in ambito lavorativo, ostinati nel voler utilizzare la loro lingua internazionale nel mondo
8. Rotte migratorie, Canarie utopia della post-modernità, la ricerca della felicità
Per il migrante che intraprende la “rotta verso il sole”, le Canarie sono le isole felici, il luogo dell’eterna primavera, la meta desiderata, il luogo dove è possibile vivere il tempo liberato e disteso. Un luogo che ha a che fare con una geografia che è Europa e non è Europa. Sembra necessario lasciar parlare e riportare i frammenti più significativi di questa etnografia nata dal lavoro sul campo per definire luoghi, percorsi, soggettività, ma anche per una sorta di comparazione con autori e contesti precedenti che finiscono con l’essere allo stesso tempo metastorici e legati al presente. Nelle pagine che seguono si riportano alcune voci selezionate in maniera trasversale per età, status sociale, genere.
Così Emanuela 44 anni da Parma racconta la sua isola e di come si sia traferita con tutta la famiglia:
«Allora… noi sono due anni che ci siamo trasferiti e non tornerei in Italia per niente al mondo perché la vita qui è molto diversa, il livello di qualità della vita è molto più alta, c’è molto meno stress, si vive con molto molto meno…non perché la vita sia meno cara, ma perché effettivamente ci sono molte meno pretese. La gente vive in modo molto più semplice rispetto all’Italia, quindi, qua si vive veramente molto meglio. La filosofia di tutti i giorni è: non fare oggi quello che puoi fare domani. I bambini qua sono sereni. Mia figlia, la grande, ha 22 anni, e qua ha trovato un ambiente che le piace molto ed anche lei è molto tranquilla. La piccola ha 12 anni, ha iniziato qui le scuole medie e quindi per fortuna è riuscita ad integrarsi bene».
Ribadisce l’importanza delle solidarietà che ha percepito e sperimentato:
«Qui la solidarietà è veramente alta. È ancora un posto dove se tu non hai niente da mangiare, tanto per dire, arriva il vicino e ti porta quello che ha… Qua si vive ancora un po’ come una volta. Qua c’è quasi ancora il baratto: io ho tanta roba di questo, tu hai tanta roba di quello, io ti porto questo, tu mi dai quello… Qui torni indietro nel tempo, qua si vive indietro di quarant’anni, non so come spiegartelo, è qualcosa di bello!».
Per Sonia Simone 34 anni da Napoli, la scelta migratoria è legata al radicale mutamento esistenziale determinato dalla pandemia e al volersi “riprendere il proprio tempo”:
«Prima del Covid stavo andando a Parigi perché mi avevano offerto un ottimo lavoro. Poi c’è stata la pandemia, quindi, per fortuna non mi sono trovata a dover pagare un sottotetto di 10 metri quadri a Parigi. C’è stato il Covid che ha completamente messo in discussione tutta la scala dei valori e quindi a quel punto, per quanto Parigi era una porta che avevo sempre aperta e che ancora tutt’ora è aperta, sono proprio io che ho cambiato il mio approccio, nel senso che non mi interessa più fare carriera a Parigi, ma mi interessa trovare una dimensione diversa, umana perché non ci credo più, cioè non credo proprio più in quel tipo di vita… Il Covid ha messo in discussione tutto ed ha fatto emergere delle contraddizioni della nostra società in cui non mi rispecchio più».
Emerge una critica dei ruoli lavorativi e delle gratificazioni economiche che vengono messe in discussione e continua a raccontare e a riflettere sulle sue scelte:
«Qui con 1.000 euro al mese, sei il papa. C’è molta cultura del riciclaggio e se non vivi in un appartamento o in un alloggio vacacional, quindi, più per turisti (dove arrivi a pagare anche 700/800 euro mensili) l’affitto di una casa è piuttosto inferiore. Se parli con una persona del posto, più di 450 euro non dà ad un affittuario ipotetico. Quindi, qui tra mance e straordinari a lavoro, mi pago l’affitto, mi tolgo i miei sfizi e mantengo il mio bimbo. Qui vige questa mentalità: “se a me non serve questa cosa, non la butto, la do a te perché per te può essere necessaria”. Qui c’è proprio un altro modo di vivere la vita… a partire dalle cipolle o dal latte che ho comprato e non mi è piaciuto… Qui c’è la mentalità del non si butta via niente, del riciclo e del baratto per varie motivazioni: un po’ per l’oceano, un po’ per i tantissimi parchi naturali protetti che ci sono, per preservare la biosfera… qui tutto prende una seconda vita ed una seconda forma. L’isola mi ha voluto prepotentemente. Qui si dice che è l’isola che ti sceglie. Anche se agli occhi di tanti, il fare la cameriera su di un’isola può sembrare una vita mediocre, a me non sembra di star accontentandomi. Io sono passata dal vestire le mogli dei più grandi calciatori nell’atelier più celebre d’Italia e mi hanno proposto un super lavoro a Parigi e tante altre cose… però poi alla fine ti domandi se effettivamente è quello che vuoi… magari era quello che volevi quando eri una bambina, ma poi le persone evolvono, cambiano col tempo. E ad oggi non era più quello che io volevo, quello che avevo sognato per me. Dopo la pandemia mi sono accorta che le cose davvero importanti sono altre».
Sonia ha piena consapevolezza del nuovo tempo liberato che vuole vivere e lo descrive con esattezza e precisione continua:
«Non è il tempo che passo a lavoro che mi rende migliore, ma è il tempo che dedico a mio figlio, ai miei affetti, il tempo che dedico a me. Qui la percezione del tempo è completamente alterata. Qui le giornate sembrano più lunghe e dunque hai più di tempo per pensare e più tempo per stare con te stessa, hai più tempo per le cose semplici… devi andare a mangiare? Te la godi quella mangiata. È il “disfrutar” che è diverso… noi corriamo in Italia, corriamo anche la domenica, quando andiamo a mangiare dai nostri parenti ed è il nostro giorno libero. Noi stiamo correndo. Qua no. Qua devi andare piano».
La dimensione geo-climatica è per tutti gli intervistati un elemento determinante della loro scelta. Cosi la descrive Cristiano 41 anni da Legnano:
«Mi sono accorto che Tenerife è un’isola meravigliosa in mezzo all’oceano, lontana 1500 km dallo stretto di Gibilterra. Non c’è escursione termica, il clima qui alle Canarie è fantastico. Anche a febbraio tutti siamo in costume, tutti facciamo il bagno, c’è sole e le giornate sono meravigliose. Tutto l’anno la temperatura si attesta sui 25/30° di giorno e 18° di notte. Climaticamente e a livello biochimico qui è il posto più bello del mondo e perfetto per l’essere umano. La temperatura ambiente del corpo umano è tra i 20 ed i 24°. Qui hai questa temperatura tutto l’anno! Hai 12 ore di luce al giorno, alle 7 di sera c’è quasi sempre sole, questo ti dà positività e si spende poco in energia elettrica!».
Dalle sue parole viene delineata un’isola perfetta armonica, frutto di un equilibrio di elementi e luogo in cui l’essere umano vive al meglio una sorta di Eden in cui la luce è presente per gran parte del tempo e si può coniugare ciò che sembra impossibile: ideale e reale. Positività spirituale e risparmio energetico.
Anche le riflessioni di Viola, 36 anni di Altamura, raccontano di un mondo che si lascia alle spalle sofferenze e difficoltà come la recente pandemia:
«Anche se io in Puglia stavo bene, avevo trovato una casetta carina vicino al mare, però non basta ora. Uno ha bisogno di costruirsi una solidità, una stabilità non solo lavorativa, ma anche di una vita tranquilla, non nel caos, con l’ansia che non si sa cosa succederà da un mese all’altro, con tutti i problemi. Poi io la pandemia alla fine sì l’ho vissuta bene, però è stata pesante. Ci sono una serie di dinamiche che per adesso in Italia non mi piacciono proprio, poi si vedrà. Io spero che le sorti dell’Italia migliorino, ma ora come ora purtroppo stanno peggiorando. I problemi ci sono anche qua. Qui la vita è molto più semplice, più ristretta, è un’isola piccolina però al momento a me comunque piace. Io quello che voglio fare nella vita è vivere tranquilla ed avere quello che mi basta per vivere serena, per non avere problemi economici e non avere problemi di stress, perché alla fine se guadagni per poi vivere una vita stressata, caotica, per cui non hai mai il tempo di fare nulla, non ne vale proprio la pena».
9. Conclusioni: La vita slow come nuovo umanesimo collettivo
Nonostante le resistenze e le criticità appena evidenziate, la volontà di salutare l’inverno, i riscaldamenti, il traffico, le tasse troppo alte, la pioggia, i semafori, gli autovelox, le giacche e le cravatte, la nebbia, la spesa al supermercato troppo cara, la connessione internet lenta, lo smog, è più potente che mai. Alle Canarie si è portati ad abbracciare uno stile di vita che alcuni soprannominano slow-life (Saviola 2013). Il concetto di lentezza coinvolge il concetto di calma e di lontananza dallo stress. Per slow-life si intende una modalità differente di fronteggiare la quotidianità, una condotta tesa a dare valore ad ogni attimo e momento. Il senso è quello di riassestare la realizzazione del benessere economico al servizio dell’uomo e della sua vita, svincolando quest’ultimo dall’essere meccanismo in un ingranaggio di organizzazione produttiva che procrea sovrabbondanza per pochi.
Vivere alle Canarie significa riscoprire ciò che è stato perso: l’attitudine di uscire di casa sin prisa (senza fretta) ed osservare intorno a noi con la lente d’ingrandimento, ad effetto rallentatore, i volti, i corpi, i panorami, i contesti. Significa riscoprire la gratitudine per essere venuti al mondo e capire che ciò che dà significato al percorso della vita non è la destinazione e nemmeno gli obiettivi e i traguardi parziali, ma ciascun momento che viviamo. Questo stile di vita è un nuovo umanesimo che ci rammenta che al centro di tutto deve esserci l’essere umano con la propria vita, le proprie peculiarità, i propri valori, le proprie competenze, la propria singolarità. Si privilegia la qualità della vita alla carriera.
Non si ha per nulla intenzione di fare ritorno a causa della situazione post-pandemica, della guerra russo-ucraina, della situazione di crisi che ha comportato l’aumento dei prezzi alle stelle (con spese di elettricità, luce e gas che sono altissime). La speranza e l’aspettativa di vita nell’arcipelago è molto più longeva grazie alle perenni ore di sole anche in inverno che fanno bene alle ossa, alla totale mancanza di umidità, alla vitamina D che giova ai soggetti asmatici ed allergici. Alle Canarie si arriva per esigenza e ci si ferma per salute o per amore per il mare. L’Eldorado ovviamente non esiste nel mondo, ma di fronte ad immagini di mare, sole e vela, surf, windsurf e kitesurf, è severamente vietato essere tristi.
Il desiderio di vivere la vita slowly emerge dai racconti degli intervistati che appartengono a contesti e fasce dì età diversi, ma che attraverso i loro racconti confermano la necessità di dare vita ad nuovo umanesimo collettivo che contiene tutte le componenti utopiche desiderate e auspicate: benessere economico con poco, senso della comunità e condivisione, libertà da regole sociali troppo rigide e tuttavia rispetto tra le varie comunità che vivono sull’isola, senso della famiglia e dell’educazione dei figli. Tutti elementi che sembrano descrivere una vera nuova Città del sole, che riprende i temi campanelliani realizzati in forma concrete. Resta da sottolineare che si tratta di una specifica migrazione europea, una migrazione che riguarda l’Occidente industrializzato e globalizzato. I protagonisti di questi flussi hanno l’opportunità di fare scelte in controtendenza che non rimandano a scenari di drammatiche odissee migratorie che troppo spesso contraddistinguono altri percorsi.
Le stesse isole Canarie sono meta di una rotta atlantica che riguarda la sua particolare posizione geografica. Un percorso che non guarda al Mediterraneo e all’Europa ma all’Africa che non attraversa metaforicamente e geograficamente il Mediterraneo e le colonne d’Ercole, ma intraprende una disperata e pericolosa via d’acqua che è l’oceano, con le sue insidiose correnti nel tentativo comunque di approdare in una parte dell’Europa. Contraddizioni e ambivalenze di un luogo sospeso tra più mondi e che regala a noi europei/italiani la possibilità che quell’isola che non c’è di cui abbiamo sentito parlare nelle favole può esistere.
Dialoghi Mediterranei, n.60, marzo 2023
[*] I paragrafi 1.2.8.9 sono di Annalisa Di Nuzzo; i paragrafi 3.4.5.6.7 sono di Benedetta Marocco.
Note
[1] Capitolo, qualche narra tutto l’esser d’un mondo nuovo, trovato nel mar Oceano, cosa bella, et dilettevole, in Appendice a Regola contro la Bizaria, Modena, s.a.
[2] Capitolo di Cuccagna, Siena, 1581 in G. Cocchiara, il paese di Cuccagna, Boringhieri, Torino 1980:167
[3] Soffermandosi sul senso della persona e dell’individuo, l’obiettivo del percorso etnografico diventa quello di: “«afferrare il punto di vista dei soggetti osservati, nell’interezza delle loro relazioni quotidiane, per comprendere la loro visione del mondo».
[4] Sociobarómetro de Canarias (strumento di misura della pressione sociale),Cuestionario e Informe sintético de resultados, in www.unedgrancanaria.es/docs/SBC/SBC03/informe-sintetico-SbC3-julio2022.pdf, 22 de julio de 2022.
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Annalisa Di Nuzzo, docente di Antropologia culturale, insegna Geografia delle lingue e delle migrazioni al Suor Orsola Benincasa; già professore a contratto di Antropologia culturale presso DISUFF Università di Salerno, e membro del Laboratorio antropologico per la comunicazione interculturale della stessa università fino al 2020- Ha conseguito il PhD in Antropologia culturale, processi migratori e diritti umani. È membro dell’Osservatorio Memoria storica, Intercultura, Diritti Umani e Sviluppo Sostenibile “MInDS” Univ. di Cassino, socia del Centro di Ricerca Interuniversitario I_LAND (Identity, Language and Diversity) nonché del Centro Interuniversitario di Studi e ricerche sulla storia delle paste alimentari in Italia (CISPAI). I suoi campi d’indagine sono l’antropologia delle migrazioni e del turismo, antropologia e letteratura, antropologia e genere, antropologia urbana. È autrice di numerose monografie, tra le ultime pubblicazioni si segnalano: Il mare, la torre, le alici: il caso Cetara. Una comunità mediterranea tra ricostruzione della memoria, percorsi migratori e turismo sostenibile, Roma Studium 2014; Fuori da casa. Migrazioni di minori non accompagnati, Carocci, Roma, 2013; Conversioni all’Islam all’ombra del Vesuvio, CISU, Roma, 2020; Minori Migranti. Nuove identità transculturali, Carocci, Roma, 2020.
Benedetta Marocco, giovane ricercatrice, operante attivamente nell’ambito delle intermediazioni economiche e turistiche. Laureata nella triennale in Mediazione Linguistica e Culturale all’Università degli studi L’Orientale di Napoli e successivamente laureata nella magistrale in Lingue moderne per la comunicazione e la cooperazione internazionale all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, con un lavoro di tesi sperimentale in Geografia delle lingue e delle migrazioni.
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