di Giovanni Cordova
L’evoluzione delle vicende giudiziarie intorno a Domenico Lucano e a Riace segue un ritmo vorticoso. Mentre questo contributo per Dialoghi Mediterranei è pronto per l’invio in redazione, giunge la notizia che gli arresti domiciliari cui il sindaco era sottoposto sono diventati divieto di dimora a Riace. Un provvedimento che rimette in libertà Lucano ma che si rivela ancor più punitivo, costringendolo ad un allontanamento che diventa, di fatto, un esilio. Nel frattempo, le notizie che giungono da Riace sono allarmanti. Pare che diverse famiglie tra quelle inserite nel progetto di accoglienza abbiano già lasciato il paese; le altre persone ancora presenti lamentano la mancanza di informazioni circa il loro futuro e persino la penuria di beni alimentari. Con l’angoscia nel cuore e la rabbia nell’animo, proverò adesso a enucleare qualche concetto di ordine generale che scaturisce dalla complessità del cosiddetto ‘modello Riace’.
Nominare qualcosa – o qualcuno – è un atto rivelatore di estrema potenza, che conferisce o nega identità e significato a luoghi, persone, oggetti, processi storici. Può Riace definirsi un’utopia? Così hanno fatto, tra gli altri, il regista tedesco Wim Wenders, che nel 2009 in Calabria girò il cortometraggio Il volo per raccontare quell’esperienza di accoglienza e umanità, e lo stesso sindaco di Riace, Domenico Lucano, il quale ama definire il sostrato ideale che ha animato il suo agire politico nei termini di un’‘utopia della normalità’.
Certo, non si tratta di un’utopia che presenta i caratteri con cui Karl Popper soleva connotare quei progetti e quelle visioni più o meno esplicitamente marcate da una ragione sacrificale invocata in nome di un’astratta promessa di felicità futura. Idee di società tanto perfette quanto pronte a giustificare violenze e dispositivi totalitari d’ogni tipo per garantire, pur vanamente, la realizzazione di un telos irraggiungibile. Progetti e visioni lontane dall’inverare quel modello di società aperta tanto cara al filosofo tedesco. Ma ancor più distanti dall’agguerrita mitezza di Domenico – Mimmo – Lucano, e dell’intera comunità riacese.
Semmai può rivelarsi utile ricorrere al concetto di eterotopia, così come formulato da Michel Foucault (1966) per indicare quei luoghi completamente differenti da tutti gli altri, carichi di una capacità di contestazione mitica e reale dello spazio ordinario in cui la vita normale, quotidiana si snoda. Utopie, certo, ma ‘situate’, sospese tra reale e immaginario eppure così sorprendentemente radicate nello scambio sociale tra attori che si riconoscono reciprocamente (Taylor, 1998).
Riace – il fatto sociale ‘Riace’, così come affermatosi nelle rappresentazioni collettive che hanno alimentato e che sono state allo stesso tempo nutrite da reportage, inchieste, studi, film e molto altro ancora – nasce vent’anni fa, nel 1998, di notte, come racconta la giornalista e scrittrice Tiziana Barillà in Mimì Capotosta. Mimmo Lucano e il modello Riace, edito nel 2017 per Fandango Libri.
«È la notte del primo luglio 1998. Sul Mar Jonio, a 500 metri dalla costa, un veliero diretto in Europa fa una tappa imprevista a Riace. A bordo ci sono 66 uomini, 46 donne e 72 bambini; vengono dall’Iraq, dalla Siria e dalla Turchia. Sono curdi. […] Così Riace si sveglia nel cuore della notte. Ma non è la prima volta, molti riacesi sono già corsi in spiaggia per portare cibo e indumenti ai profughi. […] Anche Domenico Lucano è su quella spiaggia e, con gli altri, si affanna a soccorrere» (p. 17-18).
Appena rientrato a Riace dall’esperienza dell’‘altrove’ che caratterizza le biografie di tanti italiani, meridionali in particolare, Lucano ricorda nitidamente quella notte:
«[…] Non ero ancora sindaco ma volevo impegnarmi per aiutare quegli sfortunati. Non assisterli, ma trovare loro case, lavoro, condizioni di vita decenti. È allora che abbiamo cominciato a sognare» (p. 18).
Eppure è nell’ultimo decennio – con una progressiva accentuazione negli ultimi cinque anni – che il modello Riace ha acquisito una popolarità planetaria, divenendo oggetto di un’attenzione strabiliante in ogni parte del mondo e ricevendo premi e riconoscimenti vari dalle più prestigiose organizzazioni politiche, sociali e scientifiche internazionali.
Nelle righe seguenti non si intende ripercorrere la storia dello straordinario laboratorio di comunità cosmopolita che si è inverato nel borgo ionico calabrese. Né ci si focalizzerà in maniera preponderante sulle attuali vicende mediatico-giudiziarie che hanno coinvolto il sindaco di Riace, Domenico Lucano, benché qualche accenno ad esse sia inevitabile [1]. Allo stesso modo, non ci si occuperà delle minacce e dei fortunatamente non gravi attentati che egli e vari componenti dell’amministrazione comunale riacese hanno subìto nel corso degli anni da parte di ‘ndrangheta, organizzazioni politiche di estrema destra, soggetti non identificati.
Si tratta solo di un piccolo esercizio sospeso tra l’autoetnografia e l’antropologia riflessiva, in cui il Sé dell’antropologo non subisce il destino asettico di un’epurazione compiuta in nome di una caduca neutralità, ma viene piuttosto contestualizzato e trasceso entro un movimento continuo tra esperienza e coscienza (Okely, 1992). A partire dal tentativo di sistematizzare in forma compiuta emozioni e sensazioni sparse nella mente e nell’animo dello scrivente. Emozioni e sensazioni che affiorano da una storia saldamente radicata in una specificità storico-culturale locale, legata indissolubilmente alla Calabria e ai suoi propri mitemi della deprivazione (materiale e umana), dell’abbandono e del riscatto, eppure capace di rivelare qualcosa di intrinsecamente globale, in grado di farsi comprendere ben oltre le geografie politiche di questo maledetto Sud (Teti, 2013).
Mimmo Lucano è sottoposto a un regime di arresti domiciliari dal 2 ottobre. Quattro giorni dopo, Riace è invasa da una marea di genti provenienti da tutta Italia per manifestare solidarietà al sindaco, nel frattempo sospeso dal suo ruolo istituzionale, e perché non si disperda quel modello di comunità. È presente anche Peppino Lavorato, indimenticato sindaco comunista di Rosarno tra il 1994 e il 2003, in prima linea nella lotta alla ndrangheta e alla povertà. Lavorato accosta la manifestazione di Riace a un’altra manifestazione, celebre, del 22 ottobre 1972, quando operai di tutta Italia raggiunsero in treno una Reggio Calabria nella morsa dei fascisti del ‘boia chi molla’. Aggiunge: «Alla destra Riace fa paura, qui va in crisi tutto il racconto basato sulla paura e sul rancore» [2].
Perché va in crisi quel racconto, le cui componenti tossiche sono oramai parte di una narrazione quotidiana alimentata dal vorticoso flusso di immagini e notizie (quasi sempre false) che si impongono quasi forzatamente nell’immaginario comune? Credo che la risposta possa essere individuata nella peculiare configurazione che il principio della differenza culturale assume a Riace. Utilizzo non a caso il termine ‘differenza’ in luogo di ‘diversità’, riprendendo la distinzione operata da Homi Bhabha (2001). Secondo lo studioso post-coloniale indiano, la diversità culturale esprime un oggetto al quale è possibile accedere empiricamente (ovvero la cultura nella sua accezione antropologica, intesa come categoria di comparazione etica, estetica, etnologica), laddove la differenza rappresenta piuttosto un processo di significazione mediante il quale la cultura viene enunciata e resa conoscibile, garantendo sì possibili identificazioni culturali non prive di dimensioni conflittuali, ma erette pur sempre sul terreno comune di uno spazio aperto, dinamico, condiviso, esperito da un’eterogeneità di attori sociali.
A Riace le paure sono dissipate non perché vi vadano in scena tratti culturali ordinati e giustapposti, affastellati per un’esibizione museale, ma perché la differenza culturale ha potuto esprimersi attraverso un processo di significazione e di conferimento del senso che non ha imposto vincoli di esclusione. Un processo radicato in un terzo spazio di incontro e di edificazione di una cittadinanza cosmopolita fondata più sull’idea di bene comune che di comunità dai limiti ben definiti e protetti da incursioni esterne (Balibar, 2012).
Il contrario dell’apartheid, verso cui pare ci stiamo dirigendo, secondo le inquietanti notizie riportate dalla recente cronaca politica [3], non è tuttavia un paradiso in cui l’articolazione del quotidiano sia scevro di conflitti, contrapposizioni o riconoscimenti oppositivi. L’antropologia del meticciato, come prospettata da autori quali Jean-Loup Amselle (1999), le cui teorie mi sembra siano state recentemente riprese, in Italia, da Andrea Staid (2011) costituisce un modello “buono da pensare” ma “lontano dall’esperienza” e dalle prospettive emiche degli attori sociali. In riferimento a un’area – il Mediterraneo – considerata anche negli studi di settore come universo per eccellenza del métissage culturale, Christian Bromberger e Jean-Yves Durand (2007) ci ricordano che
«Anche nei periodi più armoniosi della storia del mondo mediterraneo […] le relazioni tra comunità non hanno mai portato alla formazione di collettività meticce, ma, al limite, si sono tradotte in una coesistenza pacifica e improntata su una curiosità simpatica. […] Fatta qualche eccezione, il Mediterraneo non è una terra di unioni matrimoniali miste [4] (A. Kanafani-Zahar lo ricorda nei suoi lavori sul Libano: «Con l’altro si divide il pane caldo ma non la sposa»), e non è sulle sue sponde che si è dispiegata una religione meticcia come l’umbanda brasiliana» (p. 310).
Il successo di Riace, piuttosto, mi pare consista nell’aver mantenuto la differenza culturale entro un ambito locale e sociale, dove c’è spazio per le negoziazioni quotidiane, senza trasporla in una dimensione internazionale e territoriale, quella prediletta dalle narrazioni sovraniste e nazionaliste, in cui viene meno la presenza di una comunità che può condividere e convivere in un medesimo spazio (Herzfeld, 2007). A Riace il principio dominante dell’affiliazione politica non è radicato in un’essenza somatica o in una qualche affinità precontrattuale e primordiale.
In altre parole, la natura sovversiva di Riace, quella per cui da anni viene, ad esempio, bloccata la messa in onda sui canali RAI della fiction ispirata alla storia di Domenico Lucano, o per cui è stata a lungo sospesa l’erogazione dei fondi ministeriali per l’accoglienza, è l’essere rottura tassonomica di categorie naturalizzate come quelle di confini e identità, il cui costrutto ideologico lì si rivela in tutta la sua artificiosità (Herzfeld, 2006). Riace è una piccola grande comunità cosmopolita, in cui i legami sociali partono dalle strette viuzze del comune per abbracciare vari continenti (non solo quelli da cui provengono gli ‘immigrati’ ma anche quelli in cui oggi vivono gli ‘emigrati’ che hanno concesso le proprie case per dar vita all’accoglienza).
Bisognerebbe andarci, a Riace. Percorrerne i vicoli, incrociare gli anziani del paese che giocano a carte o sono seduti ai tavolini dei bar insieme a giovani uomini originari di un qualche altrove o incontrare persone da poco arrivate prendersi cura dello spazio pubblico come se fosse sempre appartenuto loro. Il cosmopolitismo cessa di essere il privilegio di una ristretta élite intellettuale per divenire pratica sociale locale, quotidiana, familiare, tesa all’«estensione dei confini del quotidiano» e all’ampliamento degli «orizzonti culturali locali, non per dissolvere o negare la familiarità del locale, ma per combatterne le indegnità e le esclusioni (Appadurai, 2014: 270-271)».
Ne sono un esempio i mille frammenti di vita quotidiana, a Riace. Dalla scuola, destinata alla chiusura e in cui invece bambini italiani e stranieri – come altrove, in Italia – sono seduti insieme ai banchi senza che questo comporti chissà quale stato di agitazione, all’albergo diffuso che invera il principio dell’ospitalità grazie all’autorecupero delle case; passando per le botteghe artigianali, in cui le donne e gli uomini del posto insegnano ai nuovi arrivati a soffiare il vetro e a tessere la ginestra, realizzando prodotti che poi rientreranno nei circuiti delle botteghe del commercio equo e solidale di tutta Italia.
I confini noi-loro non riflettono solo le appartenenze culturali (le identità e le diversità), ma anche i rapporti di potere e subalternità. L’assistenzialismo, ad esempio, si configura come un dispositivo all’opera nella maggior parte dei sistemi istituzionali dell’accoglienza, come testimoniato da diverse ricerche e studi etnografici (Pinelli, 2013). Generatore di alienazione e responsabile del protrarsi di condizioni di subalternità e asimmetrie nei rapporti sociali, l’assistenzialismo nei contesti dell’accoglienza non solo ha danneggiato l’innesto dei migranti nei contesti sociali locali, ma ha anche inficiato il rapporto di fiducia tra nuovi arrivati e residenti originari.
A Riace, i paradigmi dell’assistenzialismo e dell’emergenzialità perenne possono dirsi superati. Piuttosto che creare grandi centri in cui ammassare i richiedenti asilo e i rifugiati per poi, come impone la legge, accompagnarli alla porta dopo qualche mese, indipendentemente dal grado di autonomia e autosufficienza raggiunti, l’accoglienza a Riace si è fatta diffusa. Sia in senso spaziale (disseminando le persone nelle case abbandonate dai cittadini riacesi emigrati in tutto il mondo) che in senso socio-economico: con i fondi dell’accoglienza sono state create borse-lavoro, sono state avviate attività economiche (quasi sempre facendo rivivere antichi mestieri e lavori tradizionali, dall’ospitalità alla tessitura, dalle botteghe alla raccolta dei rifiuti con gli ormai celebri asini); si è andati oltre la necessità di attendere l’agognata e sempre ritardata erogazione dei fondi ministeriali, attraverso l’ideazione di un sistema di moneta locale che evitasse il ricorso ai prestiti e alle banche. Decorso il periodo dell’accoglienza, i migranti vogliono fermarsi per lavorare e fare comunità, entrando così «in uno spazio di socialità pubblica, di riconoscimento ufficiale e di legittimazione tecnica (Appadurai, 2014: 232)», fuori dalle umiliazioni quotidiane di cui sono pregne le esperienze di subalternità e marginalizzazione di gran parte delle persone straniere nel sistema-accoglienza italiano. I migranti perdono lo stigma di cittadini politicamente e socialmente invisibili, per acquisire una visibilità politica generalmente negata (salvo che nelle narrazioni xenofobe).
Tutto ciò rientra nel quadro delle veementi contestazioni mosse al sindaco Domenico Lucano nell’ambito delle vicende giudiziarie che lo vedono protagonista in questi mesi. Nelle ore in cui butto giù queste righe, una circolare del Viminale prova a mettere la parola fine all’esperienza di Riace [5]. Le peculiarità di quel modello, appena richiamate, costituiscono agli occhi dei guardiani del ‘campo burocratico’ (Bourdieu, 1994) gravi violazioni, al punto da determinare la disposizione di trasferire altrove i migranti attualmente ospitati a Riace, i quali potranno rifiutare questa ‘deportazione’, ma al prezzo di fuoriuscire dal circuito ufficiale dell’accoglienza, rinunciando così ai suoi benefici.
A Riace l’accoglienza si autosostiene e alimenta un circolo virtuoso dal punto di vista economico-sociale – basti pensare alle giovani e ai giovani riacesi tornati in paese per lavorare nell’accoglienza o in altre nuove attività – e, soprattutto, umano. Come scrive Tiziana Barillà, in un’Italia incapace di andare oltre la logica della continua ‘emergenza migranti’, «l’accoglienza a Riace, insomma, ha raggiunto un grado di maturità alla quale il paese non è preparato (2017: 77)».
Questa autosufficienza (o autosussistenza) – che può costituire il futuro di Riace oltre gli assurdi vincoli e i ricatti del ministero – conferisce a tale modello politico una certa connotazione post-sviluppista, essendo integrato in un orizzonte di autogoverno o di governamentalità dal basso, sganciato dal modello ‘progetto’ e dalla sua grammatica di investimenti/ritorni a breve termine, reporting, rendicontazione, imperativi burocratici.
Riace è un villaggio globale, come campeggia su un’arcata in legno che quasi sancisce l’ingresso al paese. Sul muro di una casa, nei pressi dell’anfiteatro comunale, è possibile ammirare un murale: su uno sfondo celeste, diverse nuvole bianche, ognuna delle quali riporta il nome di una nazione da cui provengono i ‘nuovi’ abitanti di Riace.
Eppure la storia di Riace è profondamente radicata in una tendenza locale comune a tanti altri paesi della Calabria (ma non solo): quella dello spopolamento. È ben noto che il destino di Riace sia stato modificato grazie all’arrivo dei migranti, come canta splendidamente Giovanna Marini nella sua ballata per Riace [6], e all’inaugurazione di un progetto di rinascita comunitaria che si è nutrito tanto della presenza dei nuovi cittadini (con annesse strutture per l’accoglienza, posti di lavoro per i residenti che hanno potuto iniziare a lavorare in questo settore piuttosto che emigrare), quanto dell’attivazione di circuiti di turismo solidale, rilancio dell’agricoltura, recupero di attività economiche ‘tradizionali’, rivitalizzazione di saperi e conoscenze locali. In poche parole, la ‘restanza’ (Teti, 2017), intesa come germinazione di nuove comunità possibili contro l’abbandono, lo spopolamento, la perdita di identità e memoria.
Come spiega lo stesso Vito Teti [7], la restanza
«non è una considerazione all’insegna del “come era bello una volta” o di una sorta di “idealismo utopistico del passato”, o un tentativo di proiettare nel passato l’ideale che non è vissuto nel presente, o di rimpianto di un “buon tempo andato”, mitizzato e mai esistito nelle forme di tanti inventori di paradisi perduti».
La restanza è la «ricerca continua del proprio luogo», un movimento, un’idea che non si assesta mai su se stessa definitivamente. È aprirsi al cambiamento e alla «condivisione dei luoghi che ci sono affidati».
«Restare significa raccogliere i cocci, ricomporli, ricostruire con materiali antichi, tornare sui propri passi per ritrovare la strada, vedere quanto è ancora vivo quello che abbiamo creduto morto e quanto sia essenziale quello che è stato scartato dalla modernità».
I disperati in arrivo sulle nostre coste, scarti dell’imperialismo capitalista ieri coloniale, oggi postcoloniale e liberista, sono un elemento attivo e consapevole di quella sapiente ricostruzione che si è compiuta a Riace, dove l’abbandono è stato recuperato, e il calo demografico non ha annientato una comunità.
Lucano si è affacciato per la prima volta alle elezioni comunali di Riace nel 1995, senza comunque candidarsi a sindaco; in quell’occasione la sua lista non riuscì nemmeno ad ottenere i voti necessari per eleggere un consigliere di minoranza. Egli ricorda in questi termini quell’esperienza:
«”È stato un fallimento, ma fu allora che capimmo che dovevamo investire di più, metterci più in gioco. Ci tuffammo nella scoperta e nella cura della nostra cultura”. Qui in Magna Grecia, va alla scoperta di soprannomi e proverbi, dell’arte e delle tradizioni locali, che adesso utilizza come istanza politica (Barillà, 2017: 34).
Assistiamo dunque a un recupero del popolare che non coincide con lo sfruttamento economico del patrimonio culturale (materiale e immateriale) da vendere a buon mercato al miglior offerente. Come scrive Tiziana Barilla, il patrimonio culturale locale diviene istanza politica, nel senso che è riconosciuto quale elemento di riscatto – politico – dei subalterni, dei pastori e delle tessitrici di un tempo, che dovevano fronteggiare un quotidiano le cui condizioni di esistenza erano sottoposte a continui rischi di sfaldamento materiale e simbolico, e i migranti che oggi apprendono quei saperi e quei mestieri dopo esser passati per apocalissi di vario genere nei paesi di provenienza e nell’estenuante viaggio migratorio. Nell’esperienza politica della comunità riacese, il ‘popolare’ è connotato insomma in senso anti-egemonico (de Certeau, 2010).
È imbevuto di ‘popolare’ anche quella peculiare forma di ‘cosmopolitismo dal basso’ (Appadurai, 2014), precedentemente richiamato, che caratterizza Riace e tanti altri luoghi di frontiera in cui la politica della speranza viene declinata nel tempo presente per assumere la configurazione di una democrazia profonda.
Il 6 ottobre, giorno in cui da tutta Italia migliaia di persone si sono riversate per le strade di Riace per manifestare solidarietà a Lucano, sono stati i migranti ad aprire il corteo, marciando per le strade del paese levando ad alta voce un grido di rabbia e di libertà per il sindaco agli arresti domiciliari. La portata di Riace va oltre gli orizzonti culturali locali, rientrando in una condizione globale che accomuna diverse forme di attivismo transnazionale che combattono l’esclusione sociale e nuove forme di discriminazione e sfruttamento.
Benché non sia questa la sede per un adeguato approfondimento, negli ultimi anni diversi movimenti sociali hanno assunto un’identità plurale. Alle assemblee politiche e organizzative vi partecipano attivisti di diversa nazionalità, motivo per cui la traduzione nelle lingue dei partecipanti è ormai divenuta pratica politico-organizzativa diffusa. La traduzione fa parte di una più ampia pratica di negoziazione delle differenze culturali, fulcro della costruzione di nuove solidarietà orizzontali e da cui non può prescindere una politica che oggi persegua il cambiamento sociale.
Riace partecipa a questa tendenza globale, perché il riconoscimento dell’alterità culturale non ha condotto al rafforzamento di dispositivi di assistenzialismo e di preservazione delle asimmetrie di potere originarie. Il rispetto dei confini e delle differenze ha condotto al loro progressivo superamento. La lotta per il riconoscimento che, in misura particolare, a Riace ha fatto sì che persone arrivate da ogni dove perdessero gradualmente l’etichetta di ‘migranti’ nello scambio e nell’interazione sociale quotidiana, ha reso così un borgo ionico calabrese destinato allo spopolamento e all’abbandono un laboratorio di democrazia profonda [8] «interiorizzata nelle viscere della comunità». Per concludere con le parole con cui Arjun Appadurai scrive delle nuove forme di politica globale e di cambiamento sociale, parole che hanno più volte costellato le riflessioni di questo articolo, Riace è (e continuerà ad essere) «una democrazia a portata di mano, […] di quartiere, di comunità, di parentela, di amicizia, che trova espressione nelle pratiche quotidiane […]; è la trasformazione degli ideali borghesi costituzionali in quotidiane forme di consapevolezza» (2014: 290).