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Paesaggi come racconti e come corpi: ora più che mai l’impersonale è politico

9788842831198_0_536_0_75il centro in periferia

di Antonella Tarpino 

È vero che il recente libro di Serenella Iovino (che insegna tematiche ambientali ed ecocriticism all’Università del North Carolina) dal titolo Paesaggio civile. Storie di ambiente, cultura e resistenza, Il Saggiatore, è uno di quei libri che cambiano un po’ il nostro modo di guardarci attorno. Dove nei suoi paesaggi (Napoli, Venezia, Gibellina, le Langhe…) alle dinamiche degli ecosistemi si aggiunge quello strato di storia e di memoria che rende umano il nostro abitare. Perché ecologia e paesaggio sono un intreccio, un’interconnessione di elementi.

Ma i paesaggi sono anche, suggerisce l’autrice, testi in proprio: attraverso di essi possiamo leggere le storie di relazioni sociali e rapporti di potere, equilibri e squilibri biologici, vita umana e non umana. Sono il plot, la trama, l’intreccio appunto.

Un intreccio di materia e di storie. Nel loro fondersi con il mondo di «fuori», i paesaggi/racconti danno voce a storie di ecosistemi, di processi in cui persone “vulnerabili” condividono lo stesso destino «di terre e forme di vita vulnerabili». Ci parlano quei paesaggi degli infiniti modi in cui il personale (ossia l’umano) si mescola ­– lo snodo è cruciale – con l’impersonale  

Esseri e luoghi. I paesaggi/racconti ci fanno capire allora che riconoscere le storie impersonali è importante quanto riconoscere le storie personali, e che, ora più che mai, l’impersonale è politico. Che sia umana o meno, che sia personale o impersonale, per meglio dire, ogni cosa è politica.

Gibellina, il Cretto di Burri

Gibellina, il Cretto di Burri

Le narrazioni dei terremoti ci insegnano non a caso e drammaticamente – il sisma di Gibellina nel 1968 è emblematico – che è questa mescolanza di personale e impersonale a essere veramente in gioco nel nostro mondo di corpi, ambienti e paesaggi. Gibellina, che col suo Cretto opera di Alberto Burri custodisce e racchiude al proprio interno le tracce della vita della comunità sconvolta dal sisma, incarna una doppia narrazione: una narrazione di memoria e una narrazione di progetto. Tutto ciò si esprime in una città che, costretta in una sintassi urbana disorientante, ha utilizzato l’arte contemporanea per plasmare una nuova identità e per reinventare il suo legame con il passato. La memoria qui si stratifica nella terra, diventando «una struttura geologica». Primo monumento sismico del Mediterraneo,

Una sfida che per gli abitanti è ancora in atto, ma adesso quella decisiva è non trasformare questa Gibellina diffusa, il Cretto e la «città metafisica», in un luogo di archeologia del presente. Ed è una sfida politica, perché le città d’arte vecchie e nuove – come, del resto, le città in genere – hanno bisogno di istituzioni che si occupino di loro. Il rischio antropologico permanente che, con tutti i suoi limiti, Gibellina corre – ammonisce ancora l’autrice – è allora quello di “disfarsi” prima di essere diventata parte integrante del tessuto dell’Italia contemporanea.

Che cosa è dunque che rende alcuni terremoti diversi da semplici catastrofi? Quando entrano in scena certe dinamiche umane e non semplicemente impersonali: è il caso dell’Aquila o dell’Irpinia. Col tempo, la trama di questa metamorfosi – che altro non è se non un’infelice combinazione di forze naturali e potere politico – si fa sempre più leggibile proprio nei paesaggi violentemente feriti in cui noi, umani e non umani, ci troviamo a vivere.

Ai confini tra esterno e interno, il paesaggio é per Serenella Iovino uno spazio fisico e insieme densamente emotivo, dove «Terra e carne quasi si confondono e il corpo si fa paesaggio e il paesaggio prende corpo». Tuttavia incontrare la mente di un luogo – secondo la sua espressione prediletta– è una difficile precondizione per divenire-insieme perché le identità locali sono processi in divenire e non solo radici. Ci vuole del tempo, i processi, come le radici, sono lenti.

Napoli dall'alto della Certosa di san Martino

Napoli dall’alto della Certosa di san Martino

Certo esemplare a questo proposito è il caso di Napoli, luogo di origine dell’autrice, città “porosa” (secondo la definizione di W. Benjamin) come poroso è il modo di essere della gente in questo continuo far filtrare le esperienze e le circostanze le une nelle altre, il lavoro e l’accidia, l’intimità e il pubblico, il sacro e il profano, le relazioni umane. Di più: si direbbe che a Napoli la vita è «frammentaria, porosa e discontinua» così che «porosità» sembra essere la legge di questa vita. Ma Napoli è porosa – scopriamo – anche per un altro motivo e ha a che fare col materiale con cui è costruita, la roccia che domina tutto il tessuto urbano, dall’alto di San Martino fino alle grotte scavate vicino al mare. È la duttilità con cui si lavora questa pietra a rendere un po’ anarchica e porosa, appunto, anche l’architettura, che non appare mai definitiva, ma sempre pronta a fare spazio per altro, a trasformarsi. Del resto la maggior parte degli edifici poggia direttamente sulle cave da cui sono stati prelevati i materiali di cui sono composti. Napoli sorge dal suo stesso grembo come Venezia, si può dire, galleggia su una foresta sottomarina di innumerevoli alberi.

Venezia. Immersa nelle acque salmastre della laguna, la città rivela la volatilità di questa instabile convivenza: definibile «come uno stato di equilibrio temporaneo», simile a quello che rende la vita – tutta la vita – un vortice di precarietà condivise e vicinanze non scelte. Dire che il corpo di Venezia è un testo allora non è solo una metafora: nel suo corpo, Venezia esprime, per l’autrice, la crisi globale dei nostri ambienti e la scommessa – mai totalmente vinta, mai totalmente persa – di stabilire un patto tra natura e cultura, tra gli elementi fisici e la nostra immaginazione.

Venezia (ph. Consuelo Deriu)

Venezia (ph. Consuelo Deriu)

Certo, questo vale per ogni città ma più di altre città Venezia rappresenta l’equilibrio improbabile su cui poggia la civiltà umana. Anzi, sfida la possibilità stessa di questo equilibrio: a Venezia, infatti, più che l’armonia vige la mescolanza, opera l’ibridazione. Antichi palazzi che si specchiano nelle sue acque si mescolano con i labirinti industriali della vicina Porto Marghera fatti di tubi, dell’aria trasformata in fumi di scarico, di un ecosistema marino che per anni è stato un esperimento chimico a cielo aperto. 

Un’«amnesia collettiva». Eccola, allora, la formula usata per dare un nome alla  possibile rovina di Venezia: un insieme letale di fattori in cui convergono la riduzione della superficie della laguna, l’aumento delle acque in ingresso dalle bocche di porto, lo sprofondamento del suolo per la subsidenza, l’innalzamento del livello del mare per l’eustatismo, la scomparsa delle barriere naturali e delle barene con la loro biodiversità unica, il «turismo estrattivo», la perdita di abitanti, e soprattutto la perdita di memoria e consapevolezza di sé.

Si può dire in generale come fa la Iovino ­– e Venezia si presta particolarmente all’argomento – che reagendo con i corpi degli organismi e della terra posti sotto pressione oltre il limite è l’inquinamento stesso a segnalare fallimenti politici, abusi, i danni agli ecosistemi. Impersonale, quanto mai politico.

Cascina tra la Morra e Barolo

Cascina nelle Langhe, tra la Morra e Barolo

«Macchine per pensare» i luoghi – secondo la definizione di Salvatore Settis – così lo sono i paesaggi piemontesi delle Langhe e del Roero. Ci parlano di collisioni tra società e natura, ambiente e politica diventando parte del racconto del corpo/paese: uno scenario in cui i vigneti che sanno di fatica contadina, guerra partigiana e vini sontuosi, si fondono insieme, anche qui, alle fabbriche di amianto, e di altro (il disastro dell’Acna di Cengio docet) narrando di lentezza e resistenza.

L’alleanza «lunga e lenta» tra natura e cultura è la chiave che ci consente di entrare in questo paesaggio. Ma si tratta di un’alleanza difficile, a volte durissima. Perché il rapporto tra umanità e terra è più simile a un vincolo reciproco che non a un idillio arcadico: una violenza, o quasi, che si ripete a ogni semina, a ogni raccolto, e i cui ritmi stagionali in realtà sono lunghissime catene che si perdono in un’epoca arcaica. 

Il Vignaiolo nel monumento che gli ha dedicato un oscuro scultore sul belvedere di La Morra e poi scomparso, rubato – un uomo deformato dal lavoro, a torso nudo, curvo sulle ginocchia – non emerge da un quadretto bucolico. Mostra la violenza patita dai soggetti che non hanno possesso di sé e della propria voce (come ci raccontano i Vinti di Nuto Revelli). Poi accanto a questa violenza ce n’è anche un’altra, ed è quella che avviene a spese del territorio, sfigurato da un’industrializzazione spesso insensata e devastante. È ciò a cui si pensa con l’immagine che è stata evocata di «violenza lenta»: la violenza dell’inquinamento, della malattia, delle morti differite dovute ad anni di esposizione a sostanze nocive. È in questa lenta oppressione ­– il monito di Serenella Iovino – che si apre la sfera della giustizia ambientale.

Monumento Il Vignaiolo, di Morra

Monumento Il Vignaiolo, di La Morra

Il destino dell’agricoltura è infatti anche il destino delle comunità, delle specie viventi e degli ambienti in pericolo, a tutte le scale: dai piccoli orti al pianeta. Tutte queste realtà sono costantemente minacciate dalla velocità insostenibile di ciò che nella filosofia di Carlo Petrini e di slow food è detto il «paradigma dell’agricoltura estrattiva». Agli antipodi di questo paradigma, il passo lento del movimento­­ – conclude – è quindi una reazione al ritmo imposto dal capitalismo globale controllato dall’industria e dalla finanza.

Oltre a essere un criterio ecologico, rispettoso delle cadenze e della stagionalità dell’agricoltura, questa lentezza è quindi un appello etico e politico alla giustizia alimentare, che significa giustizia per chi consuma il cibo, giustizia per le comunità che lo producono, giustizia per gli animali che ne sono parte senza averlo scelto, e giustizia per la terra: per la biosfera che rende possibili questi processi e che, alla fine del ciclo, ne assorbe gli effetti. Val a dire l’assunzione di responsabilità nei confronti del futuro, con la salvaguardia di un patrimonio fatto di memoria, di biodiversità e di saperi.

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023 
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Antonella Tarpino, editor e saggista ha pubblicato: Sentimenti del passato, La Nuova Italia 1997; Geografie della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani, Einaudi 2008; Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, Einaudi 2012; Il paesaggio fragile. L’Italia vista dai margini, Einaudi 2016, Memoria imperfetta. La comunità Olivetti e il mondo nuovo, Einaudi 2020. È vicepresidente della Fondazione Nuto Revelli e fa parte della Rete dei piccoli paesi.

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