di Concetta Garofalo
La circolazione delle informazioni resa possibile dai moderni mezzi di comunicazione, la gestione sempre più transnazionale del potere politico ed economico e il relativo confronto culturale a livello mondiale hanno determinato, in questa epoca di forte globalizzazione, il nascere di un sistema che, nel bene e nel male, abbatte e travalica i confini territoriali di singoli popoli e specifiche etnie. In tali contesti, il viaggiare occupa un posto di rilievo perché attiva, attraverso lo spostamento in spazi lontani e vicini, la traduzione del Sé in azioni e pratiche che assumono una dimensione individuale e collettiva proprio in virtù di complesse interazioni fra sistemi politici, economici e sociali – nella mia prospettiva, più ampiamente culturali – che avvengono sia a livello locale sia a livello planetario.
Tali questioni sono state affrontate, tra gli altri, dall’antropologo Marc Augé, il quale, nel 1997, ha pubblicato una raccolta di brevi etnografie dal titolo L’impossible voyage. Le tourisme et ses images, tradotta in italiano con il titolo Disneyland e altri nonluoghi (Bollati Boringhieri, Torino 1999). Il titolo in francese, invita il lettore ad una riflessione meta-discorsiva, più in generale, sugli intrecci di poteri e saperi economici e politici e, più in particolare, sul rapporto esistente fra viaggio e sistemi relazionali, fra azione pubblicitaria e contesti turistici. Il viaggio, per Augé, è il viaggio inteso come ricerca della diversità, realizzato per conoscere se stessi e gli altri. Ciò che invece oggi, in un mondo globalizzato, è sempre meno conoscibile è proprio l’Altro e il viaggio, a questo fine, diventa dunque impossibile. La ragione principale, secondo Augé, è che il turismo e la logica del potere economico tendono ad omologare la rappresentazione degli spazi, dei luoghi e delle culture: lo scambio interculturale viaggia attraverso immagini turistiche che riproducono stereotipie, realtà depurate e cristallizzate, ricondotte a riproduzioni tipizzate delle diversità culturali. Il rapporto fra realtà e finzione (intesa, qui, come insieme di pratiche di rappresentazione) è mediato da azioni economiche che, attraverso la circolazione delle immagini, agiscono sui sistemi sociali e culturali. È per questo che, secondo Augé, al fine di opporsi a questa tendenza, il viaggio per conoscere l’Altro (e se stessi attraverso gli altri) deve ripartire dai sistemi relazionali. A tal proposito leggiamo un passaggio particolarmente significativo:
Il mondo esiste ancora nella sua diversità. Ma questa ha poco a che vedere con il caleidoscopio illusorio del turismo. Forse uno dei nostri compiti più urgenti consiste nell’imparare di nuovo a viaggiare, eventualmente nelle nostre immediate vicinanze, per imparare di nuovo a vedere (Augé, 2009 [1997]: 12).
Questo frammento di Augé è un esempio utile per sottolineare la stretta relazione che si stabilisce tra il concetto di diversità, il turismo e il viaggiare e mettere altresì in evidenza l’esperienza soggettiva del vedere e dell’imparare. A questo riguardo è opportuno soffermarsi su alcuni concetti utilizzati da Augé nel passo precedentemente citato, in particolare quello di caleidoscopio. Consultando il dizionario della lingua italiana il termine caleidoscopio rinvia ad un oggetto che ha affascinato tante generazioni con i suoi giochi simmetrici di forme e colori; il suo campo semantico viene, inoltre, esteso a sequenze di immagini in rapida successione. Eppure caleidoscopio è termine composto che deriva dal greco kalós “bello”, êidos “forma” e skopêin “guardare”. Quindi, potremmo interpretare l’affermazione di Augé nel modo seguente: il turismo utilizza la bellezza delle immagini per diffondere finzioni orientate e orientanti e, in quanto tali, “illusorie”. Ma il riscatto del viaggio è implicito in questa stessa frase se sottolineiamo l’importanza dell’imparare: infatti, l’urgenza consiste nel recuperare la bellezza del guardare la diversità imparando a viaggiare per imparare a vedere. Imparare è agire in maniera trasformativa su se stessi e sulle proprie conoscenze, abilità e competenze.
Questo percorso di reinvenzione è accompagnato da un progetto di rinnovato interesse per il viaggio come strategia di ricerca e conoscenza. Movimento e spostamento nello spazio culturale, fisico e simbolico, diventano due fondamentali coordinate dell’agire umano. “Viaggiare” è pratica che serve a “vedere” che è, più ampiamente, pratica esperienziale senso-percettiva. In tal senso, attraverso il vedere ci si appropria dello spazio circostante e, con l’attivazione di processi di astrazione e di rappresentazione, l’esperienza dei luoghi e delle culture diventa retroterra personale e capitale simbolico, individuale e collettivo.
Nel testo in francese con le parole «plus proche de chez nous», l’autore evidenzia un accentuato valore programmatico nei confronti della ricerca etnografica in direzione dell’antropologia del rimpatrio. Il linguaggio spaziale ha un suo immediato riscontro, coerente con l’esperienza etnografica di Augé, il quale, a un certo momento della sua vita professionale, volge la sua attenzione ai luoghi della surmodernità del proprio Paese di origine, cioè la Francia. Egli realizza numerose ricerche in ambito urbano quali, ad esempio, il metrò, le ville, Disneyland, le case di campagna, ecc. Il testo citato è un esempio più generale di uso metaforico del linguaggio spaziale che non è privo di conseguenze sul piano discorsivo. I termini chez nous sono infatti densi di rinvii semantici: sistema simbolico di riferimento, sistema sociale strutturato, senso di appartenenza ad un sistema culturale riconosciuto e condiviso, dinamiche relazionali e riconoscimento identitario, rapporto tra individualità e collettività, pratiche del ‘quotidiano’. Inoltre, proche rinvia alle antinomie del qui e l’altrove, noi/loro, io/l’altro.
Utilizzare nella stessa frase proche, chez e nous vuole dimostrare che la metafora spaziale traduce in riflessione teorica il confronto fra sistemi culturali e simbolici. Questa riflessione teorica potrebbe contenere diverse suggestioni. Si tratta infatti di un viaggio “in casa nostra” per vedere ciò che è intorno, per conoscere e imparare cosa? Oppure, sempre secondo Augé, l’uomo non ha, ormai più (se mai l’ha avuta), la piena consapevolezza della propria dislocazione sociale nello spazio culturale moderno? Di fatto, Augé intraprende questo viaggio nelle vicinanze (in casa propria, nel paese di appartenenza) e al contempo nello spazio della cultura di appartenenza di un singolo antropologo, se stesso, e della sua disciplina. In un caso o nell’altro, ciò che conta è che i testi etnografici di Augé contengono una riflessione centrale sul mondo contemporaneo e, per di più, danno rilievo agli aspetti agentivi e performativi del fare antropologia del rimpatrio nel sistema-mondo contemporaneo. Infatti, l’antropologo del rimpatrio occupa una prospettiva privilegiata che comporta un’intensa esperienza riflessiva sulle potenzialità interpretative che derivano dalla propria prospettiva di osservazione. Nelle varie fasi della ricerca etnografica l’antropologo della contemporaneità è al tempo stesso ‘osservatore’, ‘informatore’ e ‘indigeno’.
La ri-semantizzazione metaforica del concetto di viaggio consente agli antropologi uno studio comparativo di varie e differenti configurazioni di viaggio, come, ad esempio, nel caso in cui «questa mobilità è coatta, organizzata entro un assetto di lavoro dipendente e rigorosamente disciplinato» (Clifford, 2008, 46) e non è più, dunque, soltanto uno spostamento nello spazio per puro piacere. Per approfondire tale aspetto possiamo ricorrere a un testo di Clifford, un antropologo per molti aspetti vicino a Augé:
Qualunque progetto di comparazione deve fare i conti con il fatto evidente che i viaggiatori si spostano sotto l’azione di forti pressioni culturali, politiche ed economiche, e che certi viaggiatori godono di privilegi materiali, mentre altri vivono una condizione di oppressione. Queste specifiche circostanze pesano in maniera determinante sul viaggio di volta in volta in questione: movimenti entro specifici circuiti coloniali, neocoloniali e postcoloniali, diaspore varie, terre di frontiera, esili, deviazioni e ritorni. Visto in questa luce, il viaggio palesa una gamma di pratiche materiali e spaziali che producono conoscenze, storie, tradizioni, comportamenti, musiche, libri, diari e altre espressioni culturali (Clifford, 2008: 46).
Le considerazioni di Clifford, in Strade, si inseriscono in un più ampio discorso sulle dinamiche culturali del «viaggiare-nel-risiedere, risiedere-nel-viaggiare» (Clifford, 2008: 49). Infatti, si assiste, sempre più, alla configurazione di nuove forme di appartenenza e alla ridefinizione di culture che trascendono la localizzazione dei fatti sociali entro definiti confini geografici e politico-amministrativi. Per questa ragione, oggi più che mai, oltre che di culture al plurale sarebbe pure necessario mettere in evidenza gli aspetti sistemici che si stabiliscono tra loro. Non si tratta in sostanza di rinnegare un concetto di cultura classico o di dichiararne l’estinzione in virtù di una macrocultura globale, ma di definire le culture in termini più dinamici in modo tale da superare la questione posta esclusivamente in termini di appartenenza o di cultura di partenza e di arrivo.
Si dovrebbero poter vivere le diversità culturali e sociali in termini di similitudini e differenze, senza necessariamente definirle e configurarle culture ‘inter-’ ‘e multi-’ poiché, paradossalmente, cercando di valorizzare le identità culturali, se ne sottolineano invece, eccessivamente e unicamente, le differenze. Allora, come dice Geertz:
Ciò che ora pare, almeno a me, necessario, non è né costruire una cultura-esperanto universale, la cultura degli aeroporti e dei motel, né l’invenzione di qualche vasta tecnologia di gestione delle risorse umane. È piuttosto quella di ampliare la possibilità di un discorso intelligibile tra popoli completamente diversi l’uno dall’altro per interessi, modi di vedere, ricchezza e potere, e tuttavia compresi in un mondo in cui, sballottati come sono in una interconnessione senza fine, è sempre più difficile che l’uno non incroci la strada dell’altro (Geertz, 1990: 156).
In queste affermazioni di Geertz si nota come l’esperienza soggettiva e collettiva (risorse umane, popoli) degli spazi (aeroporti, motel, mondo, strade) si traduca in “discorso intellegibile”. Ciò è possibile, soprattutto, valorizzando gli aspetti relazionali e i molteplici processi di significazione delle azioni nello spazio, osservabili nelle pratiche di transito. L’attraversamento e l’incontro non vanno necessariamente considerati aspetti antinomici del ‘trovarsi’, inteso come modo del fare e modo di essere in un luogo: l’attraversamento è una configurazione di incontri e l’incontro è una configurazione di attraversamento. Ci sono diversi livelli discorsivi, quello dello spazio fisico, esperito e azionale e il livello discorsivo dello spazio relazionale e interazionale, simbolico e rappresentato.
Si attuano, oggi, modalità diverse di rappresentazione dell’esperienza di viaggio e di spostamento nel tempo e nello spazio. C’è il viaggio fisico che consiste nell’attraversamento di spazi, ambienti e territori, ma c’è anche il viaggio digitale che consiste nel viaggiare attraverso i linguaggi massmediali in virtù delle più moderne tecnologie informatiche. Si tratta di una rinnovata forma di ‘soggettivizzazione’ degli spazi che viaggia in Internet tramite i cavi delle fibre ottiche, i satelliti e i server. Postare su facebook, twitter, youtube in tempo reale, fotografie e video personali di luoghi ed eventi distanti nel mondo percorso e percorribile rappresentano, tutte, pratiche di viaggio digitale che si stanno diffondendo sempre più nel mondo contemporaneo.
Oggi, è pure possibile, in controcorrente alla tendenza alla stereotipizzazione di cui parlavo all’inizio, avviare un processo che pone fine all’omologazione dei luoghi: il soggetto-viaggiatore ‘posta’ e ‘condivide’ cioè comunica ed esprime la personale rappresentazione mentale e simbolica e, quindi, la propria interpretazione, di luoghi ed eventi nell’hic et nunc del viaggio stesso.
In aeroplano, in nave o nel metrò, i tempi di attesa si riempiono di pratiche digitali che non sono necessariamente un risultato della stereotipizzazione del viaggio o dei tempi morti; anzi, in molti casi, sono processi di creatività individuale. Alle pratiche fisiche come leggere un libro, conversare o lavorare a maglia si affiancano pratiche digitali e – attraverso movimenti appena accennati, rapidi, meccanici e ripetitivi come cliccare e scorrere il dito sul touchscreen – si viaggia nell’inter-spazio virtuale. Nei tempi di attesa si inviano e-mail, si caricano immagini e video sul network; quindi, si tratta di azioni in output ed input. Grazie al viaggio delle immagini è possibile tenersi informati e informare, trovarsi nel metrò di Parigi ma visitare, attraverso il collegamento Internet, luoghi lontani, monumenti e altri siti turistici in ogni altra parte del mondo. Leggo un libro ma non lo sfoglio, ci clicco; ascolto un concerto che si svolge dal vivo dall’altra parte del mondo; parlo e intrattengo conversazioni con persone lontane mentre io sono in movimento altrove. L’esperienza soggettiva, che diventa esperienza collettiva della distanza nello spazio e nel tempo, si concentra nell’istante di un ‘clic’.
Nei tempi di attesa, si verifica il viaggio nel viaggio: il primo è spostamento fisico, il secondo è spostamento virtuale, digitale. Ma la cosa più particolare è che la sensorialità dell’esperienza non viene meno in nessuno dei due casi. Anche l’esperienza di viaggio digitale avviene attraverso forme sensoriali esperite attraverso la vista, il tatto, l’udito. Questo input sensoriale ha – almeno potenzialmente – agentività, cioè potere trasformativo su noi stessi e sul nostro apprendimento, nonostante ci dislochi in quello spazio di tempo.
Queste dinamiche di viaggio delle immagini diventano pratica di narrazione dell’hic et nunc del viaggio esperienziale, nel senso che la percezione degli spazi è mediata dalla produzione di immagini. A titolo esemplificativo, si può ricorrere nuovamente al testo di Augé per definire tali immagini come forme di rappresentazione e di racconto. In Finzioni di fine secolo, Augé definisce “turista fotografo e cineasta” colui che viaggia fra gruppi di immagini: il gruppo di immagini di partenza è costituito dalle rappresentazioni (di cui si è già detto) diffuse dalle agenzie di pubblicità a scopo turistico ed economico; il secondo gruppo di immagini è costituito dalle immagini prodotte dal turista durante la sua esperienza di viaggio. Augé afferma che si tratta di immagini al quadrato e di immagini al cubo:
Molte di queste immagini inoltre saranno immagini di immagini. Molti siti e monumenti che noi visitiamo sono in effetti immobilizzati nella loro qualità di oggetti intemporali la cui finalità consiste esclusivamente nell’essere visti e filmati: le piramidi, le cascate del Niagara, la torre Eiffel appartengono alla intemporalità internazionale. Ma l’immagine diventa veramente una immagine al quadrato o al cubo, per servirci del linguaggio dell’algebra, quando filmiamo siti che sono al loro volta finzioni, come Disneyland dove circolano per le strade di una falsa città personaggi di disegni animati usciti a loro volta dalle fiabe europee (Augé, 2001: 57)
Per comprendere meglio la portata di tale prospettiva antropologica è utile fare riferimento anche alla classificazione degli spazi che Augé definisce in molti dei suoi scritti. Infatti, per Augé, la percezione degli spazi che si realizza nell’esperienza del viaggio configura luoghi, nonluoghi e luoghi storici. A tal proposito leggiamo in Nonluoghi:
Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi identitario, relazionale e storico definirà un nonluogo. L’ipotesi che qui sosteniamo è che la surmodernità è produttrice di nonluoghi antropologici e che, contrariamente alla modernità baudeleriana, non integra in sé i luoghi antichi: questi, repertoriati, classificati e promossi a “luoghi della memoria”, vi occupano un posto circoscritto e specifico (Augé, 2009 [1992]: 77).
I concetti di luogo e nonluogo teorizzati da Augé sono di carattere logico-relazionale, complementari tra loro e potenzialmente non contrastivi, per cui un luogo può diventare nonluogo e viceversa. Un nonluogo non è una categoria concettuale di negazione e di privazione ma una diversa configurazione di senso attribuito a spazi di passaggio e di fruizione veloce. Non si tratta quindi di descrivere una volta per tutte ambienti e territori, contesti fisici e naturali, politici e amministrativi. La differenza fra luoghi e nonluoghi è sostanzialmente relazionale. Esempi di nonluogo sono aeroporti, stazioni, autostrade, alberghi e strutture ricettive di svago e di vacanza, supermercati e grandi centri commerciali.
Ma sono solo esempi, quelli forniti da Augé, e tali devono rimanere. Infatti, a prescindere da termini che risuonano come ‘etichette fisse’ (luoghi o nonluoghi), essi sono contesti non-stop e spazi nei quali il transito è scandito da sequenze di azioni che si definiscono le une con le altre in termini di relazione. Gli individui vi possono agire secondo due forme di agentività: seguire percorsi predisposti o configurare movimenti e azioni personali, più o meno orientati e intenzionali. Dal punto di vista antropologico si può definire agentività (o agency) la capacità di agire e intervenire, più o meno consapevolmente e intenzionalmente, in modo trasformativo su se stessi e sugli altri, in un contesto interazionale. Se si tiene conto di questo, si deve affermare che non è la quantità dei soggetti che ‘fa luogo’ ma la qualità relazionale delle presenze e delle interazioni. Ad esempio, ascoltare musica con l’auricolare mentre si viaggia in metrò significa, per Augé, essere soli perché si configura come un’esperienza non relazionale con chi sta accanto. Di fatto, è molto comune nei luoghi di trasporto pubblici ‘isolarsi’ in questo modo. Detto questo, però, gli aspetti relazionali non si limitano alla conversazione che si potrebbe avere (o meno) con qualcuno che siede accanto a noi o alla sua attiva percezione: essi comprendono anche le forme di agentività che instauriamo con noi stessi e con gli oggetti che ci circondano. Anche nella riflessione teorica su altri contesti di azione e movimento – come ad esempio la passeggiata e il guidare in auto (in Montes 2014) – attraverso la metafora spaziale emerge l’importanza della dimensione intra-soggettiva – sottoforma di flussi di coscienza – nell’esperienza di interazione con noi stessi e con gli altri, in spazi fisici e simbolici. Ahearn, a proposito di agency, fa riferimento al livello sub-individuale e dividuale delle azioni soggettive per mettere in evidenza l’aspetto intra-soggettivo dell’agire umano, come, ad esempio, nel caso dei dialoghi interiori (Ahearn, 2002: 20).
In definitiva, è possibile definire i luoghi (e i nonluoghi), la dimensione soggettiva (e l’interazione dialogica), il transito (e la residenza) nello spazio e nel tempo in rapporto alle culture e ai modi di concepire la agency individuale e collettiva. Senza necessariamente rimettere in discussione l’apporto di Augé e di altri antropologi citati (Clifford, Geertz), semmai integrandolo per molti versi, credo che la nozione di agency possa contribuire a meglio definire queste e altre pratiche e categorie concettuali, incluso quella centrale di cultura. In conclusione, per quanto riguarda più particolarmente il viaggiare, nella maggior parte dei casi è anch’esso assunzioni di ruoli e funzioni e, conseguentemente, assunzioni di agentività soggettivante (e oggettivante) a diversi livelli di posizionamento sociale e culturale.
Dialoghi Mediterranei, n.9, settembre 2014
Riferimenti bibliografici
Ahearn L. M., “Agentività”, in Duranti A., a cura di, Culture e discorso: un lessico per le scienze umane, Meltemi, Roma, 2002, (ed. or. 2001)
Augé M., Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, 2009, (ed. or. 1992)
Augé M., Disneyland e altri nonluoghi, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, (ed. or. 1997)
Augé M., Finzioni di fine secolo, Bollati Boringhieri, Torino, 2001, (ed. or. 2000)
Clifford J., Strade, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, (ed. or. 1997)
Geertz C., Opere e vite. L’antropologo come autore, Il Mulino, Bologna, 1990, (ed. or. 1988)
Montes S., In divenire. Istantanee, passeggiate e flussi di coscienza, in “Dialoghi Mediterranei”, n.7, maggio 2014
Montes S., Voi, lavavetri a Palermo. Una riflessione antropologica in “Dialoghi Mediterranei”, n.8, luglio 2014
______________________________________________________________
Concetta Garofalo, laureata sia in Lettere sia in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università degli Studi di Palermo, è interessata ai molteplici aspetti teorici e pragmatici della agency e ai processi, a breve e lungo termine, di interazione fra soggetti, istituiti nel mondo contemporaneo in relazione ai sistemi culturali di appartenenza e ai contesti urbani e di apprendimento. La sua prospettiva di ricerca interdisciplinare attinge agli ambiti di studio più specifici dell’etnopragmatica e della sociosemiotica.
_______________________________________________________________