di Leo Di Simone
In occasione del giubileo sacerdotale del vescovo di Mazara del Vallo don Mimmo Mogavero, lo scorso 12 luglio, la Chiesa mazarese ha voluto corrispondere appieno alla sua vocazione di «Chiesa di frontiera», così come la definì san Giovanni Paolo II in occasione della sua storica visita nel maggio del 1993. E lo ha fatto con un segno originale e tangibile che mette in luce oltre la sua peculiare vocazione l’impegno che ormai da tredici anni il suo Vescovo profonde per la causa del Mediterraneo e per la costruzione di un ponte culturale e interreligioso che renda giustizia allo splendido quanto tormentato bacino che ha generato la storia stessa della civiltà europea. La storia di una civiltà che non può essere letta in maniera autoreferenziale e unilaterale, ma seguendo, semmai, tutte quelle coordinate relazionali che l’hanno legata, in tempi e modi diversi, ai Paesi del nord Africa che insistono sull’altra sponda del nostro splendido mare e all’Asia minore, almeno.
Nel 2008, pubblicando gli atti del convegno Le Rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso [1], nella chiusa della mia introduzione al volume, citai l’auspicio di Gianni Vattimo circa lo sviluppo della vocazione alla “laicità” insita nel cristianesimo, sintetizzabile nell’amore per l’uomo che è lo stesso amore di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio. E quelle Rotte dei Misteri, che corrispondono oggi a quelle dei migranti, secondo questa focalità laicale insita nel cristianesimo, convergono in un punto culturale che gli consente di presentarsi al mondo «come il promotore di spazi di libertà per il dialogo tra le religioni, visioni del mondo, orientamenti ideali e culture diverse, per verificare la sua vocazione missionaria con esperienze storiche nuove ed inedite» [2]. Citai Vattimo, in quell’occasione, perché la sua affermazione, allora, mi suonò profetica, mentre adesso ne colgo il senso più pregnante e reale nel progetto «Operatori di pace» che la Chiesa di Mazara si appresta a varare per festeggiare il suo vescovo e in forte sintonia con lui. In maniera tale che non si capisce bene se il “progetto” sia il dono della Chiesa al suo vescovo o il dono del vescovo alla sua chiesa. Ma non importa. L’amore vive di reciprocità! Importa, anzitutto, che il progetto contempli quella dimensione inedita del cristianesimo che oggi si avverte quanto mai necessaria per navigare su rotte antropologiche altrettanto inedite e per contribuire alla costruzione di un nuovo umanesimo e alla costituzione di un patto di civiltà.
Devo dire, in verità, che il progetto non nasce dal nulla e ha una sua lunga anche se pur recente storia che desidero delineare brevemente e che coincide con ricordi ed esperienze personali ed ecclesiali. Il tutto ebbe inizio negli anni ’70 del secolo scorso, quando dal Maghreb partirono i primi migranti per trovare impiego sui pescherecci dell’allora florida flotta peschereccia di Mazara del Vallo. Arrivarono solo gli uomini, senza famiglia, senza lingua, privi di tutto.
Lo sguardo di un vecchio prete, un intellettuale di razza forgiato da inusuali esperienze culturali, si posò su di loro, ponendosi l’interrogativo cristiano circa le forme dell’accoglienza di quella povera gente che aveva attraversato il Mediterraneo in cerca di pane, mille e cento anni dopo averlo attraversato in cerca di terra da conquistare. I tempi erano dunque cambiati. C’erano però costanti e varianti da valutare in quella situazione nuova che sembrava aprire una nuova pagina della cultura mazarese e non solo. Forse anche europea! Aveva lo sguardo lungo, profetico, padre Gaspare Morello che ho avuto la fortuna di frequentare da giovane studente di filosofia in quegli ultimi anni della sua vita quando la sua senile cecità fisica fu bilanciata dalla veggenza spirituale e il suo magistero divenne una sintesi potente ed incisiva di una lunga vita dedicata alla fede, allo studio, alla scuola, alla cultura, ai più poveri.
Conservo come reliquie i testi che mi dettò, e che io tramutai in dattiloscritti, sulle «Prospettive ecumeniche a Mazara del Vallo tra cristiani ed islamici», oltre ad “appunti” orientativi da indirizzare al Segretariato Vaticano per i non cristiani. Portano la data del 31 marzo 1979 e registrano il significato aperto e laico che lui dava al termine “ecumenico”. Contemplava con ciò stesso la necessità di un “Centro culturale”, se non proprio di una facoltà universitaria, per avviare «un campo di indagini, di ricerche, di analisi, ampio ed originale insieme […] in un momento in cui il quadrante della storia d’Occidente si fa incerto ed oscuro dinnanzi all’agitarsi del mondo arabo e alle manovre sovietiche nel Mediterraneo orientale». Auspicava un rapporto di «fraternità fra cristiani e arabi che non si rompa nemmeno quando le acque del Canale di Sicilia si fanno tempestose, […] per giungere a quel Regno di Dio che non ha barriere e non conosce stranieri». Affermazioni di una attualità incredibile ma sicuramente non scontate in quegli anni, né da tutti condivise.
Diede il via, padre Gaspare Morello, a tutte quelle iniziative di aiuti in favore dei «poveri lavoratori tunisini lontani dalla patria, soli, ansiosi dell’oggi e del domani, e quindi bisognosi d’aiuto, di difesa, di protezione». Si prodigò per la venuta a Mazara delle Suore Francescane, ancora oggi presenti sul territorio, che si presero cura del Consultorio familiare per l’assistenza medica, scolastica e sindacale e patrocinò quel tanto sognato laboratorio per la tessitura dei tappeti che tenesse impegnate le donne tunisine che intanto cominciavano ad affluire per ricomporre le loro unità familiari. Ma il coronamento di tutte queste iniziative doveva avere carattere scientifico e culturale. Per questo aveva chiesto aiuto a padre Maurice Borrmans, islamologo belga, membro dei Missionari d’Africa più conosciuti come “padri bianchi”, fondatore a Roma del Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamistica (PISAI). «Crediamo che si possa istituire a Mazara una sezione di detto Istituto che funzioni con attività culturali precise che mettano in condizione Mazara d’avere una funzione naturale nella possibilità di migliori rapporti tra islamici in genere e tunisini in particolare e noi cristiani». Così mi fece scrivere nella “nota” nove mesi prima del suo transito al cielo il 14 gennaio 1980.
L’eredità spirituale di padre Gaspare Morello non è andata perduta. La Chiesa mazarese l’ha raccolta, pur senza avergliene mai attribuito particolare e pubblico merito, e l’ha fatta fruttificare, fino al presente. I semi da lui seminati nella sua lunga vita di prete appassionato, cristiano diritto, maestro indiscusso di color che sanno, sono diventati frutti di bontà, bellezza, verità. Il progetto «Operatori di pace» viene da quell’albero e sicuramente padre Morello si compiace dal cielo e offre la sua preghiera perché si compia, finalmente.
Perché si compia in questo tempo in cui davvero «le acque del Canale di Sicilia si fanno tempestose», e ne subiscono l’impeto cristiani e musulmani naviganti su una stessa barca. Una nemesi storica non considerata abbastanza e dalla quale si potrebbero trarre inedite conclusioni e sconvolgenti prospettive. A questo dovremo arrivare. La drammatica vicenda dei due pescherecci mazaresi “Medinea” e “Antartide” e dei 18 membri dei due equipaggi non scaturisce da un occasionale incidente di percorso. L’inaudita difficoltà della sua soluzione, al di là di tutte le considerazioni negative che se ne possono trarre in chiave di politica europea internazionale, sta a segnalare la necessità di una pace non finta, non politica, non diplomatica tra le due sponde del Mediterraneo. Una pace superiore, alta, che sia frutto della giustizia e non degli intrallazzi neocolonialistici interessati unicamente al raggiungimento di scopi economici e di parte. Una pace che deve trovare nell’Europa la principale artefice e la principale interessata.
Perché da quel mare tempestoso solcato da Odisseo è nata e in esso rischia di annegare se da esso distoglie lo sguardo misconoscendolo come grembo ed origine, come luogo del suo sostentamento e della sua futura esistenza e prosperità. Ma l’Europa non s’è vista affacciarsi a questo procelloso frangente della storia; la sua politica, davanti ai nodi della storia è quella dello struzzo. L’Europa del diritto e della legalità che dovrebbe decidersi a far leva unicamente sulla giustizia per ottenere pace: Opus iustitiae pax! «La pace è l’opera della giustizia» (Is 32,17); «giustizia e pace si baceranno» (Sal 85,11); «vi do la mia pace, non come la dà il mondo» (Gv 14,27): queste celebri citazioni bibliche dicono che, secondo la coscienza cristiana, la pace è un dono escatologico, un dono che viene dall’alto, ma che rende gli uomini capaci di trasformare le forme della loro convivenza, di generare rapporti giusti senza i quali la convivenza diviene problematica se non impossibile. Il duplice significato della pace come dono di Dio e come modo della convivenza tra gli uomini è però smentito dalla vicenda storica che presenta un’esperienza della pace precaria, vista dalla cultura greco-romana di cui siamo eredi solo come “intervallo” tra guerra e guerra o come “ordine imposto” dagli opportunismi politico-dispotici.
Adesso il mondo ha urgente bisogno di pace, perché gli esseri umani siano “fratelli tutti” e occorrono impegni condivisi da tutte le forze sane, tra le quali, si auspica, si possano annoverare le religioni. Adesso bisogna agire «in nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini. In nome della libertà, che Dio ha donato a tutti gli esseri umani, creandoli liberi e distinguendoli con essa. In nome della giustizia e della misericordia, fondamenti della prosperità e cardini della fede. In nome di tutte le persone di buona volontà, presenti in ogni angolo della terra». Ed è in nome di Dio ed a partire da questi princìpi che, Al-Azhar al-Sharif – con i musulmani d’Oriente e d’Occidente –, insieme alla Chiesa Cattolica – con i cattolici d’Oriente e d’Occidente –, hanno dichiarato «di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio» [3]. Ed è nella piena condivisione di questi principi che la Chiesa di Mazara del Vallo, tramite il suo vescovo ha presentato a Papa Francesco il progetto «Operatori di pace» per dare vita ad un Centro interreligioso per l’integrazione e la cittadinanza interculturale e per dar seguito ad uno degli orientamenti irrinunciabili del Concilio Ecumenico Vaticano II: il riconoscimento della dignità umana di ogni persona, oltre le differenze di origine etnica, di colore della pelle, di religione, di cultura. Per costruire una civiltà di dialogo che prima il nostro don Sturzo e poi san Paolo VI avevano definito «civiltà dell’amore».
Papa Francesco non si è limitato a benedire formalmente il progetto «Operatori di pace»; rispondendo tramite la sua segreteria personale ha fatto sapere non solo di condividerlo in pieno, ma di averlo posto sotto l’ala tutrice del Segretariato Migranti e Rifugiati che si è reso disponibile ad offrire il suo supporto e si interesserà degli esiti e dello sviluppo del progetto stesso: in quanto «si ritiene che questa iniziativa sia ricca di potenzialità derivanti dalla centralità, anche simbolica, della Diocesi di Mazara del Vallo, e dalla concreta ricaduta, in termini di servizi, sul territorio. Il progetto, che raccoglie e rilancia gli insegnamenti di Papa Francesco, ben esplicita la duplice opportunità di confrontarsi con i due nodi cruciali, dialogo interreligioso e mobilità umana, in un’ottica di sviluppo umano integrale per tutta la comunità» [4].
Il progetto sarà dunque avviato nella dimensione di sfida culturale, oserei dire: quella di un cristianesimo che sappia utilizzare le risorse intatte ed inaudite del Vangelo «per giocare un ruolo importante nella storia di una modernità a rischio di finire intrappolata nella “gabbia d’acciaio” che lei stessa tende a costruire. A patto, però, di una profonda conversione, di un ritorno allo spirito delle origini alla luce delle nuove domande» [5]. E se è vero che una domanda si fa sempre più pressante, ossia la ricerca e la richiesta di una nuova umanità, non può apparire insensata e priva di valore la risposta data da Papa Francesco: che Dio «ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro» [6].
E se è vero, inoltre, che le domande più brucianti provengono dal mondo giovanile, si è ritenuto che il nostro progetto debba contemplare e privilegiare anzitutto i giovani. Giovani d’Europa e giovani provenienti dall’Africa, sia maghrebina che subsahariana. Per avviare processi interculturali di scambi e di riflessioni sociali, politiche, economiche, filosofiche, artistiche, religiose, per far diventare il Mediterraneo uno dei luoghi dove sorgono i nuovi discorsi e i nuovi paradigmi dell’umano; per infondere nuova linfa nelle vene di un Occidente sfinito e d’una Europa agonizzante, per la costruzione di nuove simboliche città dove la cultura dell’incontro e la civiltà del dialogo siano il piano regolatore di un umanesimo completamente rinnovato. Ciò potrebbe favorire, indubbiamente, il sorgere di nuove figure professionali mediterranee esperte in «progettazione dell’umano» secondo lo stile degli Operatori di pace. A patto di saper superare la letale contrapposizione tra fede e laicità, poiché «è possibile oggi immaginare una tensione feconda, anziché rassegnarsi a un dualismo conflittuale e polemico»; potrebbe trattarsi di «un offrirsi di ciascuna tradizione come risorsa per liberarsi a vicenda [corsivo nostro] anziché attestarsi su posizioni dogmatiche ed esclusive, con il sogno di cancellarsi l’un l’altra» [7].
Così il progetto si articola su vari livelli che interagiscono tra loro e possono realizzarsi nel tempo anche in relazione al criterio di urgenza e alla concreta fattibilità. Nei locali di Casa Santa a Mazara, dove hanno già la loro sede la Caritas diocesana e la Fondazione san Vito, avrà sede anche il Centro Interreligioso per l’integrazione e la cittadinanza interculturale e vi si coniugheranno sapientemente progettazione, ricerca, studio e una fattiva azione caritativa nel territorio attraverso l’ospitalità di giovani immigrati. Un luogo dove essi possano sperimentare e vivere i princìpi ispiratori del progetto. Un luogo che sia anche punto di riferimento aperto a tutti i giovani, italiani, tunisini residenti e ai profughi; un luogo che favorisca l’amicizia e punti ad una piena integrazione nel sociale ed all’inserimento nel mondo del lavoro. Lì si attiveranno anche laboratori seminariali annuali e Summer School che coinvolgeranno i giovani in attività di studio interdisciplinari, in incontri internazionali organizzati in collaborazione con le Università.
Non per ultimo ma in primis il progetto contempla a fondamento della sua realizzazione un Presidio di preghiera. La sapienza biblica insegna che «Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori. Se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella» (Sal 127, 1). È stato scelto, come luogo per il presidio orante il sito che i mazaresi conoscono ormai da tanti anni come Betel, “Casa di Dio”, nome caro alla tradizione biblica e con assonanze interreligiose innegabili. Sull’area dell’antico santuario di Betel, così chiamato da Giacobbe che vi fece l’esperienza “dell’Altissimo” (Gen 28, 10-22) e gli si rivelò come luogo di riposo, di tregua, di confessione di fede, sorge oggi un piccolo villaggio musulmano, a diciotto chilometri a nord di Gerusalemme, sulla via di Naplusa. «Dio è stato con me nel viaggio che ho fatto» confessa Giacobbe (Gen 35, 3) e potrebbe essere per noi un bel monito e un bell’auspicio programmatico.
Ma c’è di più, perché Giacobbe aveva ancora un bel po’ di strada davanti a sé. La pausa, il ristoro di Betel non è solo fermarsi, bisogna distruggere gli idoli, abbandonare “gli dèi stranieri”, che sono le personificazioni della presunzione di superiorità, della violenza, dell’arroganza, dell’odio, del potere conferito dalla ricchezza ingiusta e dall’astuzia esercitata contro gli altri… Il Dio di Betel è diverso, appare inatteso, promette vita abbondante, accompagna il viaggio di ognuno che lo invochi, ferma la mano di chi commette il male; solo se si dà ascolto alla sua Parola e si mettono in pratica i suoi insegnamenti. Ogni atto di culto è un monumento di riconoscenza al Dio di Betel, il Dio di Abramo, di Isacco, di Ismaele, di Giacobbe, di Gesù Cristo.
All’interno del luogo che suscita suggestive reminiscenze bibliche sarà attiva, per la liturgia e la contemplazione, la Cappella dedicata a Maria Regina della Pace. A lei che ha conosciuto il dolore della morte del Figlio affideremo il dolore del mondo, costituito dal dramma delle estreme povertà, delle migrazioni, delle guerre fratricide, delle morti in quello stesso mare che dovrebbe essere fonte di vita e di prosperità, mentre adesso rappresenta fonte di angoscia per coloro che in esso e di esso vivono, siano essi cristiani o musulmani. Il Presidio di preghiera è affidato alle vigili cure della “Fraternità Betlemme di Èfrata”, Associazione di fedeli della nostra Diocesi nei cui statuti, approvati dal vescovo, sono previsti la pastorale ecumenica e per il dialogo interreligioso.
Così, con la preghiera e le opere siamo chiamati a praticare quello che Papa Francesco chiama «l’artigianato della pace». La pace è un «artigianato» che coinvolge e riguarda tutti e in cui ciascuno deve fare la sua parte. Il compito della pace non dà tregua e non ha mai fine, perché la pace è legata alla verità, alla giustizia e alla misericordia; e l’opera della pace, come la preghiera, ha una sua anamnesis, un ricordo di presenza: mai dimenticare “orrori” come la Shoah, i bombardamenti atomici a Hiroshima e Nagasaki, le persecuzioni e i massacri etnici, esorta Papa Francesco nella sua ultima Enciclica. Essi vanno ricordati sempre, nuovamente, per non anestetizzarci e mantenere viva la fiamma della coscienza collettiva. Altrettanto importante è fare memoria del bene, di chi ha scelto il perdono e la fraternità [8]. L’Enciclica si conclude con il ricordo di Martin Luther King, Desmond Tutu, il Mahatma Gandhi e soprattutto il Beato Charles de Foucauld, un modello per tutti di cosa significhi identificarsi con gli ultimi per divenire «il fratello universale» [9]. Anche noi, ispirandoci a queste eccelse figure richiamate dal Papa, ci lasciamo coinvolgere in questo delicato lavoro artigianale affinché nel cuore degli uomini alberghi “uno spirito di fratelli”.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
Note
[1] Promosso a Mazara del Vallo il 4 e 5 novembre 2005 dalla Diocesi di Mazara del Vallo in collaborazione col Centro Europeo di Studi Economici e Sociali di Marsala. La pubblicazione, per i tipi di Feeria, fu realizzata con il contributo dell’Assessorato Regionale dei Beni culturali e ambientali e della Pubblica istruzione della Regione Siciliana.
[2] G. Vattimo, Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, Garzanti, Milano 2002: 30-31, 106; cit. in L. Di Simone (a cura di), La Rotte dei Misteri. La cultura del Mediterraneo da Dioniso al Crocifisso, Feeria, Panzano in Chianti (Fi) 2008: 36.
[3] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune firmato da Sua Santità Papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb ad Abu Dhabi, il 4 febbraio 2019.
[4] Lettera di risposta a S.E. Mons. Domenico Mogavero da parte di P. Fabio Baggio, Sottosegretario della Sezione “Migranti e Rifugiati” del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, del 21 gennaio 2020.
[5] C. Giaccardi e M. Magatti, La scommessa cattolica, Il Mulino, Bologna 2019: 47.
[6] Lettera enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco sulla fraternità e l’amicizia sociale, n. 5. Qui il Papa dichiara di riprendere il documento di Abu Dhabi e altri numerosi documenti e lettere ricevuti da tante persone e gruppi di tutto il mondo. L’enciclica appare pertanto una risposta alle tante domande della contemporaneità. Il testo è interamente consultabile al seguente link: http://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20201003_enciclica-fratelli-tutti.html.
[7] C. Giaccardi e M. Magatti, La scommessa cattolica, cit.: 47.
[8] Cfr. Fratelli tutti, nn. 246-252.
[9] Cfr. ivi, nn. 286-287.
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Leo Di Simone, teologo, scrittore, esperto di musica liturgica e di arte sacra, ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo e docente stabile di teologia presso la Scuola Diocesana di Teologia. Nella stessa Diocesi coordina il progetto “Operatori di pace” e dirige l’Ufficio Diocesano per i Migranti. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018).
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