di Mario Sarica
Parlare dei musei demoetnoantropologici che, come isole culturali “altre”, quasi esotiche nella percezione delle nuove generazioni, emergono qua e là in Sicilia, significa, innanzitutto, interrogarsi e, dunque, riflettere sulle profonde muta- zioni che quel territorio ha subìto in relazione all’inesorabile sfaldamento del sistema culturale afferente ai cicli produttivi agro-pastorali e ai saperi e alle conoscenze, materiali e immateriali, dunque ai valori fondanti che hanno orientato per secoli l’esperienza esistenziale a livello individuale e collettivo.
La presa di coscienza della fatale deprivazione di un patrimonio di tradizione orale che innervava le ragioni dello stare al mondo − l’insieme di segni dell’”essere”, e non del “divenire”, per dirla con Buttitta, a proposito delle cosiddette società “calde” e “fredde” di Lévi-Strauss − intendo dire delle forme di vita rese tangibili dagli strumenti di lavoro, cerimoniale e rituali, replicate entro uno ristretto orizzonte geografico − eloquente rappresentazione/esemplificazione del mondo e riflesso della perduta armonia fra cielo e terra − ha sollecitato, nella stagione forsennata dell’industrializzazione e dell’azzeramento di ogni diversità regionale e locale del Novecento, la raccolta dei frammenti di una cultura antica alla deriva, e ciò per sottrarre all’oblìo e alla dimenticanza almeno le tracce tangibili.
Spesso si è trattato di un’affannosa corsa solitaria di pochi nostalgici, contro l’incalzare della modernità vorace e omologante, animata da un sentimento forte di memoria e da una ricerca delle radici perdute.
«Privi di memoria, trascinati dall’irresistibile processo di accelerazione della storia – scrive Antonino Cusumano – restiamo immersi nel flusso indistinto e indeterminato degli eventi, nel continuum di una bruciante ed estenuante attualità (…). Quando centro e periferia si mescolano e si confondono, quando locale e globale si toccano, si sovrappongono e si intrecciano in una dialettica dagli esiti spesso imprevedibili, lo scenario che si dispiega è quello di una delocalizzazione culturale sempre più accentuata, di una crescente e netta discrasia tra identità».
Entro questa più ampia e convulsa cornice del presente, a noi sembra più pertinente ragionare attorno ai musei etnografici, che vanno dunque ripensati dialetticamente, e non già come spazi isolati, senza parola. D’altra parte, bisogna superare di slancio la vischiosa adesione nostalgica alle testimonianze oggettuali della perduta età agro-pastorale, per affidarsi alla più matura analisi demoetnoantropologica che ci offre, sul duplice piano dell’approccio metodologico della ricerca sul campo e dei criteri di ordinamento dei reperti oggettuali della cultura folklorica, delle illuminanti chiavi di lettura e coerenti indirizzi in ordine all’ipotesi e alle soluzioni museografiche.
L’orientamento più aggiornato e prevalente della museografica contemporanea sul problematico tema è quello di tentare un’interpretazione dell’articolata e complessa realtà che si vuole rappresentare e interpretare, alla quale gli oggetti variamente connotati erano indissolubilmente legati, perché funzionali ai cicli produttivi o agli ambiti festivi e devozionali. Avvicinarsi alle forme della cultura di tradizione orale adottando questo rigoroso approccio metodologico significa, io credo, incamminarsi lungo un percorso molto complesso che richiede, ai diversi gradi di accesso alla materia, figure professionali e competenze specifiche.
«Nulla è più ovvio – annota acutamente Antonino Buttitta – dell’imitazione della realtà tale e quale. Al contrario, il problema di chi deve allestire un museo etnografico che proponga una lettura della realtà non è quello di ripetere le cose ma di farle parlare. Per fare questo l’etnomuseografo deve cogliere la relazione tra i diversi aspetti della realtà indagata, avviando un’analisi storica e strutturale, una scomposizione e ricomposizione in un linguaggio con propri codici e mezzi espressivi, che sono quelli del museo diversi da quelli della vita. Nel tempo vissuto il significato delle cose non risulta da improbabili ordinamenti e etichette ma dal loro uso (…). Ma c’è di più: la realtà culturale, e soprattutto quella di tradizione orale, è fatta di segni invisibili, allora c’è da chiedersi come è possibile mettere in un museo le credenze, gli usi, le idee, i sentimenti, le espressioni di devozione. Ed è proprio questo il vero e problematico interrogativo – aggiunge lo studioso – al quale il museografo sarà chiamato a dare una risposta convincente».
Il museo etnoantropologico è dunque uno strumento di analisi della realtà, meglio è un modo di rappresentare e documentare, qui e ora, una porzione di territorio da noi distante nello spazio o nel tempo o nella struttura sociale, cui annettiamo un senso particolare in forza della sua capacità testimoniale e/o della sua potenzialità di dialogo e scambio di conoscenze, nel rispetto delle diversità, che contrassegna la nostra modernità.
«La più matura museografia – osserva Sergio Todesco – ha ormai da tempo accertato che ogni scelta museografica è sempre un fatto di decontestualizzazione. Si tratta infatti di sottrarre al deperimento o alla dispersione oggetti di volta in volta giudicati rilevanti e pertinenti, di prelevarli cioè dai loro tempi-luoghi di giacenza, trasformazione e usura che diremo normali, o comunque isolarli rispetto a quei “tempi-luoghi”, trasferendoli entro una nuova realtà, nella quale inizieranno a vivere una nuova vita. È infatti evidente che gli oggetti esposti in un museo cambiano più o meno radicalmente funzione, abbandonando la propria funzione d’uso o di fruizione a vantaggio di una nuova funzione di documentazione e memoria».
I musei demoetnoantropologici, dunque, devono documentare non tanto singoli strumenti di lavoro o oggetti d’uso variamente connotati, ma piuttosto devono fornire una mappa complessiva della cultura peculiare, nelle sue diverse espressioni, a quel territorio, facendo emergere contestualmente i tratti perti- nenti della sua caratterizzazione, le relazioni ad essi sottese, e gli ambiti che li rendono comprensibili. Muovendosi su queste direttrici, il museo viene a configurarsi come uno spazio culturale dinamico, in grado di dialogare con tutte le altre culture del territorio, “vicine” e “lontane” rispondendo, con il ricorso ai mezzi informatici e multimediali, alle nuove forme di comunicazione e di diffusione delle conoscenze e dei saperi, secondo un modello a rete, in grado di interagire con altre fonti culturali, e flessibile nei contenuti proposti, che si offrono dal livello didattico a quello del turismo culturale.
Attivati questi necessari registri metodologici e concettuali orientativi, e confortati dalle illuminanti riflessioni sul tema fin qui annotate, sembrerebbe scontato, nel dibattito “plurale” e spesso auto- referenziale acceso da tempo attorno alla parola d’ordine “fare sistema o rete per un’offerta integrata di turismo culturale dei territori”, riconoscere la facoltà di “avere parola” ai musei Dea, perché possano finalmente esprimere la loro opinione su questioni cruciali, anche teoriche come il “patrimonio di comunità”. Ma, purtroppo, così non è nella stragrande maggioranza dei casi. I Musei Dea sembrano ancora invisibili ai più, soprattutto ai cosiddetti addetti ai lavori, compresi gli attori istituzionali impegnati a confezionare “pacchetti turistici”, magari attraenti e multicolori, ma privi di quel “soffio vitale” che solo la radice millenaria demo- etnoantropologica del territorio può insufflare.
Non certo figli di un Dio minore, le forme, i segni, i simboli, incarnate dai riti, usi, costumi, credenze del popolo siciliano, nelle loro molteplici varianti di vita vissuta, muti e silenti nelle collezioni museali, costituiscono imprescindibili elementi costitutivi della nostra memoria e identità. Un’armonia che tentiamo vanamente di recuperare, affidandoci a spot mediatici, che ora parlano di biodiversità, di eccellenze enogastronomiche, di sviluppo sostenibile calpestando, e spesso mortificando, perché non in grado di riconoscerne il valore fondante, le tante storie del territorio, che tutti dicono di voler rivitalizzare, ma che nella stragrande maggioranza ignorano nella loro essenza di vita, spesso mistificandone le origini e cimentandosi in improbabile rievocazioni.
La cultura popolare, meglio di tradizione orale, quella che ha affidato alla memoria individuale e collettiva i suoi saperi e il senso ultimo del vivere, quindi un’idea precisa dell’abitare il mondo, fortemente radicata al proprio orizzonte geografico, ovvero alle risorse naturali di quel territorio, attestando per millenni un esemplare equilibrio fra cultura e natura, è stata troppo in fretta negata dal boom economico italiano.
Una deflagrazione terribile, dagli effetti devastanti, che, a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, ha scandito l’inesorabile indu- strializzazione dell’Italia, isole comprese, deter- minando danni e guasti irreversibili. Uno degli esiti più nefasti è stato senza dubbio il fatale azzeramento dello straordinario palinsesto di tradizioni, a parte il vitale sistema festivo, uno degli ultimi “fortini” di resistenza della ragioni fondanti la cultura di tradizione. Il tutto perpetrato impunemente nel segno del dominio della tecnologia e del mercato per un’aberrante modernizzazione. Ed ora, forse tardivamente, corriamo ai ripari, diffondendo il verbo dello sviluppo sostenibile, delle energie rinnovabili, della riscoperta delle biodiversità e dell’economia “circolare” e del virtuoso riciclo. Tutti temi molto noti e sviluppati con coerenza proprio dalla cultura di tradizione orale per millenni, declinati al regolare e rassicurante fluire delle scadenze agricole stagionali.
Solo se liberati da quella spessa polvere prodotta dal “peccato originale” di considerarli come riserve di testimonianze più o meno agro-pastorali da mostrare sì, ma fino ad un certo punto, perché specchio impietoso di un passato da occultare, i musei Dea, forse, potranno essere visti con occhi nuovi, e allora, solo allora, potranno ascoltare e dialogare con i nuovi e spesso contraddittori bisogni identitari del presente, recuperando i “sensi perduti”.
Volgendo lo sguardo oltre le siepi, spesso soffocanti, degli orizzonti municipali, si fa sempre più largo un pensiero positivo sul destino dei piccoli musei Dea, considerati dal dibattito scientifico e culturale più avveduto, non più ingiustamente come remoti “enclave” di un passato inac- cessibile, che hanno poco da dire e da condividere con start up, innovazione e tecnologia, sviluppo sostenibile, impresa culturale, turismo rurale e agriturismo, e così avanti per slogan, ma, piuttosto, come poli di un sapere antico da mettere in rete, di cui nutrirsi, per meglio riconoscere e vivere il territorio, dunque le sue specificità e risorse, rileggendo così i segni della sua millenaria antropizzazione.
E invece, le tante realtà etnografiche siciliane sono sconosciute ai più, nonostante la ricorrente presenza sul web, emergendo spesso sofferenti e isolati, perché ostaggio delle stesse comunità, che non hanno a disposizione gli strumenti base per riconoscerli e rispettarli; tenuti a distanza e mal sopportati dalle amministrazioni pubbliche, sia di prossimità che intermedie, che nazionali, e perfino dalle istituzioni culturali chiamati a proteggerli e valorizzarle.
A dispetto della vulgata, io credo invece fermamente che i musei Dea siciliani indichino, dopo certamente una salutare e non più rinviabile rigenerazione museografica interattiva e accertati e certificati standard di qualità, il sentiero guida obbligato da seguire se, realmente e profondamente, vogliamo bene, rispettiamo, e vogliamo avere amorevole cura delle tante e stratificate espressioni culturali del nostro territorio, sistematicamente saccheggiate e piegate spesso a usi impropri, quali improbabili cortei storici o sedicenti fiere di prodotti tipici o altra paccottiglia simile.
Ascolto e dialogo, dunque, premessa necessaria alla conoscenza, e chiavi di comunicazione d’accesso alla compren- sione piena dei contenuti culturali di valore assoluto, di cui sono portatori i beni demoetnoantropologici “materiali” e “im- materiali” conservati nei tanti, tantissimi musei etnografici isolani. Tutti temi, peraltro, che sono emersi a tutto tondo, con una consapevolezza e maturità di sguardo, esperienze dal “basso”, analisi, chiave interpretative e indicazioni di strategie risolutive, in occasione della Assemblea nazionale della società italiana per la museografia e i beni demo- etnoantropologici e la XII conferenza permanente delle associazioni museali italiane, che hanno preso vita sulla scena del Museo internazionale delle marionette “A. Pasqualino”, grazie a Janne Vibaek e Rosario Perricone, rispettivamente, presidente onoraria e direttore scientifico, a Palermo il 20 e il 21 ottobre scorsi.
E in conclusione a me pare necessario che ai musei Dea, come “valore aggiunto”, vada riconosciuta e declinata anche la nozione di “Bellezza”, emanata dagli stessi beni demoetnoantrropologici. Si dice, ormai troppo spesso, sventolandola come un feticcio, che la bellezza salverà il mondo. Uno slogan fin troppo consolatorio, alibi di comodo per molti.
«Questa sentenza enigmatica − ammonisce molto opportunamente Salvatore Settis − tratta da Dostoevskij, ovvero che la bellezza salverà il mondo è diventata un luogo comune, una sorta d’invocazione banale e consolatoria, una fuga dai problemi del presente. Nei nostri paesaggi e nelle nostre città, la bellezza non può darci nessuna salvazione in automatico, assolvendoci da ogni responsabilità. Al contrario, la bellezza non salverà nulla e nessuno se noi non sapremo salvare la bellezza. E la bellezza del passato − anche quella etnografica aggiungo io − è una perpetua sfida al futuro, nel senso che non deve essere vissuta come ‘vacua forma estenuata’, ma entrare nella carne viva della vita civile».
E sul tema della “Bellezza”, da coniugare necessariamente ai cento e più paesaggi culturali isolani, giunge acuto anche il pensiero di papa Francesco, nella sua rivoluzionaria Laudato Sì, quando raccomanda agli architetti che
«non basta la ricerca della bellezza nel progetto, perché ha valore servire un altro tipo di bellezza: la qualità della vita delle persone, la loro armonia con l’ambiente, l’incontro e l’aiuto reciproco. (…) Non c’è bellezza senza consapevolezza verso il passato e verso le generazioni future. La bellezza di cui abbiamo bisogno non è evasione del presente, non c’è infatti bellezza senza storia, senza una forte responsabilità collettiva».
E accanto alla “Bellezza”, un’altra ineludibile e cruciale questione posta dai musei in genere, e in particolare da quelli etnografici, è il rapporto con la memoria e la storia culturale, nelle sue diverse accezioni di forme materiali ed imma- teriali, del territorio. E allora vale la pena richiamare le parole di Antonino Buttitta, quando dice che «la memoria è l’orizzonte di senso che sconfigge la morte e salva le parole e gli atti di ognuno di noi dal consumo definitivo ed eterno. La memoria è vita, è la vita». I Musei etnografici, dunque, non propongono un viaggio nostalgico nel tempo e nello spazio, all’interno di forme di cultura rubricate in un passato che non ritorna, alla ricerca di una memoria collettiva perduta, ma ci interrogano sulla necessità di un riscoperta consapevole di tale cultura.
«Riappropriazione che è possibile – scrive ancora il compianto studioso palermitano – se non si risolve nella mera raccolta e mitizzazione museografica e archivistica di forme materiali o orali di cultura, ma si dispone all’assunzione, senza compiacimenti estetizzanti e senza snobistico distacco, di tali fatti nel proprio orizzonte ideologico. Di riconoscerli insomma come momenti della nostra storia individuale e collettiva, dunque tratti distintivi della nostra identità.
Gli strumenti di cui si serve il pastore per il suo lavoro quotidiano, di memoria millenaria, il battito ritmico del telaio della donna, per riferirci solo a due immagini di questo mondo perduto, non sono l’altro da noi: sono il fondo segreto di noi stessi, spesso la nostra infanzia, in ogni caso il nostro passato culturale che giorno dopo giorno ci siamo imposti di rinnegare a noi stessi e agli altri, non per scrivere la nostra storia, ma la cronaca quotidiana del grigio percorso lungo cui abbiamo consumato la nostra vita ».
Dialoghi Mediterranei, n.28, novembre 2017
Riferimenti bibliografici
A. Buttitta, Preliminari alla museografia etnoantropologica, in J. Cuisenier-J. Vibaek, Museo e cultura, Sellerio Palermo 2002: 35-41
A. Buttitta, Orizzonti della memoria. Conversazioni con Antonino Cusumano, Di Lorenzo Alcamo 2015: 199-200
A. Cusumano, Senso del luogo e senso dell’appartenenza, in “Archivio Antropologico Mediterraneo”, anno V/VII, 2002-2004, n.5-7:47-56
S. Settis, Il mondo salverà la bellezza?, Ponte delle Grazie Firenze 2015
S. Todesco, Beni culturali e territorio. Esibire patrimoni, negoziare identità, in “Dialoghi Mediterranei”, n.24, marzo 2017.
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Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997).
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