CIP
di Silvia Paggi
Per rendere omaggio a Claudine de France (1937-2023), propongo in italiano un suo scritto del 2013, nel quale racconta la sua prima esperienza di ricerca filmica sul campo (1968-1969) che portò alla realizzazione del suo primo film, La Charpaigne.
Direttrice di ricerca al CNRS e antropologa-cineasta, Claudine de France ha diretto la mia tesi di dottorato e, col tempo, la nostra relazione si è trasformata in una bella amicizia. Il mio debito intellettuale nei suoi confronti è grande. Come per molti di noi, la sua passione per il cinema etnografico è legata alla scoperta dei film di Jean Rouch, col quale dagli anni 1960 inizia non solo a formarsi alla pratica delle riprese a mano, ma anche un percorso di collaborazione, che dal Comité du film ethnographique si estenderà all’università di Paris X-Nanterre.
Nascono così, nel 1971, il laboratorio di ricerca Formation de recherches cinématographiques (FRC) e, nel 1979, una specifica formazione universitaria (DEA/Master e Dottorato) per il cinema etnografico; organismi di cui Claudine de France assumerà per molti anni la responsabilità.
Corroborate dalla pratica dell’esperienza sul campo, le sue riflessioni teoriche e metodologiche sulla cinematografia etnografica confluiscono in una tesi di dottorato diretta da André Leroi-Gourhan, prima versione di quello che, nel 1982, diverrà uno dei testi di riferimento per la disciplina: Cinéma et anthropologie.
Tra gli altri contributi teorici maggiori: Études filmiques du quotidien (1977 – tr. it. 1988); Corps, matière et rite dans le film ethnographique (1979); L’analyse praxéologique. Composition, ordre et articulation d’un procès (1983); Image et commentaire: du montré à l’évoqué (1985); L’anthropologie filmique: une genèse difficile mais prometteuse (1994 tr. it. 1996); Des apparences de la coopération à son appréhension filmique (2003); La profilmie, une forme permanente d’artifice en documentaire (2006).
Claudine de France ha anche coordinato diverse pubblicazioni collettive, in particolare quelle della collezione “Cinéma et sciences humaines” della FRC, spesso in collaborazione con Annie Comolli. Tra le produzioni editoriali: Pour une anthropologie visuelle (1979); Le Film documentaire: options méthodologiques (1981); Le Film documentaire: contraintes et options de mise en scène (1983); Du film ethnographique à l’anthropologie filmique (1994); Travaux en anthropologie filmique (2003); Travaux en anthropologie filmique 2 (2004); Corps filmé, corps filmant (2006).
L’apporto teorico di Claudine de France pone le fondamenta di una disciplina che, per il ruolo centrale che il film occupa nell’antropologia visiva, preferiva chiamare antropologia filmica, risolvendo altresì l’annoso problema dell’esclusione dell’audio. La denominazione appare già in un testo italiano del 1981 [1] e sarà teorizzata come disciplina a pieno titolo nel 1994.
«È perciò partendo dal vasto campo esperienziale offerto dal film etnografico e dalle produzioni a lui apparentate, che si sviluppa oggi questa nuova disciplina che, dal canto mio, qualificherei come antropologia filmica, preferibilmente ad antropologia visiva» (France C. de, [1994] 1996: 83) [2].
Per Claudine de France, l’antropologia filmica offre finalmente all’etnografia lo strumento di cui aveva bisogno, potenziando le capacità di descrizione e di analisi dell’antropologia e ampliandone altresì gli ambiti di ricerca. Al tempo stesso, essa suscita un ripensamento metodologico e epistemologico delle fondamentali relazioni: «osservatore/osservato» e «parola/scrittura». Consideriamo infine che la natura interdisciplinare dell’antropologia filmica fa sì che i contributi di Claudine de France non siano influenti solo in ambito antropologico ma anche per gli studi cinematografici.
Tra le molte occasioni che mi permisero di collaborare con Claudine de France (incontri, seminari, pubblicazioni, ecc.), il suo apporto, e quello dell’insieme della FRC, fu determinante nella realizzazione del multimedia (testi e estratti di film) Antropologia visiva e tecniche del corpo [3], per la piattaforma on line dell’Université Ouverte des Humanités (UOH). Fu un lavoro lungo e impegnativo che, dal 2007, riuscii a concludere solo nel 2012.
Qualche tempo dopo, la sollecitai per una pubblicazione che stavo preparando sul tema “Terreni in antropologia visiva”. La trovai molto reticente a scrivere. Claudine era però molto sensibile, e la nostra amicizia fece sì che io potessi insistere, proponendole infine d’intervistarla per poi redigere io l’articolo. Così infatti si fece. Ma lo stile di scrittura di Claudine de France era, al pari del suo analizzare, estremamente preciso. Cosicché, quando le sottoposi l’articolo in forma d’intervista, di fronte a questa… ‘minaccia’… si rassegnò a scriverlo lei stessa.
Ora il mio impegno è stato quello di tradire il meno possibile nel tradurre. Ho scelto di attenermi il più possibile alla lettera, a scapito di una formulazione in italiano sicuramente meno fluida che se avessi optato per una più libera trasformazione stilistica.
Ricordi di un primo terreno [4]
di Claudine de France
La mia prima esperienza sul terreno come antropologa-cineasta è cominciata nell’autunno 1968. In questa occasione ho potuto realizzare un primo film, La Charpaigne [5]. In un certo senso, la prova del fuoco. Perché fino allora avevo prodotto lavori teorici, elaborando concetti generali sul cinema antropologico. Bruscamente, ho dovuto affrontare una situazione assolutamente particolare, in cui le mie questioni di carattere generale passavano momentaneamente in secondo piano, o più esattamente, restavano in sottofondo. Come allieva di Leroi-Gourhan, avevo riflettuto a lungo sul comportamento tecnico, ma per me si trattava di concepirlo nel modo in cui veniva catturato dal cinema. M’interessavo inoltre alla vita quotidiana, compresa quella della mia stessa società, ma non avevo esperienza filmica riguardo a situazioni specifiche in cui si manifestava il comportamento tecnico: vedevo solo che era immediatamente accessibile all’immagine filmica.
Questo terreno mi è stato per così dire “offerto” per caso, grazie a Claude Lévi-Strauss, che aveva espresso agli etnologi impegnati in una vasta “Ricerca Cooperativa sul Programma” del CNRS nel Châtillonnais, il desiderio che venisse filmato un cestaio di Lignerolles, il paese dove si trovava la sua residenza secondaria. Si trattava di un cestaio occasionale e gratuito, che fabbricava ceste in legno di nocciolo [6] chiamate “charpaignes”, destinate al trasporto del nutrimento per il bestiame nella stalla. Uno degli etnologi che faceva ricerca nel Châtillonnais sollecitò quindi Nicole Echard la quale, impegnata sul suo terreno africano, propose il mio nome. A mia volta sollecitata, accettai immediatamente perché si trattava di filmare e valorizzare un’attività relativamente semplice, per la quale potevo applicare dei modi di descrizione filmica adeguati all’esplorazione di una tecnica materiale.
Cominciò così per me l’avventura. E dico bene “l’avventura” perché, contrariamente a ciò che a volte si crede, un terreno in ambito rurale francese presenta spesso difficoltà d’accesso, che l’etnologo sia o meno armato di cinepresa. Inoltre, appartenendo alla stessa società delle persone presso le quali si conduce l’indagine, si rimane spesso prigionieri dell’illusione – alimentata dall’uso di una stessa lingua – secondo la quale il conosciuto prevale sull’ignoto. Per quanto mi riguarda, non incontrai grandi difficoltà, come vedremo. Le difficoltà furono d’altro ordine. In effetti quando, come nel mio caso, si parte da soli sul campo per realizzare un’inchiesta filmica, si è di colpo investiti da una moltitudine di svariati compiti, che vanno dalla manutenzione e manipolazione dello strumento di lavoro, alla scelta e al controllo della messa in scena, passando per la gestione delle relazioni con le persone filmate e la preoccupazione di progredire nell’esplorazione. Insomma, un’attività poliedrica. Per quel che riguarda il materiale di ripresa, avevo una cinepresa meccanica 16 mm Bell and Howell a molla, le cui caratteristiche principali consistevano in un’autonomia di soli 30 secondi tra due ricariche della molla e dal non avere una visione reflex: il mirino della cinepresa non era in asse con l’obiettivo. Ciò che si vedeva nel mirino era leggermente diverso da ciò che si inquadrava. Infine, l’apparecchio era molto rumoroso, impedendo quindi la registrazione simultanea del suono. Avevo comprato questa cinepresa da un amico brasiliano. Ce l’ho ancora e funziona.
Partire per la ricerca sul campo in treno e autobus era un’impresa, data la quantità di materiale da trasportare. Alla cinepresa si aggiungevano numerose bobine di pellicola in bianco e nero, di 30 metri ciascuna, nonché il materiale per l’illuminazione con diverse lampade e metri di cavi. Devo tuttavia precisare che un mese prima delle riprese mi sono presentata, senza materiale, al cestaio e a sua moglie, da cui avevamo ottenuto l’accordo, per esporre il mio progetto di lavoro. La mia prima visita ha quindi avuto luogo nell’ottobre del 1968. L’équipe di ricerca, stabilita in un borgo vicino, mi aveva messo a disposizione un velosolex per andare a Lignerolles. Un aggeggio di cui controllavo a malapena la guida: frenava poco e s’inceppava continuamente. Bene o male, sono arrivata dal cestaio. Ho scoperto una coppia di pensionati molto accoglienti che abitavano in una vecchia casa molto ben tenuta. Davanti c’era l’orto di cui si occupava con cura il cestaio, Maurice Bonnevaux. Sarah, sua moglie, era stata la maestra del paese e lui il segretario municipale. Mi hanno ricevuto nella loro cucina, la stanza principale della casa. Il progetto li ha incuriositi e entusiasmati. Mi hanno proposto di ospitarmi per la durata delle riprese. Ho però precisato che, trattandosi di un film e non di una serie di foto, la durata delle riprese non poteva essere per il momento definita. Dopo una lunga conversazione, il cestaio mi ha fatto visitare la grande rimessa in cui lavorava, situata nel retro della casa. In seguito a un incidente, aveva una gamba rigida e difficoltà a sedersi. Mi ha quindi mostrato il dispositivo che aveva creato per compensare il fatto che gli era impossibile lavorare seduto, come la maggior parte dei cestai. Si trattava di un banco di piallatura, ereditato dal nonno bottaio, che gli permetteva di lavorare in piedi. Visitando l’immensa rimessa, illuminata da un unico lucernario, ho capito subito che avrei avuto bisogno d’illuminazione artificiale. Avendo indicato al cestaio che tutte le fasi di lavorazione m’interessavano, mi propose di accompagnarlo nel bosco per filmare la ricerca e il taglio dei rami. Infine, mi ha brevemente enunciato le principali fasi del suo lavoro, mostrandomi ceste giunte a stadi diversi di lavorazione. Al mio ritorno al borgo, la sera stessa, annotai, tra le altre, tutte le informazioni che mi permettevano di preparare le riprese e, soprattutto, di scegliere il dispositivo di registrazione.
Quando sono tornata in novembre per le riprese, aveva nevicato, faceva freddo. Sono scesa dal treno poi dall’autobus, pesantemente caricata di una valigia e una grande borsa con, oltre ad alcuni vestiti, tutto il materiale necessario a cui avevo aggiunto una macchina fotografica polaroid. L’introduzione di una macchina fotografica polaroid negli strumenti di lavoro si è inaspettatamente rivelata estremamente preziosa. Quando si filma con una cinepresa meccanica che obbliga a interrompere molto frequentemente la registrazione, da cui risultano inquadrature relativamente corte, la domanda essenziale, lancinante, diventa: quando tagliare? dove tagliare? Impossibile inoltre visionare immediatamente, sul terreno stesso dell’indagine, le immagini registrate. Da qui l’impressione costante di filmare alla cieca, nella più grande approssimazione. Ora, l’approssimazione si adattava male a una descrizione tecnologica che desideravo fosse il più vicino possibile allo sviluppo dell’azione. Devo qui precisare che all’epoca cominciavo a interessarmi molto seriamente al continuum gestuale, al modo in cui si concatenavano le azioni sensibili, accessibili all’immagine. Il ricorso alle foto polaroid, immediatamente visibili, mi ha permesso di risolvere in parte il problema della restituzione sull’immagine filmica del concatenamento delle operazioni manuali dell’artigiano, nonostante i numerosi tagli della registrazione. Una fotografia istantanea, al momento dell’interruzione della ripresa filmica, permetteva di marcare l’istante preciso dell’interruzione, lasciando una traccia dell’ultimo gesto del cestaio, al quale chiedevo d’interrompere un attimo la sua azione, per passare dall’uso della cinepresa a quello della macchina fotografica. In accordo col cestaio, facevo in modo che i tagli “fotografati” si situassero nelle fasi ripetitive dell’azione, nel cuore di una stessa operazione, preferibilmente quando l’artigiano desiderava interrompere momentaneamente il lavoro. Quando ricominciavo le riprese, consultavo l’ultima polaroid, vero e proprio punto di riferimento nello spazio e nel tempo dell’azione filmata. Naturalmente, facevo in modo che il punto di vista (inquadratura e angolo) della polaroid coincidesse con l’ultimo punto di vista della cinepresa. Sceglievo quindi un nuovo punto di vista, introducendolo a volte con un lievissimo spostamento in avanti della cinepresa che, speravo, riflettesse la fluidità e la continuità dei gesti del cestaio. Mi liberavo così in parte dei vincoli imposti dalla cinepresa, compensando le frequenti interruzioni della registrazione con la fluidità nella concatenazione delle inquadrature. La continuità dell’azione del cestaio era preservata. Ho conservato le foto polaroid. Con mio grande stupore, quarant’anni dopo, sono ancora “visibili”.
Le riprese sono durate diversi giorni. Ogni sera annotavo su un diario di campo le operazioni del giorno e i progetti per quello successivo. Ho accumulato diversi taccuini.
L’utilizzo delle foto polaroid ha avuto un ruolo molto importante in questa prima esperienza. Annunciava l’uso, alcuni anni dopo, del video, per la possibilità di visualizzare immediatamente i risultati delle riprese e avviare un dialogo con le persone filmate su ciò che veniva mostrato. Si poteva così approfondire l’inchiesta ponendo domande estremamente precise sulla ragione di tal gesto, tale operazione, tale interruzione nella fabbricazione. Il cestaio era una persona molto intelligente. Rifletteva molto sul suo lavoro in occasione del film e, molto presto, si è creata tra noi una sorta di cooperazione. Partecipava alle riprese nel senso che, per esempio, mi aspettava quando la cinepresa mi obbligava a smettere di filmare. Aveva capito molto bene cosa fossero le scelte di messa in scena. A volte mi diceva molto appropriatamente: «Là, avreste un punto di vista migliore». All’epoca, non ho teorizzato questa forma di cooperazione, ma in seguito ho capito che si trattava di una forma profilmica, di carattere euristico, in quanto faceva progredire la ricerca. L’immagine è il risultato di questa cooperazione al tempo stesso gestuale (nel film) e verbale (fuori dal film). Il cestaio aveva anche un gran senso dell’umorismo. Per esempio, spesso assumevo posture difficili per filmare, inusuali: sdraiata sul pavimento, accovacciata, appollaiata su una scala, ecc., sempre con le gambe leggermente piegate. Applicavo molto seriamente le regole di una ginnastica concepita per le riprese a mano, appresa qualche anno prima e accuratamente tenuta in esercizio. Il cestaio dichiarò a sua moglie: «Per la prima volta in vita mia ho visto una giovane donna sdraiata ai miei piedi».
Sussisteva il delicato problema della registrazione del suono perché, non dimentichiamolo, avevo una cinepresa molto rumorosa. Ho optato per la seguente soluzione: in occasione di un successivo soggiorno, ho proposto al cestaio di fare una seconda fabbricazione, destinata unicamente alla registrazione del suono, senza il rumore della cinepresa. Ho scelto questa soluzione perché, nel frattempo, a partire dalle registrazioni filmiche (rushes), avevo esaminato a lungo la natura e il ritmo dei gesti del cestaio, sempre identici. I suoni dei gesti di una lavorazione potevano quindi essere applicati a una lavorazione analoga. Si poneva il problema dell’inquadratura sonora che doveva corrispondere all’inquadratura visiva. Anche in questo caso, l’osservazione delle immagini mi è stata di grande utilità. Ne è risultato un lavoro estremamente preciso di postsincronizzazione durante il montaggio, condotto con mano maestra dal montatore del Comitato del Film Etnografico, Jean-Pierre Lacam. L’atmosfera del film ultimato deve molto alla meticolosità di questa elaborazione dei suoni originali. Certamente questo tipo d’impresa comportava una parte innegabile di artificialità, in poche parole, di finzione. Ma permetteva la più vicina restituzione dell’atmosfera sonora del lavoro solitario del cestaio, il ritmo dei suoi gesti e talvolta persino i segni del suo sforzo, col suono del suo respiro.
Apparentemente il cestaio era solo nella rimessa dove lavorava, aveva però sempre vicino un compagno, un bellissimo gatto bianco, protagonista secondario dell’azione filmata. Lungi dal fuggire in mia presenza, il gatto s’integrò spontaneamente nelle riprese. Forse era attratto dal calore delle luci che avevo installato. In ogni caso, la sua presenza era un elemento essenziale dell’atmosfera visiva. Durante le riprese, ho sempre cercato di valorizzare questo insieme indissolubile formato dal corpo del cestaio, le sue posture e il suo originale dispositivo di lavoro, trascinati dal ritmo della ripetizione gestuale. Durante le diverse proiezioni del film, alcuni spettatori hanno criticato la ripresa di un numero esagerato di “archi” (montanti) che il cestaio posava per dare forma alla cesta. Ciò può in effetti risultare noioso per uno spettatore principalmente interessato ai progressi nella trasformazione del prodotto. Ma perché uno spettatore interessato all’attività di cesteria capisse come si otteneva la forma a conchiglia asimmetrica della cesta, era invece necessario attendere la posa di un certo numero di archi, peraltro collocati ciascuno in modo diverso.
Al di là dell’apparente monotonia delle ripetizioni gestuali di cui ho appena parlato, avevo osservato grandi variazioni – persino forti contrasti – durante le varie fasi della fabbricazione, che si manifestavano sia nell’ampiezza dei gesti relativi alla natura, variabile, del materiale e nel modo di lavorarlo, sia nell’uso o meno di un utensile. Per esempio, il cestaio passava dall’uso della roncolina, il suo principale strumento di lavoro, durante il sollevamento della corteccia o l’assottigliamento dei rami, a quello della corda, del chiodo e del martello durante la chiusura del “cerchio” della cesta. Per lavorare durante la tessitura non aveva poi bisogno che delle mani, a parte il banco di piallatura, supporto costante dell’oggetto, in ogni fase della sua fabbricazione. Inoltre, quando il cestaio procedeva alla chiusura dell’ampio “cerchio” della cesta, con le braccia molto divaricate, l’ampiezza dei suoi gesti contrastava fortemente con quella, ridotta al leggero spostamento delle mani e delle dita, della tessitura diritta («uno preso, uno saltato») delle strisce di corteccia attorno agli archetti. Mi era quindi necessario modificare frequentemente le inquadrature e i punti di vista e, di conseguenza, la posizione delle luci.
Sebbene la fabbricazione vera e propria della cesta fosse al centro della mia ricerca, mi è sembrato indispensabile esplorare, anche se brevemente, la fase preliminare di raccolta dei materiali nella foresta (i rami di nocciolo), nonché la fase terminale dell’utilizzazione della cesta, finalità propria del processo. Un parente del cestaio, contadino, possedeva una cesta fabbricata da Maurice Bonnevaux qualche tempo prima. Fu d’accordo perché fosse filmata una sequenza d’utilizzo della cesta nella stalla. Volevo mettere in evidenza, attraverso l’immagine, il modo in cui il corpo dell’utilizzatore e la cesta si adattavano l’uno all’altra. In che modo quest’ultima, pesantemente carica di alimenti (barbabietole e altre radici), portata a mano e appoggiata sul ventre, giustificava la sua curiosa forma asimmetrica? Un pomeriggio fu dedicato alle riprese nell’oscura stalla; il cestaio sosteneva a mano le luci.
Ogni sera, dopo un’estenuante giornata di riprese nel freddo della grande rimessa, facevamo il punto durante la cena. Più precisamente, Maurice Bonnevaux, come un cacciatore di ritorno a casa, raccontava il lavoro del giorno a sua moglie, a modo suo, sempre con molto umorismo. Sarah Bonnevaux commentava il tutto. Come ex maestra del paese, conosceva ciascuno degli abitanti. Fu così che, raccomandata da lei e dal cestaio, presi contatto con diverse donne del paese che ancora lavavano i panni al lavatoio. Sulla scia dell’inchiesta sulla charpaigne, si è così aperto un nuovo studio filmico del quotidiano, il cui risultato fu il film Laveuses [7].
Ma prima di fare questo passo, mi sono premurata di organizzare l’anno successivo, con l’aiuto dei Bonnevaux e l’accordo del sindaco, una proiezione del film montato nella sala del municipio, invitando gli abitanti di Lignerolles. Donai poi una copia del film al cestaio e alla sua famiglia. Alla proiezione erano presenti Claude Levi-Strauss e sua moglie, Monique. Il cerchio si era chiuso.
Da questa prima esperienza sul campo trarrò alcune brevi conclusioni. In primo luogo, il fatto di proporre a una persona di filmare la sua attività, e su questa interrogarla durante le riprese, permettendole di partecipare attivamente alla messa in scena, la spinge a prendere coscienza dell’interesse di ciò che fino ad allora ha svolto macchinalmente. Man mano che procedevano le riprese e le mie domande, il cestaio s’interrogava a sua volta sul proprio modo di fare, che considerava ora diversamente, ponendosi domande che non si era mai posto prima. La frequentazione prolungata di coloro che filmiamo, vivendo tra loro, favorisce notevolmente questa trasformazione. Gli effetti possono anche esser differiti: quando lo rividi, molto dopo le riprese, il cestaio proseguì la sua riflessione e mi chiese, ad esempio, come gli spettatori del film apprezzassero il suo lavoro. Dal canto suo, il ricordo delle riprese accompagnava costantemente i suoi gesti mentre confezionava nuove ceste. Insomma, la persona filmata e l’antropologo-cineasta progrediscono insieme nella scoperta.
In secondo luogo, questa prima esperienza mi ha fatto prendere coscienza della necessità, nel corso della ricerca filmica, di associare strettamente al terreno immediato dell’indagine un secondo terreno, differito, risultante dall’esame dell’immagine. Il costante andirivieni tra i due tipi di terreno mi è sembrato indispensabile, anche se, nell’inchiesta sulla fabbricazione di una cesta, il secondo terreno si è limitato – a causa dei vincoli tecnici delle riprese – all’uso d’immagini fisse: le fotografie polaroid. Interrogarsi sulla base delle immagini, in collaborazione con la persona filmata, migliora il modo di filmare, precisa e approfondisce la conoscenza.
Infine, la prima esperienza sul campo lascia tracce profonde, in gran parte dovute alla qualità dei rapporti che siamo riusciti a stabilire con le persone filmate. Una relazione di reciproca comprensione velocemente stabilita e rafforzata, come fu col cestaio, diventa un riferimento per le esperienze successive, nonostante la particolarità di ciascuna di esse.
Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] France Claudine de, 1981, “I fondamenti di un’antropologia filmica”, La Ricerca Folklorica, n.3: 51-58
[2] France Claudine de, [1994], “L’antropologia filmica: una genesi difficile ma promettente”, Ossimori n°8, 1996: 83-85.
[3] Paggi Silvia, 2012, Anthropologie visuelle et techniques du corps. Le corps au travail, multimedia realizzato in collaborazione con C. de France, A. Comolli, P.-L. Jordan. https://unt.univ-cotedazur.fr/uoh/anthropologie/.
[4] France Claudine de, 2013, “Souvenir d’un premier terrain”, Mondes contemporains n.3, “Terrains en anthropologie visuelle”: 31-40. Traduzione di Silvia Paggi.
[5] La Charpaigne, 1969, riprese 1968-69, 16 mm, B/N, 32 min., postsincronizzato. Premio alla qualità del Centre National du Cinéma nel 1970. Deposito Comité du Film Ethnographique, Paris. [NdT: Il film è visibile sul sito del CNRS audiovisuel https://images.cnrs.fr/video/503]
[6] [NdT] «en bois de coudrier» o nocciolo.
[7] Laveuses, 1970, riprese dello stesso anno, 16mm, colore, 30 min., postsincronizzato. Label di qualità del Centre National du Cinéma nel 1974. Deposito Comité du Film Ethnographique, Paris.
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Silvia Paggi, antropologa-cineasta, professore emerito di antropologia filmica e comunicazione visiva, Université Côte d’Azur, “Laboratoire Interdisciplinaire Récits, Cultures Et Sociétés” (LIRCES). Tra le principali pubblicazioni: L’antropologo-cineasta (1987), A propos de l’interview filmée dans la recherche anthropologique (1993), Sulla mediazione del patrimonio etnologico (2003), Premières approches filmiques de l’espace domestique à Samoa (2004), Antropologìa visual y nuevas tecnologìas (2010), “Antropologia filmica dello spazio domestico” (2014), “Considerazioni sulla mediazione della parola in antropologia filmica” (2015), Le corps dans l’espace domestique à Samoa” (2018), Contracultura y música de los años 60 y 70 en Milán: testimonio y reflexiones (2020), Musiche e rituali a Saintes Maries de la Mer (2021), L’Inde fantôme de Louis Malle”(2021). Tra le principali realizzazioni filmiche: Civitella 1944-1994 (1994), Fils de jambe tordue. La vinification traditionnelle aux îles Éoliennes (1996), Observation filmée d’une activité quotidienne féminine chez les Bété (2001), Pèlerinage, musiques et danses aux Saintes-Maries-de-la-Mer (2006), Housing conditions of Roma people in Europe – serie di 7 film (2014), Le Soufle de la vie (2017).
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