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di Annamaria Clemente
È un sussurro la scritta sul muro: «Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi», Palermo desidera essere vista, mi cerca, vuole essere letta. Mi suggerisce di usare il cuore oltre gli occhi, come se l’organo sensoriale non bastasse, fosse mutilo, carente, limitato, incapace di raggiungere la sostanza delle cose.
Penso a Calvino, alle sue Città Invisibili, «L’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose» (Calvino 2022: 13) e come a Tamara, a Zoe, a Zirma, a Ipazia devo leggerne i segni. Non è sufficiente vedere, occorre uno sguardo obliquo, visioni in tralice, scrutare negli interstizi tra significato e significante, osservare i moti interiori per rivestire di senso, per trasformare l’invisibile in visibile e far affiorare una tra le possibili filigrane intessute nella sua topografia. È in questo modo che tento di narrare una Palermo invisibile.
Banchi assiepati, tendoni immensi, ceste ricolme e abbondanza, cornucopie di frutta, verdura, semenza, orgia di carne rossa e sanguinolenta, di pescato azzurro e squame madreperlacee, lo scirocco muove zaffate calde di putrido e spezie, e poi sguardi, volti, le sfumature cromatiche digradanti dal bianco al nero, e ancora voci, urla, ghirigori vocalici, gorgheggi modulati di un mondo melodico esotico ma poi non troppo lontano, è il mondo arabo, le mille e una notte, è il Suq: sono a Ballarò.
Sovrasta sulla piazza di grascia un edificio, nuda parete che severa contrasta con lo scenario parossistico del teatro riparato alla sua ombra se non fosse per una nicchia, in alto, che offre gentile asilo ad una donna seduta con un bimbo in grembo. La luce acceca lo sguardo quando raggiunge un punto al di sopra dell’edificio: è l’arcobaleno di zaffiri e smeraldi incastonati sulla cupola del Carmine Maggiore.
La cupola del Carmine Maggiore è per i mercatari e per gli abitanti dell’Albergheria presenza viva, antropomorfa, a cui rivolgere gli occhi per raccomandarsi alla Madonna. Astro fisso per Loro ma non per Noi, la cupola si diverte a giocare con la percezione di chi non è del luogo, come nota Alli Traina. Visibile da lontano si nasconde a chi vuole raggiungerla, come negli incantesimi delle fiabe orientali che svelano grotte cariche di tesori ma le celano alla vista nel momento stesso in cui si desidera possedere, un miraggio è la cupola incantata (Traina, 2015). Ma Lei non è dispettosa, gelosa protegge un segreto: è il convento e la chiesa del Carmine Maggiore, luogo abitato dagli ultimi crociati, da una Regina vestita d’argento rinchiusa in una cappella che concede ai suoi sudditi solo un’udienza all’anno. Progettata alla fine del XVII secolo da Don Angelo la Rosa è la più bella di Sicilia.
La meraviglia esplode nel riverbero del sole sullo smalto delle maioliche policrome, la superficie sezionata in quattro spicchi reca fiera, in ogni centro, il vessillo carmelitano. La cupola riproduce simbolicamente la volta celeste, è la porta del cielo, è asse del mondo capace di mimare la perfezione dell’universo, essa rappresenta l’unica via di accesso per gli uomini a Dio.
La osservo e forse è per questo che la cupola è assunta a nume tutelare, genius loci, per quel suo essere simbolo, significante architettonico che rinvia ad un significato più profondo, ad una dimensione che trascende l’esistenza individuale mentre ne pacifica i conflitti, i dissidi, gli affanni, le pene. Senza tempo resta lì con il suo valore immutato mentre le generazioni si susseguono. Quattro uomini barbuti, pantagruelici, ne sorreggono il peso, arduo cimento quello dei Telamoni ma a dispetto di ciò nessuna sofferenza altera il loro viso: è un cielo lieve quello che portano sulle spalle, come mi ricorda sempre sorridendo padre Pietro Leta, rettore del Carmine Maggiore.
Mi aggiro per i vicoli dell’Albergheria, la cerco da sempre, non riesco a trovarla. Mi disorienta questo intrico di vene periferiche, è il vucìare forse, questo pulsare di vita intensa che mi confonde. Riesco a trovarla ed è un paradosso: Piazzetta Sette Fate è nascosta dal complesso di Santa Chiara, il sacro e il profano. La piazza è piccola, vi troneggia una torre dell’acqua, sopravvivenza di una strabiliante ingegneria araba che, sfruttando il principio dei vasi comunicanti, riusciva a far pervenire l’acqua nelle case dei palermitani.
La memoria popolare vuole che qui vivessero sette bellissime fanciulle vestite di bianco, sono i Donni, i beddi Signura, le donne di fora, esseri animici capaci di mutare forma, dispensatrici di doni e sventure. Una volta l’anno, nel giorno dei morti, riunite nella torre decidono i destini degli abitanti dell’Albergheria (Guggino 2006: 72). Desiderose d’esser madri si intrufolano la notte nelle case e intrecciano i capelli dei bimbi addormentati, i trizzi i donna, come bacio materno, augurio di buona sorte. Lei si ferma, mi guarda negli occhi, le scatto una foto. Signora ho trovato più di quanto sperassi.
Continuo ad aggirarmi per le arterie di questo cuore così simile al mio, che è l’Albergheria, sono in via del Ponticello e sotto un buffo balcone pieno di oggetti riproducenti artiglieria medievale vi è un portone sormontato dal monogramma mariano. Sarà un oratorio, eppure qualcosa mi distrae: generalmente li riconosco dalla ruvida serietà esterna puntualmente contraddetta dall’opulenza interna, dai lussi, gli sfarzi, i capricci barocchi. Ricordo che durante una visita presso uno dei vari oratori disseminati per il territorio una guida spiegò che la differenza tra l’esterno e l’interno non era casuale: le confraternite e le congregazioni preferivano mantenere un profilo basso per gli ornamenti esterni al fine di non destare l’attenzione ed essere preda così di malintenzionati. Questo no è diverso.
Padrone di questo luogo sono altre figure femminili, non evanescenti ma in carne ed ossa e le loro mani, seppur di fata, non intrecciano capelli ma fili di cotone e seta. Sono all’Oratorio della Congregazione delle Dame del Giardinello al Ponticello e qui da secoli si incontrano in una segretissima congregazione declinata tutta al femminile le nobildonne siciliane dei più alti lignaggi: la Principessa di Butera, di Lanza, Alliata, di Cerami, sotto il titolo della Congregazione di Maria SS. dell’Aspettazione al Parto. Missione era quella di soccorrere e assistere spiritualmente e materialmente le partorienti in condizioni di indigenza, una tradizione che dalla fine del XVI secolo si tramanda ai giorni nostri. Il 18 Dicembre, ricorrenza della festa della Madonna del Parto, ma anche a Pasqua, vengono distribuiti alle neomamme i canestri contenenti i corredini per i neonati realizzati dalle consorelle e benedetti dal Vescovo durante le celebrazioni. L’oratorio è un incantevole portagioie dalle pareti auree e rosa ametista ed è semplice immaginare Principesse e Regine muoversi come ballerine di un carillon mentre pregano e ricamano sotto quel tetto affrescato da Antonio Grano (cfr. Scardeoni).
Ripenso al portale in pietra di billemi, ai toni plumbei della pietra somigliante al marmo, ai giochi del chiaroscuro, inganni di luce che ne aumentano i volumi, alla porta in legno intagliata con motivi geometrici, penso anche alla Madonna sotto il titolo dell’Aspettazione e del Parto e la fantasia concepisce un legame. La porta rappresenta un limen, una soglia, attraversarla equivale ad un cambiamento di status così come l’atto del partorire implica un passaggio. Maria è la porta. Chissà forse è per questo che il portale dell’oratorio è diverso.
Una sirena bicaudata nel mare di Sicilia. Guardo la saracinesca: è decontestualizzata, delocalizzata, perturbante e chiaramente apotropaica. Quella coda è di serpe, raschia il fondo delle fonti, delle fontane, non abita certo le profondità del Mediterraneo. Abbasso lo sguardo a ste balate ca un s’asciucanu mai: Vucciria, bocceria, boucherie, tout se tient! Il toponimo pur alterato dalla secolare storpiatura dialettale ne tradisce l’origine, è francese così come la creatura a due code tanto cara all’araldica: sei a casa Melusina.
Le balate palermitane hanno velleità artistiche, una propensione alla fantasmagoria. Lo penso sempre quando la notte calpesto il selciato di Piazza Marina, basta la fioca luce di un lampione e il suo riflettersi crea scie liquide, azzurrine, altre volte il riflesso si infrange sulla superficie sbeccata creando minuscoli scintillii come se a contemplarsi fosse il cielo stellato. Altre volte invece vedo lingue di fuoco, fiamme, sono gli autodafé, gli atti di fede, le urla eretiche, il volto di Diego La Matina immobile e altero squagliarsi in un ghigno. Fuggo dalla massa minacciosa dello Steri, Palazzo Chiaramonte, dalle sue scritte imploranti, suppliche, preghiere dall’inferno. Attraverso la Piazza ed è un’altra luce a catturarmi, un chiarore in carta da zucchero e avorio. Alzo gli occhi ed è l’incanto. Palazzo Fatta apre i suoi balconi nelle sere d’estate lasciando intravedere da sotto, ai poveri mortali, uno scorcio d’apoteosi rococò tra nuvole e angeli, affreschi che raffigurano le virtù della famiglia.
Divinità minori i nobili siciliani, è la vanità gattopardiana «[…] continueremo a crederci il sale della terra» (Tomasi di Lampedusa 2003:168). Mentre gli altri, l’amalgama di umanità popolana, si annida nei catoj o catodi. Stanzette a piano terra, umide, scure, asfittiche, senza finestre o dotate solo di una fenditura nella porta stessa a filtrare l’aria, ragione per cui veniva lasciata costantemente aperta. Nessun limite sanciva l’interno dall’esterno, in promiscuità la vita domestica aveva luogo nei vicoli tra fango ed animali, tra acque di scolo e gli effluvi dei resti di deiezione, nessuna intimità, nessuna pudicizia. Una continuità negli spazi che beffardamente sembrava rimarcare o meglio plasmare l’identità tra l’umano e il bestiale del popolino palermitano. Molti catoj sono stati distrutti dopo gli anni Settanta, altri continuano ad esistere nella città vecchia, storpie case della nuova umanità invisibile: gli immigrati.
«Scantu la ‘nsurdiu e scantu l’avi a sanari» (Maraini, 2001: 93). Rimbomba il suono nella testa come se quelle parole le avessi udite realmente. Vedo il signor Padre intento nella vestizione, il saio candido, il cappuccio a punta calato sul viso che lascia scoperti solo gli occhi, il rosario e i movimenti lenti, di mani che sgranano davanti ad un ragazzo cencioso «dagli occhi cisposi» (ivi: 13) che agguanta famelico dei dolci, gli unici che avrà mangiato in vita sua e che mangerà. Guardo la bimba ricoperta di trine seduta in un angolo che osserva, anche lei famelica, il padre pregare per qualcuno che non è lei, per un estraneo, le leggo la gelosia e la rabbia negli occhi, vorrei poter parlare per lei, dar voce a quei pensieri ma siamo mute io e lei, Annamaria e Marianna. Mi scuoto di dosso il libro della Maraini e sono all’Oratorio dei Bianchi. La Nobile, Primaria e Real Compagnia del SS. Crocifisso, detta dei bianchi, fondata nel 1541 aveva il pio ufficio di confortare gli ultimi istanti dei condannati a morte, di indurli alla confessione e al pentimento per salvarne le anime. Il complesso sito nell’omonima piazzetta dei Bianchi, alla Kalsa, quasi coevo alla fondazione della Compagnia, fu edificato sulle antiche vestigia della precedente chiesa di Santa Maria della Vittoria e nei secoli ha subìto vari ampliamenti della struttura originaria. L’aristocraticità dei natali dei confratelli è illustrata dalla raffinatezza dei decori del salone Fumagalli, sala deputata alle riunioni e agli esercizi spirituali delle buona morte, di un verde che non è solo speranza ma come da dottrina cattolica è rinnovamento della coscienza, della carità, di redenzione dai peccati, di rinascita.
Il piano terra conserva gli stucchi serpottiani della chiesa delle Stimmate, demolita alla fine dell’Ottocento per creare la piazza del Teatro Massimo. Osservo i resti musealizzati, la tenerezza e la giocosità eterna dei putti del Serpotta ricollocati a nuova vita, restituiti a nuovi sensi e con compiacimento mi accorgo che i Bianchi in qualche modo continuano a salvare.
Palermo città dei segni, stratificata e incoerente, città di rimandi e ridondanze. Sono troppe le domande, troppe le risposte, troppi i fili invisibili da seguire nel dedalo di vie, vicoli, viuzze, cortili e catoi. Io continuo a pensare a Calvino, a Marco Polo, al Kan:
«È delle città come dei sogni, tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra. – Io non ho desideri né paure, – dichiarò il Kan, – e i miei sogni sono composti o dalla mente o dal caso. – Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma nell’una né l’altra bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settanta meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda – o la domanda che ti pone obbligandoti a rispondere, come Tebe per bocca della Sfinge» (Calvino 2022: 42)
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
Riferimenti bibliografici
Calvino I. (2022), Le città invisibili, Einaudi, Torino
Guggino E. (2006), Fate, sibille e altre strane donne, Sellerio, Palermo
Maraini D. (2001), La lunga vita di Marianna Ucrìa, Edizioni Rizzoli, Milano
Scardeoni Palumbo N., Storia della Congregazione di Maria SS: dell’aspettazione al Parto sotto il titolo delle Signore Dame del Giardinello al Ponticello, consultabile al sito: https://ita.calameo.com/read/000118625f01048a6b683
Tomasi di Lampedusa G. (2003), Il Gattopardo, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano.
Traina A. (2015), 101 storie su Palermo che non ti hanno mai raccontato, Edizioni Newton Compton Editori, Roma
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Annamaria Clemente, laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo, è interessata ai legami e alle reciproche influenze tra la disciplina antropologica e il campo letterario. Si occupa in particolare di seguire autori, tendenze e stili della letteratura delle migrazioni. Su questo tema ha scritto saggi e numerose recensioni. Ama la fotografia cui si dedica da dilettante.
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