di Pietro Clemente
Sono tra quelli che hanno visto Cocullo senza festa e senza serpenti. In un certo senso preferisco così. Un po’ perché non amo gli ‘eventi’ in cui la mia potenziale agorafobia vien messa alla prova. Un po’ perché nel mio modo di sentire i paesi è la vita quotidiana l’evento principale. Anche se è chiaro che ‘questa’ specifica vita quotidiana di Cocullo è pervasa dalla grande festa del primo maggio, e che tutti ne parlano e ne raccontano anche a chi venga di febbraio o di novembre.
Al tempo stesso la mia immaginazione della festa è viva. Nutrita di libri, di film, di foto. Nel ricordo più remoto c’è l’idea di una festa in cui i serpenti erano i ‘cattivi’ che San Domenico col suo patrocinio controllava e dominava, e in un certo senso – come San Francesco – domesticava. In qualche immagine ricordo anche spiedini di serpente arrosto. Oggi i serpenti sono ‘amici’, sono ecosistema, sono parte di un sapere e di una identità, sono animali di famiglia. In questa chiave anche il Museo ne parla.
Forse la cosa più significativa della serie fotografica è la ‘familiarità’ che mostra tra popolazione e serpenti, questi strani ‘pets’ che nell’iconografia religiosa vengono demonizzati, e schiacciati da santi piedi. Anche bambini e cani li considerano di casa, si può tenere in una mano un serpente e nell’altra il cellulare: oggetto domestico e globale per eccellenza. Il mondo della pastorizia è stato sostituito da uno strano pastoralismo erpetologico. Ma il paese è in crisi drammatica, in forte declino demografico e produttivo. La presenza così diffusa di ‘serpari’ che offrono la loro guida al territorio anche fuori della festa, non equilibra il tracollo della società precedente all’emigrazione. Il paese – il santo – i serpenti sono oggi di fronte al rischio che la festa diventi come uno scenario di Cinecittà che si mette su il primo maggio e che si toglie il due. La festa è oggi, per me, e così la leggo nelle foto di Luca Bertinotti, un grande rito propiziatorio – forse ignaro – perché la comunità sopravviva. Quel groviglio di serpi sulla testa del santo in movimento, quel mare di folla intorno, sembrano formulare grandi preghiere collettive, evocano le grandi processioni per la pioggia, contro la carestia e i flagelli vari della vita. Qui – a me – sembrano impetrare la sopravvivenza della comunità, essere in tanti perché la comunità cresca e si moltiplichi. Come nei festival dei piccoli paesi dove si celebra il rito di una possibile sopravvivenza. Ma qui ben più forte, con il linguaggio antico, epico, drammatico della festività collettive.
La fotografia di Luca Bertinotti, medico-fotografo, avvezza al mondo dei relitti dei paesi di montagna abbandonati, ai vuoti delle case dove solo qualche traccia ricorda il pieno della vita, affronta questo pieno di folla e di attori inediti con la distanza del bianco/nero, a me suggerisce come una idea di continuità del suo fotografare in una dialettica tra pieni e vuoti. Questo pieno nasconde un vuoto, sembra dire. E al tempo stesso sembra dire come è forte la vita quotidiana, la particolarità dei luoghi, che anche in un paese in decadenza demografica si presenta con i gesti semplici, e le generazioni solidali, che ci rendono quasi normale quel che vediamo e che è straordinario. Vite con serpenti, paesaggio umano con serpenti.
Ma tutto è nuovo in questa festa antica: Il rapporto coi serpenti, la quantità delle auto che circonda il paese, il numero dei fotografi, le selve dei cellulari che documentano o portano ricordo del passaggio del santo. È immaginabile oggi una festa senza telefono cellulare? Tanti, di quelli che demonizzano smartphone e I-phone, sono stati documentati da Bertinotti con le mani alzate e munite di cellulare, in atto di fotografare. Con le mani nella marmellata.
Guardare una festa anche con la coda dell’occhio o con l’occhio ai dettagli, ci aiuta a vederne i margini, i discorsi minori, nascosti, che possono forse aiutarci a rivedere quelli maggiori e correnti. Le foto di paesaggio relative a Cocullo, mi fanno sempre pensare al titolo di una raccolta di versi di Franco Fortini: Paesaggio con serpente del 1984. Fortini fa riferimento a un quadro di Poussin. La tematica è tutt’altra. Ma come non sentire l’attrazione di portare il poeta sui nostri luoghi.
Per ora Fortini ci aiuta a connettere Cocullo alla sua configurazione più profonda ed antica: tra Dante e Poussin. Tra uomini, trasformazione, condanna, speranza. Il serpente come grande simbolo che Cocullo rilegge in termini nuovi, che traccia una lunga storia comune, che tuttavia è solo a Cocullo che si fa concreta. Fortini tra ragione e speranza. Tra disperazione e rivoluzione. Come il paesaggio di questo Abruzzo marginale, solcato da autostrade che non portano sviluppo, ma solo transiti verso altrove. Paesaggio con serpenti, al plurale, per uscire dal simbolo e parlare di un luogo che cerca di rinascere a partire da una sua difficile e incerta coscienza di luogo.
Composita solvantur (1994) è l’ultima raccolta di Fortini e raccoglie tantissime immagini di serpenti minacciosi non conciliati nell’arte. In Paesaggio con serpente (1984), che fa riferimento a Poussin, l’improbabile passaggio della cortina dell’io proteso verso il futuro, lo rapporta alla delusione di chi annota il registro storico degli avvenimenti e si interroga sul ruolo dell’intellettuale e della scrittura, che, come scrive Erminia Passannanti «[…] si emancipa da un universo di utopie, avendo ormai imparato a riconoscere i limiti che tale ambizione comporta – poeta polifonico, in cui coabitano singolarità e pluralità, quale adunanza di corpi e voci alleate o anche avverse, prese in un dialogo ostinato, proprio perché, per sua natura, il testo è sempre “sociale”, per sua origine quanto per sua destinazione, implicita o esplicita».
La delusione si appropria del suo cono d’ombra, vive l’urto della storia e dell’epoche buie e contorte, che racchiudono la loro stanza vivente e la palingenesi del tempo in una vitalità fatale: «La parola è questa: esiste la primavera, / la perfezione congiunta all’imperfetto. / Il fianco della barca asciutta beve / l’olio della vernice, il ragno trotta. / Diremo più tardi quello che deve essere detto. / per ora guardate la bella curva dell’oleandro, / i lampi della magnolia» Una biscia, che corre tra l’erba alla sera, viene attaccata in volo da un animale volante. Fortini compone la sua allegoria, in uno iato scindibile di ordine e disordine: è il suo scorcio sulla realtà attraverso un atto comunicativo che riporta il testo al suo contesto che non dissotterra l’altrove, ma compone la sua coscienza precisa, in cui la peculiare condizione hegeliana dell’uno «che in sé si separa e contraddice» si fissa, «finché non sia più uno. E poi ritorni a esserlo, e ti porti via».
La necessità vitale dell’ordine scoperchia la sua scaturigine nella rappresentazione delle immagini, in cui lo «spettrale manierismo» abbraccia la luce obliqua dell’io, l’assenza interlocutiva e il gesto, dove tutto «si svela materiale e insieme irreale, concreto e mentale» (Luca Lenzini).
La condizione di Fortini, pertanto, celebra il mondo immaginale del ricordo in un contesto collettivo e doloroso, sollecitato da toni di puro espressionismo, attraverso lo sguardo dicotomico sulla compattezza del reale (e delle sue distanze) che «è là ma non vede una storia / Di sé o di altri. Non sa più chi sia / l’ostinato che a notte annera carte / coi segni di una lingua non più sua / e replica il suo errore. / È niente? È qualche cosa? / Una risposta a queste domande è dovuta. / La forza di luglio era grande. / Quando è passata, è passata l’estate. / Però l’estate non è tutto».
È la poesia distante che prende le distanze, «un ragionamento fatto in presenza di un sogno» che contrappone le forze e mette in scena il duro rapporto tra la antica primordialità e il rifiuto della mente, dove la poesia crea strade, indica percorribilità smosse che riscattano e salvano, finendo per mettere a fuoco il dramma dell’umanità tragica.
La contemporaneità percorsa da Fortini si afferma nel disagio impudente delle forze oppositive, concentra la scrittura in una meditata riflessione sulle soglie diamante: «La luna come cammina cammina / così ghiacciata. E senza la più piccola / ipotesi di sopravvivenza. Come è chiaro / che inutilmente il reale è simbolico. / Ma qualcosa ci distrarrà. Ci sarà caro / pensare a lepri in fuga sulla brina / e il gelo diabolico a picco e nel nero / la cristiana coperta sul capo». Commenta Passannanti: «Non c’è modo più forte di attirare l’attenzione del lettore che presentargli dinanzi i segni residui della lotta tra il bene ed il male. Fortini, di conseguenza, ricorre alla simbologia del serpente così come emerge nelle arti figurative, laddove il rettile biblico non rappresenta solo la negatività del male primordiale come tentazione e caduta, ma anche, per contrasto, il suo magnetismo e fascino fuori dal ventre della Madre Terra».
Nel trauma della storia si riflette il suo ospizio ingrato, il suo dramma pastorale, l’oscura argomentazione del suo flusso poetico che risulta monologo esule e anelito di rivolta che abita la sua intima ferita tra Tasso, Shakespeare, Gongora, Milton, Poussin.
Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
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Pietro Clemente, professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale, collabora con la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).
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