di Lorenzo Kamel
Imperialismo, antisemitismo, ragioni umanitarie, perdurante influenza delle Sacre Scritture: ognuno di questi fattori giocò un ruolo decisivo nel crescente impegno profuso dalle autorità britanniche nei primi anni del Novecento.
Tuttavia, ciascuno di questi aspetti non contemplava, o lo faceva in maniera molto marginale, la popolazione palestinese locale: la schiacciante maggioranza (circa il 90 percento) del totale presente al tempo in Palestina. Analizzando le fonti primarie dell’epoca è facile comprenderne le ragioni. Non solo veniva talvolta sostenuto che i palestinesi (termine usato già nel X secolo, con accezione identitaria, dal geografo gerosolimitano Al-Muqaddasi) [1] – definiti «corpi di uomini [bodies of men]» dal colonnello George Gawler (1795–1869) – non mostrassero alcuno stimolo patriottico (un concetto al tempo irrilevante nella regione), ma era altresì diffusa la percezione secondo cui essi «detengono i loro possedimenti come fossero stranieri [hold their possessions as foreigners], o come semplici locatari a tempo indeterminato [mere tenants-at-will]» [2].
Il disinteresse per una qualsiasi forma di patriottismo da parte della popolazione locale era un’onta ancora più marcata agli occhi di quanti notavano che esso, il patriottismo nei riguardi della Palestina, era al contrario più vivo che mai nella lontana Inghilterra:
«Questa Terra Santa, sebbene non sia più oggetto di sanguinarie ambizioni, non ha perso nulla del profondo interesse attraverso cui un tempo ispirava il più veemente crociato. Le prime impressioni dell’infanzia sono legate a quello scenario; e le labbra dei bambini nelle prospere case dell’Inghilterra pronunciano con riverenza i nomi della desolata Gerusalemme e della Galilea. Sperimentiamo ancora oggi una sorta di patriottismo nei riguardi della Palestina [We still experience a sort of patriotism for Palestine], e sentiamo che le scene vissute in questi luoghi siano interpretate a beneficio dell’intera umanità. Per quanto stretti siano i suoi confini, ne possediamo tutti una parte: ciò che una chiesa è per una città, la Palestina lo è per il mondo» [3].
Anche l’arcivescovo di York era stato chiaro nel corso della riunione inaugurale del PEF (1865): «[La Palestina] è la terra verso la quale possiamo guardare con lo stesso genuino patriottismo che riserviamo alla nostra cara vecchia Inghilterra [as true a patriotism as we do to this dear old England]» [4]. Ne consegue che gli arabo-palestinesi fossero generalmente dipinti come stranieri sulla loro stessa terra; un modo di filtrare la realtà peraltro diffuso in tutto il mondo attraverso celebri libri – non di rado letti fuori contesto e dunque male interpretati – come il The Innocents Abroad (1869) di Mark Twain (1835-1910) [5] .
Anche in numerosi altri contesti storici e geografici gli ‘altri’ – “gialli”, “neri” o “mulatti” che fossero – occuparono ruoli molto marginali nella produzione bibliografica della schiacciante maggioranza dei viaggiatori e degli uomini di lettere del vecchio continente [6]. Allo stesso tempo in molti altri scenari del mondo le popolazioni autoctone furono ‘romanticizzate’, descritte come “amorali”, o dipinte come “impermeabili al progresso”. Tuttavia, il valore simbolico della Terra Santa aggiunse un risvolto religioso unico nel suo genere. È solo in questo quadro che è possibile comprendere il motivo per il quale la presunta esigua presenza dei palestinesi – che non era tale se analizzata in un’ottica regionale comparata [7] – rappresentasse per alcuni un’ulteriore prova di un preciso disegno divino: «Il volere dell’Onnipotente», scrisse Lord Lindsay (1812-80) nell’influente libro Letters on Egypt, «prevede che i moderni occupanti [della Palestina] non debbano mai essere tanto numerosi da invalidare la profezia secondo cui la terra è in grado di godere dei suoi Shabbat fintanto che i suoi legittimi eredi rimangono sul suolo dei loro nemici [...] la terra ancora gode dei suoi Shabbat, e non aspetta altro che il ritorno dei suoi figli esiliati» [8].
Una conseguenza di ciò era che, in linea con quanto evidenziato in precedenza, la terra sulla quale queste persone vivevano non dovesse essere considerata come realmente abitata da legittimi residenti: «La terra sulla quale abitate», scrisse nel 1854 il cartografo C.M.W. van de Welde (1818-98) riferendosi agli arabi di Palestina, «non è vostra. I vostri padri se ne impadronirono come ladri e saccheggiatori [...] ma arriverà sicuramente il tempo in cui [Dio] vi verrà a cercare per chiedere conto delle iniquità dei vostri padri, e vi scaccerà dalla Sua presenza, affinché la terra possa essere restituita a coloro ai quali Egli l’aveva data» [9].
Il «basso livello di moralità riscontrabile tra i musulmani» [10], per usare un’espressione dell’Arcivescovo di Canterbury Archibald Tait, sommata a ciò che James Parkes (1896–1981) definì «l’intolleranza dell’Islam e la ferocia degli abitanti locali [savagery of the local inhabitants]» [11], erano i maggiori indiziati per quella perdurante «fatalistica indolenza» che Claude Reignier Conder (1848-1910), una delle figure chiave della Palestine Exploration Fund, indicò come la base di gran parte dei problemi: «L’energia, l’operosità, il tatto, così notevoli nel carattere ebraico, rappresentano qualità inestimabili in un Paese i cui abitanti sono sprofondati in una fatalistica indolenza; e la Palestina è ancora oggi un Paese così a buon mercato che potrebbe facilmente attrarre l’attenzione della classe media dei suoi legittimi proprietari [its rightful owners]» [12].
Da tali considerazioni ne deriva che gli arabo-palestinesi, come chiarì Laurence Oliphant (1829-88), membro del parlamento di Sua Maestà nonché occasionale collaboratore del PEF [13], potessero vantare «un credito di simpatia molto limitato nei nostri riguardi [very little claim to our sympathy]». Una constatazione che spinse lo stesso Oliphant a proporre di segregare tali individui in riserve apposite, in scia con una soluzione che, con le tribù indiane del Nord America, aveva già provato di essere particolarmente efficace:
«Gli arabi non hanno molti motivi per reclamare la nostra simpatia. Hanno reso deserto questo paese, mandato in rovina i suoi villaggi, e saccheggiato i suoi abitanti, fino al punto di ridurre il tutto all’attuale stato; [...] si potrebbe adottare il medesimo sistema che abbiamo utilizzato con successo in Canada con le nostre tribù indiane del Nord America, le quali sono confinate nelle loro ‘riserve’, e vivono pacificamente su esse fra la popolazione agricola stanziata sul posto» [14].
Nella citazione proposta si sarà notato l’accenno ai “deserti arabi” quale luogo di provenienza degli arabi di Palestina. Il tentativo di delegittimare la presenza di questi ultimi ha seguito infatti due strade distinte ma correlate. Da una parte si è cercato di sostenere che tali persone provenissero da regioni esterne a ciò che i geografi arabi medievali chiamavano jund Filastīn [15]. Dall’altra, come nel caso di Oliphant e di diverse altre figure provenienti dalle due sponde dell’Atlantico, si è tentato di argomentare che sotto la denominazione di “arabi” potessero essere annoverati esclusivamente i beduini [16], anch’essi peraltro percepiti come indolenti e guerrafondai [17], nonché «una parte delle classi urbane e dei grandi possidenti terrieri». Per gli altri, i fellaḥin (contadini), «l’anima della nazione [the soul of the nation]» [18], tale definizione veniva considerata «inappropriata»: [19] «A occidente del Giordano [ovvero in Palestina]», notava ancora nell’agosto del 1918 William Ormsby-Gore (1885-1964), «gli abitanti non erano arabi, bensì solo di lingua araba [were not Arabs, but only Arabic-speaking]» [20]. Le motivazioni alla base di posizioni tanto nette è possibile coglierle da un’influente analisi scritta nel 1905 da Ben Borochov (1881-1917), uno dei padri del sionismo socialista:
«I contadini nella Terra d’Israele sono diretti discendenti di ciò che è rimasto della comunità agricola ebraica e cananita, con l’aggiunta di una leggerissima miscela di sangue arabo; è infatti ben noto che gli arabi, orgogliosi conquistatori, si mescolavano molto poco con la massa dei popoli da essi assoggettati […]. La differenza etnica tra gli ebrei della diaspora e i fellahin nella Terra d’Israele non è dunque maggiore di quella che distingue gli ebrei ashkenaziti da quelli sefarditi. La popolazione locale non è né araba né turca […]» [21].
La tesi di Borochov era sottesa dalla illusoria convinzione che le affinità etniche tra la popolazione ebraica e la maggioranza locale, sommate all’arretratezza culturale di quest’ultima, avrebbero permesso una relativamente facile assimilazione della stessa. I fellaḥin rappresentavano in questo senso un necessario ponte di collegamento tra l’antica e la nuova presenza ebraica in Terra Santa. Lo storico Ya’acov Shavit ha chiarito la questione nei seguenti termini:
«Tanto le utopiche, romantiche idee secondo cui gli arabi di Palestina rappresentano i discendenti dell’antica popolazione ebraica che non andò mai in esilio ma venne costretta a convertirsi all’Islam, quanto la tesi secondo cui essi avevano conservato usanze arcaiche dai tempi del Primo e del Secondo Tempio, furono notevolmente ampliate nei diari di viaggio e in seri studi di ricerca prodotti nel 19° secolo. Tali idee furono fatte proprie dagli intellettuali sionisti che si trovarono a dover affrontare il problema di creare una nuova società di immigrati in un paese che aveva [già] una popolazione nativa» [22].
L’approccio di Borochov, problematico nella misura in cui presupponeva che il vero punto di partenza della storia della regione andasse rintracciato negli antichi israeliti [23] e che tutto il vissuto antecedente fosse stato da essi ‘assorbito’, faceva riferimento a delle conversioni forzate di massa ed era sotteso dall’idea che i “conquistatori arabi” del VII secolo non avessero alcuna affinità con la popolazione locale. Tali posizioni vennero condivise da personaggi di forte richiamo. È il caso di Yisrael Belkind (1861-1929), fondatore del movimento dei Bilu’im e come tale un pioniere della haaliyah harishona (la Prima aliyah). Il movimento dei Bilu, così chiamati prendendo ispirazione da un verso del Libro di Isaiah, era composto da un gruppo di ebrei che miravano a creare insediamenti in “Erets-Yiśra’el”. Il loro, non a caso, venne definito “sionismo pratico”, in quanto mirante a realizzare sul campo le proprie aspirazioni. Belkind si adoperò, a più riprese, per argomentare lo stesso concetto espresso da Borochov [24]. Tuttavia aggiunse anche che la tesi della dispersione del popolo ebraico dopo la distruzione del Secondo Tempio da parte dell’imperatore Tito (39-81) fosse un errore storiografico che andava corretto [25] .
Ben più di Borochov e Belkind, furono David Ben-Gurion (1886-1973) e Yitzhak Ben-Zvi (1884-1963) [26], rispettivamente futuro primo ministro israeliano e secondo presidente dello Stato d’Israele, a dare una risonanza senza precedenti a questa suggestiva idea partorita in Europa [27]. Nel loro libro del 1918 intitolato Erets-Yiśra’el ba-‘avar u-ba-hove, scritto in ebraico e tradotto dagli stessi autori in Yiddish, si impegnarono a dimostrare l’origine ebraica dei fellaḥin [28] e a screditare la pretesa che la popolazione presente nella regione negli ultimi dodici secoli avesse apportato un qualsiasi contributo [29], spingendosi a minare anche le basi stesse della tesi dell’espulsione in massa del popolo ebraico a seguito della distruzione del Secondo Tempio:
«Affermare che a seguito della conquista di Gerusalemme per mano di Tito e del fallimento della rivolta di Bar Kokba gli ebrei smisero di lavorare il suolo della Palestina vuol dire dimostrare una completa ignoranza della storia e della letteratura ebraica del tempo [...]. Nonostante l’oppressione e le sofferenze, la popolazione delle campagne rimase la stessa» [30].
È evidente la dissonanza tra quest’ultima citazione e il messaggio contenuto nel testo della Dichiarazione d’indipendenza che il 14 maggio 1948 lo stesso Ben-Gurion lesse sotto un’immagine di Theodor Herzl (1860-1904) al Tel Aviv Museum: «Dopo essere stati costretti all’esilio dalla loro terra», recitava la Dichiarazione, «le persone hanno mantenuto la loro fede durante la diaspora».
La ragione dell’esistenza di due tesi in così forte contrasto su un tema nevralgico come la galut (la “diaspora”) va rintracciata negli accadimenti verificatisi nei tre decenni compresi tra la pubblicazione del libro di Ben-Gurion/Ben Zvi e la nascita dello Stato d’Israele. La progressiva ascesa del nazionalismo palestinese, il massacro di Hebron del 1929 e la Grande rivolta araba del 1936 avevano infatti mostrato una volta per tutte la ferma opposizione della maggioranza autoctona a qualsiasi processo di assimilazione. Una tale presa di coscienza formerà ben presto il retroterra per la costruzione di un nuovo mito, quello del midbar shemama [31] (“deserto desolato”), ovvero lo sforzo di inculcare un’idea della Palestina nei termini di un luogo abbandonato a sé stesso [32] e popolato da una sparuta comunità araba di recente immigrazione. Una percezione che ebbe un impatto non indifferente sul successivo sviluppo della regione:
«Da quel momento in poi [i.e. da quando venne abbandonata la tesi dell’origine ebraica dei fellaḥin] i discendenti dei contadini giudei furono rimossi dalla coscienza nazionale ebraica; i fellaḥin palestinesi del presente divennero presto, agli occhi degli agenti autorizzati della memoria, immigrati arabi giunti in massa nel diciannovesimo secolo in una terra quasi vuota, per continuare la migrazione nel ventesimo a seguito dello sviluppo dell’economia agraria sionista che, secondo questo mito, aveva “attratto” molte migliaia di lavoratori non ebrei» [33].
Chi sono i palestinesi?
Sette parole servirono al poeta palestinese Mahmoud Darwish (1941-2008) per chiarire indirettamente gran parte degli ‘equivoci’ finora menzionati: «Chi sono?», domandò nella sua Une rime pour les Mu‘allaqāt a proposito delle popolazioni autoctone soggette all’autorità ottomana, «È un problema degli altri» [34] .
Per molti aspetti era in effetti un problema solo degli ‘altri’, degli ‘esterni’. Per gli ‘interni’ a fare la differenza, oltre alla religione, erano infatti la provenienza da un dato villaggio (che sovente rappresentava una sorta di “protonazione nella protonazione”) [35], l’appartenenza a uno specifico ḥamūla (clan familiare), l’uso di un particolare dialetto, un modo di vestire, un prodotto della terra, un festival religioso [36] una danza (dabkeh) [37]: tutti fattori peraltro ben presenti anche ai giorni nostri. In altre parole non era l’identità politica la discriminante principale [38], bensì l’appartenenza religiosa, nonché quella culturale e sociale.
Sebbene l’identità palestinese abbia avuto negli anni successivi all’occupazione britannica della Palestina (1917) un periodo formativo cruciale, una parte rilevante dei suoi elementi culturali e sociali di base, i «rudimenti della nazione» nella concezione di Anthony Smith [39], sono riconducibili a un passato molto più radicato che pochi sentivano l’esigenza di interrogare: «L’intero gioco legato alla definizione dell’identità», notò Meron Benvenisti, «riflette la mancanza di connessione da parte dell’immigrato. I nativi non mettono in dubbio la propria identità [Natives don’t question their identity]» [40].
Ma quanti erano e chi erano i palestinesi? Prima di rispondere alla domanda è opportuno menzionare che da più parti è stato fatto presente che il termine Palestina non fosse esclusivo appannaggio degli arabi e che dunque una distinzione puntuale dovrebbe fare riferimento a due distinte realtà: gli arabo-palestinesi e gli ebrei-palestinesi. In questo senso è stato sottolineato che dal 1932 al ‘50 il quotidiano ebraico in lingua inglese Jerusalem Post prese il nome di The Palestine Post. La puntualizzazione è pertinente, e infatti gli ebrei rimasti in loco nel corso dei secoli possono essere definiti, qualora si senta l’esigenza di farlo, ebrei-palestinesi. La stessa Carta dell’Organizzazione di Liberazione della Palestina (OLP), un documento di certo poco incline al compromesso, riconobbe all’articolo 6 che «gli ebrei che abitualmente risiedevano in Palestina fino all’inizio dell’invasione sionista sono considerati palestinesi». Ciò significa che prima dell’ascesa del nazionalismo e l’affermazione della «logica dell’avodah ivrit» (“lavoro ebraico”) non esisteva alcuna impellenza di definire in modo netto la propria appartenenza etnica [41]. Inoltre, anche volendo utilizzare un approccio etnocentrico, tale aspetto non cambia in modo sostanziale, quantomeno da una prospettiva storicamente a noi più familiare, i termini della questione. Riferirsi a una schiacciante “maggioranza arabo-palestinese”, o a una schiacciante “maggioranza palestinese”, rispetto a una possibile minoranza “ebraico-palestinese” o ebraica, è poco più di una disquisizione semantica.
Un primo censimento ufficiale venne effettuato in Palestina solo nel 1922, dal governo mandatario britannico. In quell’occasione venne rilevata una popolazione totale di 757.182 individui, di cui 590.390 musulmani, 83.694 ebrei, 73,024 cristiani. Le precedenti rilevazioni presentavano evidenti difficoltà. Le autorità ottomane erano solite contare, per fini legati alle tasse e al servizio militare, quasi esclusivamente i maschi adulti o i capifamiglia. Le diverse confessioni cristiane, come anche il millet ebraico e i consolati via via creati, mantenevano i propri rispettivi registri.
Le stime più attendibili riguardanti il secolo precedente rilevano che nel 1800 la popolazione totale della Palestina contasse 250 mila individui, per poi raggiungere quota 500 mila nel 1890 [42]. McCarthy, il decano dei demografi attivi su questo tema, ha indicato in 411 mila il numero dei residenti in Palestina nel 1860 [43], la stragrande maggioranza dei quali (circa il 90 percento) arabi.
In un’ottica eurocentrica tali cifre potrebbero apparire irrisorie. Per rendere l’idea basti pensare che quando Parigi nel 1846 toccò quota un milione di abitanti, Gerusalemme ed Haifa ne contavano rispettivamente poco più di 18 mila e poco meno di 3 mila. Sarebbe tuttavia ancora una volta scorretto scegliere i Paesi del vecchio continente e non quelli del Mediterraneo Orientale quali termini per una comparazione attendibile. In questo senso è più sensato confrontare l’Egitto di inizio Ottocento con la Palestina dello stesso periodo. Il primo si stima avesse ai tempi una popolazione di circa tre milioni di abitanti: ogni ne conta 90 milioni [44]. La seconda, abitata ai tempi da 250/300 mila persone (quindi 225/270 mila arabi), registra oggi poco più di sei milioni di individui [45]. In rapporto si tratta quindi di dati che mostrano un sostanziale accordo tra la Palestina e quello che storicamente è il più importante nonché il più popoloso tra i Paesi arabi.
Pur essendo presenti importanti minoranze, in particolare cristiane (la minoranza piú numerosa), sciite e druse, la maggioranza (l’85%) di quei circa 300 mila arabi che vivevano in Palestina a metà del XIX secolo erano musulmani sunniti. Utilizzavano come moneta la lira ottomana (prima del 1844, quando la Porta cominciò a stampare la lira ottomana, era utilizzata un’altra moneta, il kuruş), parlavano l’arabo e vivevano in una società molto gerarchizzata. Vitale era l’appartenenza ai clan. Oltre i due terzi di essi erano agricoltori “hypercivilisé”, per usare una definizione di Weulersse (1905-1946) [46], dediti alla coltivazione dei cereali, della frutta e della verdura, nonché alla produzione della lana e del cotone. Era presente anche una discreta classe di professionisti e intellettuali, benché la grande maggioranza della popolazione fosse composta da analfabeti [47]. Il settore industriale registrava una fase embrionale, mentre il comparto manifatturiero – connesso soprattutto alla raccolta delle olive e alla relativa produzione di olii e saponi – rappresentava una risorsa, spesso esportata, degna di particolare nota. Non è esagerato sostenere che proprio le olive rappresentassero la ‘spina dorsale’ della vita economica e sociale locale. Non a caso i matrimoni e le celebrazioni erano sovente organizzati nel periodo dedicato alla loro raccolta, quando venivano intonate speciali canzoni composte per l’occasione [48].
Un potere tangibile, sotto diversi aspetti accresciuto a seguito delle Tanzimât, era concentrato nelle mani dei grandi possidenti rappresentati da influenti ḥamāyyil (pl. di ḥamūla) come gli Ḥusaynī, i Khālidī, i Nashāshībī, i Dajāni, i Nusseībeh, i Jārāllah, i Touqān, e i Nābulsi. La Porta, che in Palestina poteva contare su un numero assai esiguo di ufficiali ottomani, doveva affidarsi agli a‘yān (notabili) locali per mantenere un sia pur relativo controllo della regione [49]. In questo senso essi rivestirono a lungo il ruolo di intermediari tra il governo centrale e la gente del posto.
Nella seconda metà dell’Ottocento, con l’incedere delle riforme e delle nuove scuole pubbliche create da Istanbul, il potere dei notabili rurali si ridimensionò in favore di quelli basati nei centri urbani (Gerusalemme in primis), i quali trovarono nelle Tanzimât le condizioni ideali per aumentare la concentrazione di terra sotto il loro controllo. Tali famiglie, beneficiarie di un prestigio ereditato di generazione in generazione, un prestigio radicato dunque nei centri urbani e da lì irradiato sull’entroterra rurale [50], erano poste al vertice di un organigramma che annoverava all’estremo opposto i contadini (fellaḥin) e i beduini.
A dispetto del loro potere, le famiglie dei notabili rappresentavano una piccola percentuale della popolazione. La maggior parte della gente di Palestina viveva sparsa tra circa settecento piccoli villaggi, i quali fino all’epoca delle seconde Tanzimât erano economicamente indipendenti in relazione alle città. Tali individui, i quali come notò Elizabeth Finn mostravano di essere legati alla loro terra «with the tenacity of aboriginal inhabitants» [51], erano dislocati per lo più nelle zone collinari e montagnose (jebel) che si snodano da Nord a Sud tra la Galilea e Jabal al-Khalil (Hebron). Ciò era dovuto a motivi legati alla sicurezza e alla salute: le zone pianeggianti come l’area costiera (sahel) erano infatti più esposte alle periodiche razzie dei beduini, nonchè alla proliferazione di malattie come la malaria.
Il resto della popolazione risiedeva in città a popolazione mista come Gerusalemme, Haifa, Tiberiade, Jaffa e Safad. Oppure in città esclusivamente arabe come Nazareth, Shefar’am, Nablus (nel XVIII e XIX sec. era stata la città piú prospera della regione) [52], Jaffa, Beisan, Lydda, Ramla, Ramallah, Beersheba, Beit Jala, Jenin e Khan Yunis, Gaza, Betlemme, San Giovanni d’Acri, Tulkarem [53]. I beduini, benché contraddistinti da un nomadismo più o meno spiccato [54], peraltro sempre più raro a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, erano ben radicati in quello che da millenni erano noto come il deserto del Naqab (Negev) e rappresentavano meno di un ventesimo della popolazione totale [55].
La necessità di ‘interrogare’ l’identità è riconducibile a un fenomeno «largamente occidentale» [56] che si è sviluppato a partire dal XVIII secolo. L’approccio costruttivista insegna che le identità sono basate su relazioni sociali che si modificano nel tempo e nei diversi contesti. In quanto relazioni, le identità non sono dunque immutabili: «Gli esseri umani producono e riproducono [le identità] piuttosto che esserci nati» [57].
Le tradizioni e le consuetudini che sono alla base della moderna identità arabo-palestinese – un’identità che, nel suo processo di definizione, è stata in parte “immaginata” e “costruita” come ogni altra identità della storia [58] – affondano le proprie radici in un passato remoto molto antecedente al 637 d.C. Quest’ultima data viene spesso percepita come il momento storico della grande invasione/occupazione araba della Palestina, la quale a partire da questo periodo sarebbe stata popolata da abitanti prima di allora estranei alla zona [59]. La realtà è molto piú articolata e viene sovente ‘silenziata’ usando metri di giudizio selettivi. L’ipotesi che esista un qualche filo conduttore tra gli iracheni e gli antichi babilonesi o tra i libanesi e i fenici (nome con cui i greci identificavano i cananei) è accettata il più delle volte senza ostruzionismi, o comunque discussa senza livore. Lo stesso non accade quando si prova a utilizzare il medesimo approccio per quanto concerne gli arabo-palestinesi.
Gli arabo-palestinesi sono il risultato finale della combinazione di genti con origini etniche varie, persone influenzate e plasmate dai popoli che nel corso dei secoli si sono succeduti nelle vesti di conquistatori. Il medico palestinese Tawfīq Kanʻān (1882–1964), prolifico etnografo e primo pastore arabo della Chiesa luterana locale, fu l’antesignano nonché il più autorevole studioso delle tradizioni e dei riti della popolazione autoctona. La sua ampia produzione scientifica, scritta in gran parte in inglese e tedesco, è ancora oggi una fonte inesauribile di informazioni. A seguito di decennali studi condotti casa per casa, villaggio per villaggio, già a cavallo degli anni Venti documentò le tradizioni folkloristiche, i proverbi utilizzati, le canzoni, le norm7e sociali, le superstizioni, gli amuleti e i manufatti prodotti dai contadini palestinesi. Una tale mole di dati e materiali gli fornirono gli strumenti per sostenere la tesi secondo cui essi rappresentassero l’eredità vivente delle culture succedutesi nel corso dei secoli in Palestina: «Questi stessi fellaḥin della Palestina», argomentò Kanʻān, «sono eredi e in qualche misura discendenti dei discendenti pagani dei tempi prebiblici, ai quali si deve la costruzione dei primi luoghi scari» [60]. In sostanza molte tradizioni popolari degli arabi di Palestina non erano altro che manifestazioni residuali della vita quotidiana descritta nelle stesse narrazioni bibliche. Nelle parole David Gilmour: «Ogni invasore fino al Novecento ha, in una certa misura, lasciato la propria impronta sulla popolazione. […] I Cananei e i Filistei del X secolo a.C. non furono mai deportati. Essi restarono in Palestina» [61].
Quando si arriva alla conquista araba del VII d.C. ci si trova al cospetto di quella che può essere indicata come la piú pervasiva – ma anche la meno forzata – tra le invasioni accennate. Attraverso essa gli arabi introdussero la religione, il tipo di governo e la lingua che la gran parte degli autoctoni fecero in breve tempo propri. Quanto finora sostenuto non significa che tale conquista fu accolta dagli autoctoni «a braccia aperte» [62] e ancor meno che i palestinesi dei giorni nostri rappresentino i cananei dei tempi antichi. Bensì che la popolazione locale venne arabizzata in modo naturale, in un processo all’insegna della continuità, mantenendo dunque ciò che in epoca moderna sarebbe stata definita una propria base culturale. Ciò non solo in considerazione dell’esiguo numero dei nuovi invasori, ma anche in virtù del fatto che l’arabo introdotto aveva un suono in tutto e per tutto affine agli idiomi parlati nella regione [63]. Maxime Rodinson (1915-2004), a lungo impegnato a mettere a nudo gli approcci semplificatori volti a negare o a minimizzare una qualsiasi continuità nella storia della regione, affrontò l’argomento con le seguenti parole:
«Un piccolo contingente di arabi provenienti dall’Arabia conquistò il paese [la Palestina] nel settimo secolo [...] la popolazione locale venne presto arabizzata sotto la dominazione araba, proprio come prima era stata ebraicizzata, aramaicizzata, in una certa misura anche ellenizzata. Divenne araba in un modo non comparabile a quando venne latinizzata o ottomanizzata. Gli invasi si fusero con gli invasori. È ridicolo chiamare gli inglesi dei nostri giorni invasori e occupanti, sulla base del fatto che l’Inghilterra fu conquistata ai danni dei popoli celtici per mano degli Angli, dei Sassoni e degli Juti nel 5° e 6° secolo. La popolazione locale venne “anglicizzata” e a nessuno verrebbe in mente di sostenere che i popoli che hanno più o meno preservato le lingue celtiche – gli irlandesi, i gallesi o i bretoni – debbano essere considerati come i veri nativi del Kent o del Suffolk, e che possano vantare maggiori titoli su questi territori rispetto agli inglesi che vivono in quelle contee» [64].
Visti dagli ‘altri’ ai quali faceva riferimento Darwish, il fatto che la maggioranza presente in Palestina non avesse come priorità quella di autodefinirsi come palestinese o araba era associato, da una prospettiva eurocentrica, a un suo scarso attaccamento alla terra. Ciò che nell’Europa moderna veniva sovente indicata come nazione (dal latino natus, nato entro un determinato territorio) presupponeva infatti un sentimento di appartenenza a una comunità che si differenziasse in modo più o meno netto, come risultato di un “contatto reciproco” tra gruppi distinti, a livello linguistico, culturale e territoriale. Presupponeva in altre parole un confine tra il sé e l’altro, tra ‘noi’ e ‘loro’: «Si conosce per mezzo dell’altro», scrisse già nel XIII secolo Tommaso d’Aquino (1225–74), «così per mezzo della luce si conoscono le tenebre» [65].
Era questo un confine molto più sfumato in Palestina. Mancava infatti un ‘diverso’, un ‘altro’, chiaramente identificabile. In molti documenti del Settecento e dell’Ottocento troviamo una distinzione tra ibn ‘Arab (figlio di un arabo) e ibn Turk (figlio di un turco). Ciò significa che la popolazione locale considerava i turchi che non parlavano arabo come dei forestieri. Allo stesso tempo, come accennato in precedenza, la provenienza da un dato villaggio, l’ḥamūla di origine e gli usi locali erano tutti fattori che marcavano una certa peculiarità tra le varie protonazioni presenti nella regione.
Eppure fino alle ultime decadi dell’Ottocento mancava quell’avvertimento di un pericolo esterno, di un problema, che quasi sempre è alla base dell’esigenza di un popolo, piú o meno consapevole delle sue peculiarità, di autodefinirsi in modo netto: «Una nazione», stando a un antico e provocatorio detto citato da Karl Deutsch (1912-92), «è un gruppo di persone unite da una comune errata percezione del proprio lignaggio e da una condivisa antipatia nei riguardi dei propri vicini» [66]. Fatte salve le dovute differenze, anche nel contesto europeo fu ad esempio la mobilitazione di massa in chiave antinapoleonica a contribuire a trasformare la Russia in una nazione non più semplicemente identificabile con il regno degli zar. In Germania, nell’anno che vide la disfatta degli stati tedeschi (1793) per mano francese, Goethe (1749-1832) non si rivolse più al Sacro Romano Impero bensì al Volk tedesco [67]. Ne consegue che lo Stato-nazione dell’epoca moderna – un concetto ancora oggi influenzato dalla Bibbia ebraica, sia pur attraverso una sua «rilettura secolarizzata» [68] – debba essere considerato come una tipica creatura hobbesiana che ha avuto come sua origine pratica e come sua destinazione «la difesa della comunità dalla potenziale aggressione esterna» [69].
L’ascesa del nazionalismo palestinese non può essere in alcun modo connessa, come sembrerebbero suggerire diversi studiosi [70], a una mera opposizione al sionismo. È innegabile, tuttavia, che esso abbia, insieme ad altri fattori, accelerato una serie di processi in atto, favorendo una sorta di omogeneizzazione delle ‘diversità’ presenti in loco [71]. Prima delle massicce immigrazioni riconducibili alle varie fasi del sionismo, nonché prima delle dinamiche innescate dall’imperialismo britannico e delle spinte moderniste imposte dalla Porta [72], non è chiaro per quale ragione gli arabi-palestinesi, che ai tempi rappresentavano una sorta di “comunità immaginata in fieri”, avrebbero dovuto avvertire un pericolo nel far parte (come provincia) di un Impero ottomano che, almeno fino alla progressiva entrata a regime delle seconde Tanzimât (1856), lasciava loro ampia libertà [73]. Come rilevò ancora nel 1858 il teologo svizzero Felix Bovet (1824-1903) nel suo pellegrinaggio in Palestina:
«Sono, è vero, i turchi una potenza che regna in Palestina, ma ve ne sono ben altre accanto a quella. Ogni tribú conserva una specie d’indipendenza, e fa i propri affari da se stessa. Vi sono dei villaggi intieri che pagano le imposizioni non al Pascià ma a qualche emiro beduino, e vi han delle provincie nella Palestina, ove il rappresentante della Porta [dell’Impero ottomano] non potrebbe rischiare d’inoltrarsi senz’essere infallibilmente spogliato al pari del primo venuto» [74].
Tra la maggioranza araba di quella stessa Palestina che Bovet, anch’egli protestante, descriveva come abitata da “tribù indipendenti”, coesistevano diversi sensi di identità (legati a fedeltà religiose, locali, transnazionali e familiari) senza che fosse avvertita alcuna contraddizione tra lealtà diverse [75]. Erano infatti identità tanto distinguibili quanto sovrapponibili. D’altro canto, come notato anche da Barnett e Telhami, uno dei modi in cui l’intera area differisce da altre regioni «è legato al fatto che l’identità nazionale ha avuto un carattere transnazionale» [76].
È in questo contesto regionale che è opportuno spiegare l’inconsistenza della tesi accennata nella prima parte di questo articolo. Il riferimento è all’assunto reso popolare da Joan Peters nel suo From time immemorial. In esso, attraverso un’analisi dei processi migratori registrati tanto nel corso dell’Ottocento quanto nel periodo del Mandato britannico, l’autrice dipinse gli arabi di Palestina come ‘stranieri’ provenienti da “aree esterne” [77]. Più precisamente la Peters, in linea con quanto pubblicato pochi anni prima dal giornalista Arieh L. Avneri [78], si sforzò di dimostrare che la Palestina fosse una terra semideserta e che gli abitanti in cui si imbatterono i primi sionisti fossero in larga parte dei ‘forestieri’ attratti dalle immigrazioni ebraiche. Ciò a dispetto del fatto che, come confermò nel 1857 Herman Melville (1819-91) durante un soggiorno in loco, fosse acclarato che ai tempi «tutti coloro che coltivano la terra in Palestina sono arabi [all who cultivate the soil in Palestine are Arabs]» [79]. Ovvero che quella stessa .“popolazione rurale” che Noel Temple Moore (1833-1903), console britannico a Gerusalemme dal 1863 al 1890, definì «l’osso e il tendine del paese [the bone and sinew of the country]» [80], fosse già da tempo ben radicata sul posto.
Quando From time immemorial venne pubblicato nel 1984 molti storici e giornalisti si affrettarono a scrivere che i dati demografici proposti dalla studiosa «potevano cambiare l’intero scontro arabo-ebraico a proposito della Palestina» [81] Ancora oggi, nonostante sia stato universalmente ‘squalificato’ nel contesto accademico internazionale [82], il libro in questione è citato da decine di studiosi, alcuni dei quali molto noti: «La ridotta e decrescente popolazione arabo-musulmana dell’area [la Palestina]», ha scritto ad esempio Alan Dershowitz, «era transitoria e migratoria [transient and migratory], a differenza della popolazione ebraica, che era più stabile, anche se più contenuta» [83].
Fino almeno agli anni Venti del Novecento [84] l’aumento della popolazione araba, peraltro riscontrabile anche in altri contesti mediorientali (in Iraq tra il 1867 e il 1905 la popolazione passò da 1 milione e 250 mila a 2 milioni e 250 mila unità) [85], aveva in realtà poco a che vedere con l’immigrazione ebraica. Come notò Justin McCarthy, «la provincia che registrò la maggiore crescita della popolazione ebraica (.035 all’anno), il sangiaccato di Gerusalemme, è stata quella con il più basso tasso di crescita della popolazione musulmana (.009)» [86]. L’aumento della popolazione araba in Palestina era in larga parte da collegare all’alta crescita demografica: un aumento peraltro iniziato già a partire dalla metà dell’Ottocento [87], quindi antecedente tanto alla haaliyah harishona quanto alla prima società di costruzione fondata negli anni Sessanta a Gerusalemme da Yosef Rivlin.
Tale crescita demografica si accompagnava a una diminuzione media della mortalità, posta ben al di sotto dei 40 anni nelle fasi iniziali del Novecento, indotta anche dalle innovazioni apportate dalla componente ebraica della popolazione [88]. Quest’ultima, al contrario, si moltiplicava in maggioranza grazie all’immigrazione, per lo piú incarnata da devoti, spesso perseguitati, provenienti da altri continenti.
È proprio questo uno dei punti nodali che merita una maggiore chiarezza. La grande maggioranza di quegli arabi palestinesi che Gawler, van de Welde, Peters e diversi altri esterni definivano come “stranieri” [89], erano in realtà persone che, – pur mantenendo saldi i loro peculiari retaggi indissolubilmente legati a quella che da molti secoli era nota alla maggioranza locale come “Filastīn” (Palestina) – vivevano nel contesto del Bilād al-Shām, ovvero in quella stessa “Grande Siria” che nel 1853 Ashley/Shaftesbury stigmatizzò come «un Paese senza una nazione». Considerare gli spostamenti interni alla regione come processi migratori tra popolazioni reciprocamente ‘straniere’ era/è un modo semplicistico di leggere una realtà che di semplice non aveva nulla. Nelle parole dello storico Adel Manna:
«Un palestinese che si trasferiva nel sud del Libano o un palestinese che migrava verso la Palestina – o un siriano, oppure un giordano – non è in alcun modo uno straniero in quanto è parte integrante della cultura della società del Bilad-sl-Sham, o Grande Siria, dove non esistevano confini tra i Paesi. […] Era normale e naturale, ad esempio, che un palestinese andasse a studiare ad Al-Azhar per poi rimanerci. O che un mercante di Hebron andasse al Cairo per poi viverci; oppure a Damasco o in altri luoghi, sia per studiare che per vivere […]. Stiamo parlando di un fenomeno naturale» [90].
Le tentazioni manichee sono da sempre foriere di travisamenti, nonché sovente di grandi sofferenze. L’approccio ‘bianco o nero’ secondo cui o i palestinesi rappresentavano una nazione ben definita, oppure non erano altro che “arabi”, quindi persone che sarebbe stato relativamente semplice ridislocare in qualsiasi altra regione del mondo arabo, è da tempo una semplificazione piuttosto diffusa nella letteratura prodotta su questi temi. Una semplificazione che, sotto molteplici aspetti, attende ancora oggi di ricevere l’attenzione che merita.
Cos’è la Palestina?
Sovente i viaggiatori provenienti da Occidente, arcipelago britannico in primis, si rapportavano alla Palestina come fosse una semplice ‘espressione geografica’: una sorta di Siberia del Mediterraneo Orientale. “Espressione geografica” (“geographischer Begriff”) fu peraltro anche la formula con la quale il cancelliere austriaco Metternich (1773-1859) apostrofò l’Italia nel 1847 [91].
Una tale attitudine venne in seguito ulteriormente rafforzata dall’influenza di alcune delle correnti più estreme del sionismo, le quali accostarono l’idea della Palestina a un concetto astratto, giustificando tale approccio con il fatto che essa non avesse mai avuto frontiere, bensì solo confini amministrativi. Era questa tuttavia una predisposizione – sostenuta nel corso dei decenni da diversi autorevoli studiosi [92] – che per molti versi non trovava riscontri nei sentimenti degli ‘interni’.
Un editoriale pubblicato su Filastīn del 2/15 febbraio 1913 ammonì che«non è più il tempo dell’Impero ottomano. È il nostro tempo [...] organizzeremo un esercito speciale per proteggere la Palestina» [93]. Un numero speciale pubblicato l’anno successivo sul medesimo giornale commentava con le seguenti parole il tentativo di chiudere il giornale da parte del governo ottomano: «Cari lettori, a giudizio del governo centrale sembra che abbiamo commesso un atto grave nell’allertare la nazione palestinese [al-umma al-filistiniyya] contro il pericolo che la minaccia da parte della corrente sionista. […] siamo una nazione che è minacciata di scomparire di fronte a questa corrente sionista in questa terra di Palestina [fi hathihi al-bilad al-filistiniyya]» [94].
Di esempi simili a quelli appena citati se ne possono rintracciare a profusione: tanto tra le masse contadine quanto, ancor di più, tra le élite urbane [95]. Nei diciannove giornali fondati in Palestina tra il 1908 e il 1914, non a caso gli unici sei anni in cui la stampa locale fu libera [96], i riferimenti a una peculiare “umma palestinese” erano infatti la norma. Se rispetto ad altri contesti questo sentimento era cresciuto in modo più repentino ciò era in gran parte riconducibile a due fattori già evidenziati: un tangibile e crescente pericolo esterno, nonchè un livello di autoidentificazione relativamente già ben sviluppato. al-Karmil, al-Quds, Filastīn, al-Munadi, al-Dustur [97], solo per citare i giornali maggiori, rappresentavano in questo senso uno specchio sul quale proiettare l’amore per la propria terra, nonché i timori che si prefiguravano all’orizzonte: «La terra [palestinese] – ammonì un editoriale pubblicato su Filastīn il 6/9 aprile 1913 – iniziò a essere soggetta all’attenzione del sionismo e fino ad oggi ci sono in Palestina 100.000 ebrei [...] come è possibile essere certi che questi 100.000 non diventino 200.000 e che essi non raggiungano una forma di autorità autonoma [...]» [98].
Ma non sono solo i mezzi di comunicazione del tempo – che di certo favorirono il processo di sviluppo di una «auto-consapevolezza comunitaria [palestinese]» [99] – a testimoniarci l’autopercezione che gli autoctoni, all’inizio del Novecento, sulla scia dei primi effetti in loco del nazionalismo, avevano della loro terra. È possibile infatti affidarsi anche a numerosi documenti, lettere ufficiali e diari privati che facevano esplicito riferimento a una terra di Palestina con confini che possono essere definiti relativamente precisi. In tal senso è esemplare il documento di protesta che il 3 febbraio 1919 i partecipanti al congresso arabo palestinese che prese vita a Gerusalemme inviarono alla Conferenza di pace: «Tutti i residenti musulmani e cristiani della Palestina, che è formata dalle regioni di Gerusalemme, di Nablus e dell’Araba San Giovanni d’Acri [...]» [100].
Per la sua ampia maggioranza musulmana Filastīn, un termine ricollegabile a quella stessa “Palashtu” a cui fece riferimento il re assiro Sargon II (?-705 a.C) e che in seguito ritroviamo nella cultura greca dei tempi di Erodoto (484-425a.C.) [101], era in realtà già da molti secoli una terra facilmente circoscrivibile. Ciò era dovuto alla sua acclarata unicità. Un ampio numero di fonti islamiche classiche [102] la indicava come Al ‘Arḍ al Muqaddasa (“La Terra Santa”). La consapevolezza e la percezione di una Palestina, che, in quanto Al ‘Arḍ al Muqaddasa, fosse un’area speciale e perciò distinta dalla Siria e dal Libano, si suppone presente da sempre nella «coscienza arabo-musulmana»: «La Terra Santa [Al ‘Arḍ al Muqaddasa]», scrisse nel 1663 il filosofo marocchino Abū Sālim Al-῾Ayyāshī (1628–79), «è il luogo più vicino al paradiso che ci sia al mondo» [103]. Per una percentuale minoritaria di studiosi tale unicità era palese al punto da poter addirittura competere con il ruolo della Mecca e Medina, le prime due città sacre dell’Islam: «Il Corano», precisò Amir Ali (1937-2005), fondatore dell’Institute of Islamic Information & Education, «include il termine ‘santa’ o muqaddasah solo in riferimento alla Palestina. Abbiamo tre ‘harams’ ma solo una terra santa. Non ho mai rintracciato nel corano o in alcun hadith il termine muqaddas in riferimento alla Mecca o a Medina» [104].
Una conferma di tale specificità era peraltro riscontrabile, con riferimenti geografici ancora più circoscritti, in un numero cospicuo di fonti prodotte nel corso di un vasto lasso temporale. Un testo islamico dell’VIII secolo attribuito allo studioso medievale Abū Khālid Thawr Ibn Yazīd al-Kalā‘ī (764–854), un fiero sostenitore dell’idea che le donne dovessero avere la facoltà di servire come imām (“Guida spirituale”), argomentava che «il luogo più sacro [al-quds] della terra è la Siria; il luogo più sacro in Siria è la Palestina; il luogo più sacro in Palestina è Gerusalemme [Bayt al-maqdis]» [105]. Cenni circostanziati alla Palestina, non necessariamente di carattere strettamente religioso, li ritroviamo nel Kitāb al-Buldān (“Il libro dei Paesi”) dello storico sciita Al-Ya‘qūbī (?-897) [106] e nel Kitāb al-masālik wa al-mamālik (“Libro delle vie e dei regni”) del geografo persiano al-Istakhri (?-957): «Filastīn», scrisse al-Istakhri, «è la più fertile delle provincia siriane […] Nella provincia di Filastīn, a dispetto della sua ristretta estensione, ci sono circa venti moschee […] Al massimo della sua lunghezza [Filastīn va] da Rafh [odierna Rafah] fino al confine di Al Lajjûn (Legio), a un viaggiatore occorrerebbero due giorni per transitarla; e [questo è] il tempo verosimilmente [necessario] per attraversare la provincia nella sua larghezza da Yâfâ (Jaffa) a Rîhâ (Jericho) […]» [107]. Contenuti simili sono presenti anche nel Kitāb Ṣūrat al-’Arḍ (“Il libro della configurazione della Terra”) [108] del mercante bagdatense Ibn Ḥawqal (X sec.), nella Ahsan at-Taqasim fi Ma’rifat il-Aqalim (“La migliore divisione per la conoscenza delle regioni”) del geografo gerosolimitano Al-Muqaddasi [109] e più in generale in ampi settori della letteratura araba del Basso Medioevo. Esemplare a questo riguardo il genere letterario dei “Meriti di Gerusalemme” (Faḍā‘il al-Quds), composto a metà dell’XI secolo e contenente molti materiali riconducibili al VII e all’VIII secolo. Nei Faḍā‘il al-Quds, ancora una volta, venivano descritte in tono esaltatorio le bellezze di al-Quds (Gerusalemme) e delle località più sacre ed importanti del Paese [110].
In virtù di tali considerazioni non stupisce che anche in un’epoca più tarda ci fosse tra i suoi abitanti una percezione più o meno definita della Palestina. Un’analisi dettagliata dei testi del muftì Khayr al-Dīn al-Ramlī (1585-1671), influente giurista islamico nella Palestina ottomana del XVII secolo, nato e morto nella città da cui trae origine il suo cognome (appunto Ramla), conferma ad esempio che il concetto di Filastīn, da lui indicata come “bilādunā” (“il nostro paese”) [111], fosse molto più di un’idea astratta. Si tratta di un sentire comune peraltro confermato anche da quello che è considerato uno dei più noti classici della storia gerosolimitana del Medioevo: al-Uns al-Jalil bi-tarikh al-Quds wa’l-Khalil (“La gloriosa storia di Gerusalemme ed Hebron”). Nelle pagine del manoscritto, composto intorno al 1495, il suo autore, il qadi di Gerusalemme Mujīr al-Dīn al-‘Ulaymī (1456–1522), fece un uso sistematico (22 citazioni) del termine “Filastīn” [112], alternato sovente con Al ‘Arḍ al Muqaddasa. L’indicazione “Siria meridionale”, per contro, non fu mai menzionata.
Ancora una volta non dovrebbe dunque sorprendere che “Arz-i Filistin” (la “Terra di Palestina”), coincidente all’area posta a occidente del fiume Giordano, fosse la denominazione che le autorità ottomane usavano nel XIX secolo nella corrispondenza ufficiale per indicare la Palestina. Essa, la “Arz-i Filistin”, non rappresentava un’area politicamente autonoma, anche se manteneva, tanto nell’uso popolare quanto in quello ufficiale, un’accezione peculiare non trascurabile. Non a caso la formula “Arz-i Filistin ve Suriye” (la “Terra di Palestina e la Siria”) era utilizzata di frequente nella corrispondenza ufficiale ottomana [113], così come nelle mappe stampate a Istanbul nel 1729 dal tipografo del sultano Ibrahim Müteferrika (1674–1745) [114]. Non è dunque una coincidenza, come ha notato Beshara Doumani, che il governo centrale ottomano «stabilì nel corso dell’Ottocento un’entità amministrativa con confini praticamente identici a quelli del Mandato di Palestina in tre distinte occasioni: nel 1830, nel 1840 e nel 1872» [115]. Proprio il 1872 è peraltro l’anno in cui il console Noel Temple Moore scrisse un dispaccio a commento della «recente elevazione della Palestina in un distinto Eyalet [governatorato]» (una decisione accolta con giubilo dalla popolazione locale), sottolineando altresì che «molti viaggiatori ed esploratori britannici visitano il paese a est del Giordano [the country east of the Jordan]» [116].
È nel quadro appena delineato che è forse possibile comprendere per quale ragione tanto gli ottomani, quanto i missionari protestanti, gli arabi e i primi sionisti, benché nessuno dei quattro avesse la stessa percezione del perimetro esatto della Palestina, usassero tale termine (Palestina) per riferirsi a quella specifica area del mondo. Una riunione della London Jews’s Society (LJS), presieduta da G.H. Rose e avvenuta a Londra il 4 maggio 1838, auspicò ad esempio «la diffusione delle Sacre Scritture e della verità del Vangelo in ogni parte della Palestina e dei paesi adiacenti [Palestine and the adjacent countries]» [117]. Allo stesso tempo il programma del movimento sionista adottato nel 1897 «parlava (in tedesco) di una casa ‘in Palestina’ per il popolo ebraico»; senza contare che «la prima istituzione sionista creata nel Paese fu la ‘Anglo-Palestine Company’» [118].
A dispetto di quanto appena sottolineato è opportuno segnalare l’esistenza di diversi documenti che sembrerebbero provare una tesi opposta. Ad esempio nel 1840, appena due anni dopo la riunione della LJS pocanzi citata, la Convenzione di Londra si riferì all’area di Acri indicandola come «la parte meridionale della Siria» [119]. L’Encyclopaedia Britannica pubblicata nel 1911 chiarì che la Palestina «generalmente denota il terzo meridionale della provincia della Siria» [120]. Di più, gli stessi ventotto delegati palestinesi che tra il 27 gennaio e il 9 febbraio 1919 parteciparono a Gerusalemme al primo Mu’tamar al-‘Arabī al-Filastīnī (“Congresso Arabo-Palestinese”) rilasciarono una dichiarazione definendo la Palestina come parte della Siria. Suriyya al-Janubiyya (“Siria meridionale”) fu peraltro anche il titolo di un giornale pubblicato a Gerusalemme a partire dal settembre del 1919 [121].
Gli esempi citati, così come altri ad essi simili, non contraddicono tuttavia quanto finora sostenuto. Il fatto che in Europa ci si riferisse all’area in oggetto identificandola, a seconda dei casi, come Palestina o come “Siria meridionale” non ha infatti un particolare rilievo. Diverso sarebbe invece se gli autoctoni, come nel caso dei delegati palestinesi citati, si autoidentificassero come individui originari della “Siria meridionale”. Non era questo il caso. Fatti salvi alcuni isolati episodi riconducibili a espliciti calcoli politici [122], non c’è alcun documento prodotto dalla popolazione locale prima del 1918 o dopo il 1920 che ‘annullasse’ la Palestina e tutto ciò che essa rappresentava in favore del concetto di “Siria meridionale”. Proprio l’isolato episodio dei delegati palestinesi del 1919 è infatti comprensibile solo se posto in un peculiare quadro storico durato un biennio. In quel breve spazio temporale la scelta di ‘accantonare’ la Palestina – esplicitata nella richiesta che essa divenisse parte di una federazione regionale più ampia – non fu altro che un escamotage [123] pensato dai diretti interessati per liberarsi del giogo di Londra e per opporsi alle crescenti ambizioni sioniste: «Una Siria unita e indipendente», notò Herbert Samuel (1870–1963) nell’aprile del 1920, «è considerata come l’unico mezzo per combattere il Sionismo [as the only means of combating Zionism]» [124]. Si trattò dunque a tutti gli effetti di una mossa tattica dettata dalle contingenze del tempo:
«Durante la guerra [Prima guerra mondiale], i nazionalisti arabi cooperarono con Sharif Hussein e i suoi figli per costituire un regno arabo. I palestinesi, che erano parte di questa ideologia, pensarono al tempo, in modo tattico, che sarebbe stato di loro interesse far parte del regno di Faisal nel Bilad al-Sham. Questa è la ragione per la quale solo in quei due anni [1918-1920] essi fecero riferimento alla Palestina come Siria Meridionale o regno di Faisal. Dopo che Faisal venne espulso da Damasco, la conferenza successiva non fa più riferimento [alla Palestina] come parte della Siria o del regno di Feisal. Nell’estate del 1920 l’episodio è finito» [125].
Anche nell’effimero biennio 1918-1920 la Palestina era dunque qualcosa di più di un concetto astratto [126]. Ancora una volta essa – benché priva di una connotazione politica definita – era ben distinta nel sentire della gente comune [127], senza che ciò implicasse un suo ‘estraniamento’ dal contesto che la circondava. Come l’Italia, mutatis mutandis, è parte integrante dell’Europa senza per questo perdere le sue peculiarità, così la Palestina era incastonata nel contesto del Bilād al-Shām ed era/è parte integrante del mondo arabo senza che ciò la rendesse ‘meno palestinese’. Una delle più interessanti testimonianze in questo senso è rappresentata da Jughrafiyyat Suriyya wa Filastīn al-Tabi’iyya (“La geografia naturale della Siria e della Palestina”), un libro di testo molto usato nelle scuole palestinesi degli anni Venti. A pubblicarlo fu nel 1923 Sabri Sharīf ‘Abd al-Hādi, un geografo che insegnava presso una scuola pubblica di Nablus. In esso la Palestina veniva chiaramente distinta rispetto al resto della “Grande Siria” attraverso una descrizione delle caratteristiche agricole, demografiche e amministrative che contraddistinguevano la prima dalla seconda [128]. Proprio negli stessi mesi in cui al-Hādi dava alle stampe il suo volume, l’educatore palestinese Khalīl Sakānīnī notò in un articolo pubblicato nel 1923 sul giornale cariota al-Siyasa (“la Politica”) che la Palestina era «una nazione che è stata per molto tempo avvolta in un sonno profondo», prima di essere destata «dalla Prima guerra mondiale, sconquassata dal movimento sionista e offesa dalla politica illegale [del governo britannico]» [129].
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] Alla fine del X secolo, il geografo al-Muqaddasī scrisse quanto segue: «Ho menzionato loro [i lavoratori di Shiraz] della costruzione in Palestina e ho discusso con loro di questi argomenti. Il maestro scalpellino mi ha chiesto: sei egiziano? Ho risposto: No, sono palestinese». Al-Muqaddasī, Ahsan al-taqāsīm fī maʿrifat al-aqālīm [La migliore suddivisione per la conoscenza delle province], Dār al-Kutub al-ʿIlmīya, Beirut 2003: 362.
[2] The National Arcives (da ora, TNA) FO 881/1177. Gawler a Lord Palmerston, 9 nov. 1849.
[3] E. Warburton, The Crescent and the Cross: I, Wiley, New York 1845: 5.
[4] Palestine Exploration Fund (da ora, PEF)/MINS, 22 giu. 1865.
[5] Samuel Clemens, meglio noto come Mark Twain, si riferì agli abitanti del luogo in esplicita comparazione con gli standard di moralità e progresso raggiunti in Inghilterra e in America, mostrando, come notato da Tom Quirk in una introduzione del libro di Twain, «disprezzo nei riguardi di coloro che non possono o non vogliono parlare inglese». M. Twain, The Innocents Abroad, Penguin, New York 2002: xxxii. Lo scrittore del Missouri “solo a intermittenza sembra riconoscere che è lui, il non nativo, ad essere il visitatore straniero, ‘l’altro’”. Ivi: xxxi. Twain, tuttavia, voleva dar vita a una parodia dei pellegrini, protestanti e non, che dall’America giungevano in Palestina. Attraverso la satira, mirava inoltre a far luce sul fatto che i luoghi sacri erano sovente da ricollegare a invenzioni o manipolazioni.
[6] Euben ha analizzato il modo in cui i viaggiatori occidentali crearono “il ‘colonizzato-altro’”, notando però l’importanza di valutare anche la prospettiva opposta. R.L. Euben, Journeys to the other shore, Princeton University Press, Princeton 2006: 2.
[7] Si veda L. Kamel, Identities and Migrations: a Borderless Middle East’s Perspective, in “Storicamente”, 11(9), 2015: 1-16.
[8] A.C.L. Crawford, Letters on Egypt, Edom, and the Holy Land, Colburn, Londra 1847: 251.
[9] C.W.M. van de Velde, Narrative of a Journey through Syria and Palestina in 1851 and 1852, v. I, Blackwood, Londra 1854: 424. Le mappe pubblicate da van de Velde tra il 1854 e il 1857 furono le migliori tra quelle fino ad allora prodotte.
[10] Lambeth Palace Library (da ora, LPL) – BP – 174 – p.1 – ff. 215-216. Memorandum di Tait, datato 14 gennaio 1877, redatto a seguito della sua missione in Siria e Palestina: «Un’altra difficoltà forse ancora più difficile da affrontare riguarda il basso livello morale dei musulmani [the low standard of morals among the Moslems]».
[11] J. Parkes, A History of Palestine from 135 A.D. to Modern Times, Gollancz, Londra 1949: 294.
[12] Palestine Exploration Fund, Londra 1879: 8.
[13] Già nel 1878 Oliphant, il quale fu un punto di riferimento per i primi movimenti sionisti come Hovevei Zion, propose alle autorità britanniche, francesi e ottomane di appoggiare un progetto finalizzato all’insediamento di coloni ebrei nel distretto di Balqa’ (odierna Giordania). Il sultano approvò inizialmente l’idea, salvo poi tornare sui suoi passi temendo le possibili ripercussioni di una tale iniziativa. Başbakanlık Osmanli Arşivi (da ora, BOA) Y.A.RES 5/58, bozza per l’approvazione del progetto, 9 mag. 1880.
[14] L. Oliphant, The Land of Gilead, Appleton, New York 1881: 244-5.
[15] Letteralmente “distretto militare di Palestina”. Tale indicazione fu comune nell’arabo parlato tra la metà del VII e la metà del XIII secolo. A.S. al-Khālidī, Ahl al-‘Ilm wa-l-Hukm fi Rif Filastīn [Dotti e governanti nella Palestina rurale], Jamiyyat Ummal al-Matabi al-Taawuniyah, Amman 1968: 9-10. Scrive Gil: «Nel nono secolo jund Filastīn includeva i distretti (kuwar, singolare kūra) di Ramla, Gerusalemme (Īliyā), ‘Īmwās, Lidda, Yavne, Giaffa, Caesarea, Nāblus (Shechem), Samaria (Sebastia), Bet Guvrin (Bayt Jibrīn; ai tempi dei bizantini, Eleutheropolis), il Mar Morto (Bahr Lūt), Ascalona e Gaza». M. Gil, A History of Palestine 634-1099, v. I, Cambridge University Press, New York 1992: 111. Nota Gerber: «È acclarato che una qualche forma di identità palestinese [We know for a fact that some form of Palestinian identity] esistesse già nell’Islam classico». H. Gerber, Remembering and Imagining Palestine, Palgrave, New York 2008: 6.
[16] Proprio i beduini furono nei decenni a seguire i primi a scartare l’idea di far parte di un’emergente identità palestinese e «alcuni di essi collaborarono con i sionisti». H. Cohen, Army of Shadows, Univ. of California Press, Berkeley 2008: 73.
[17] I beduini erano quasi sempre descritti con disprezzo dai funzionari di Sua Maestà: «I beduini non sono coraggiosi [...] I beduini amano saccheggiare [...] sono indolenti». Charles Wood (dall’1 gen. al 28 ott. 1869 facente le veci di console a Istanbul) all’ambasciatore britannico a Istanbul Henry Elliot (1817-1907). Damasco, 26 ott. 1869. TNA FO 195/927.
[18] S. Tamari, “Lepers, Lunatics and Saints”, in “Jerusalem Quarterly File”, n. XX, inverno 2003: 28.
[19] Parkes, A History cit.: 244. Scrive Parkes: «Il termine ‘Arabo’ [...] è inappropriato per descrivere la componente rurale della popolazione, i fellaheen. L’intera popolazione parlava l’arabo, solitamente influenzato da dialetti recanti trace di parole di altra origine, ma di solito erano solo i beduini a considerarsi arabi». Ibid.
[20] TNA FO 406/40. Ormsby-Gore. Londra, 16 ago. 1918.
[21] B. Borochov, Li-she’elat zion ve-teritoria [Sulla questione di Sion e del territorio], in Ketavim, v. I, Tel Aviv 1955: 148.
[22] J. Shavit, The new Hebrew nation, Frank Cass, Londra 1987: 123
[23] Alcune ricerche hanno riproposto delle tesi simili a quelle di Borochov. Degno di nota uno studio condotto alla Hebrew University da Ariella Oppenheim, Almut Nebel et al. (A. Oppenheim et al., «High-resolution Y chromosome haplotypes of Israeli and Palestinian Arabs reveal geographic substructure and substantial overlap with haplotypes of Jews», in “Human Genetics”, n. 107-6, dic. 2000: 630-41). Anche quest’ultimo, tuttavia, presenta diversi punti deboli, ben riassunti da Judy Siegel: «Questo studio [Oppenheim et al.] utilizza un limitato campione [143 arabi musulmani, israeliani e palestinesi] e un insieme improbabile di test. È sorpredente che i gallesi del Nord siano stati testati […] La selezione dei gruppi influenza i risultati di un qualsiasi studio genetico». J. Siegel, Experts find genetic Jewish-Arab link, in “The Jerusalem Post”, 6 nov. 2001.
[24] Y. Belkind, Ha-‘araviyyim asher beErets-Yiśra’el [Gli arabi nella Terra d’Israele], Hameir, Tel Aviv 1928: 19.
[25] Ivi: 8.
[26] Molti anni dopo Ben-Zvi fu accusato di essere il mandante dell’omicidio di Jacob Israel de Haan (1881-1924), giurista olandese che si oppose con forza ad alcuni aspetti del sionismo. Il suo è considerato il primo omicidio politico avvenuto all’interno della comunità sionista nella Palestina mandataria.
[27] Scrive Parkes: «Nel corso del 19° secolo molti studiosi europei visitarono il Paese [la Palestina] per lunghi periodi […]. Furono questi studiosi [...] i primi a produrre ricerche indipendenti sui fellaheen e a raccogliere informazioni attendibili sui loro costumi, la loro religione e origine. A poco a poco ci si rese conto che rimaneva un sostanziale strato di contadini pre-israeliti [remained a sustantial stratum of the pre-Israelite peasantry] [...]». Parkes, A History cit.: 244.
[28] D. Ben-Gurion, Y. Ben Zvi, Erets-Yiśra’el ba-‘avar u-ba-hove [La Palestina nel passato e nel presente], Ben Zvi Press, Gerusalemme 1980: 196. L’analisi venne basata in particolare su uno studio dei nomi dei villaggi palestinesi e su diversi fenomeni folkloristici propri dei contadini locali. Nel 1929 Ben Zvi prese una posizione meno drastica rispetto a quella espressa undici anni prima: «La grande maggioranza dei fellaḥin non trae le proprie origini dai conquistatori arabi ma dai fellaḥin ebrei che prima della conquista dell’Islam formavano il nucleo principale degli abitanti del paese». Y. Ben Zvi, Uklusianu ba-aretz [La nostra popolazione nel paese], KKL, Varsavia 1929: 39.
[29] Ben-Gurion e Ben-Zvi si soffermarono ad esempio a descrivere i frutteti, i giardini e i vigneti che circondavano Gaza, dedicando alcuni passaggi alla massiccia presenza di alberi di ulivo intorno alle città di Lidda e Ramla, salvo poi specificare, prendendo spunto da una leggenda locale, che «le olive di Gaza furono piantate da Alessandro il Grande». Secondo i due autori, «il presupposto è che dalla conquista araba non sia stato piantato un solo olivo». Ben-Gurion, Ben Zvi, Erets-Yiśra’el cit.: 151-5 e 210.
[30] Ivi, cit.: 198.
[31] Sull’uso del termine ebraico shemama applicato ai diversi paesaggi si veda Y. Bargal, Dimuiei nof Erets-Yiśra’el be-ta’amulat ha-keren ha-kayemet le-Yiśra’el bi-tkufat ha-yishuv [Immagini del paesaggio della Terra di Israele nella propaganda del Fondo nazionale ebraico durante il periodo dell’Yishuv], in “Motar”, n.11, 2003/2004: 21-2.
[32] Y. Zerubavel in J. Brauch, A. Lipphardt, A. Nocke (a cura di), Jewish topographies, Ashgate, Aldershot 2008: 207-8.
[33] Cit. anche in S. Sand, L’invenzione del popolo ebraico, Rizzoli, Milano 2010: 283.
[34] M. Darwish, La terre nous est étroite et autres poèmes, 1966-1999, Gallimard, Parigi 2000.
[35] «I Fellahin», scrisse nel 1905 il missionario della Church Missionary Society (attiva in pianta stabile in Palestina a partire dal 1851) C.T. Wilson, «nutrono un grande amore per il loro luogo natìo». C.T. Wilson, Peasant life in the Holy Land, Murray, Londra 1906: 85. Ciò contribuisce a spiegare la ragione per cui molti cognomi palestinesi includono il villaggio di provenienza: Nābulsī, Ramlī, Rāntissī e via discorrendo.
[36] Il festival di Nabi Musa, che ogni anno raccoglieva migliaia di persone da tutta la Palestina, era un evento peculiare della culturale palestinese, nonchè un chiaro esempio di “coesione protonazionale”. Il festival era pensato per commemorare i traumatici eventi legati alle Crociate. K. al-Asali, Mawsim al-Nabi Musa fi Filastīn: tārīkh al-mawsim wal-maqam [Il festival di Nabi Musa in Palestina: la storia del festival e del santuario], Dar al-Karmil, Amman 1990.
[37] La dabkeh e le altre danze caratteristiche della Palestina tardo ottomana erano più che semplici celebrazioni. Rappresentavano tra l’altro espressioni di una “collectivization of trauma”. N. Rowe, Raising Dust. A Cultural History of Dance in Palestine, I.B. Tauris, Londra 2010: 53. George Ibrahim, direttore del teatro Al-Kasaba di Ramallah ritiene che la danza e la recitazione siano anche e soprattutto degli strumenti per esprimere il «malessere collettivo di una nazione». Int. con l’autore. Ramallah, 13 feb. 2010.
[38] Non è un caso che i centri del nazionalismo arabo furono via via Damasco, Baghdad e Il Cairo (città di paesi colonizzati) e non Riyad o La Mecca (città di paesi indipendenti).
[39] A.D. Smith, Ethno-symbolism and Nationalism, Londra 2009: 25 e 72.
[40] M. Benvenisti, Son of the Cypresses, University of California Press, Berkeley 2007: 233.
[41] Secondo Eriksen: «Affinché l’etnia si manifesti, i gruppi devono avere un minimo di contatto tra loro e devono percepirsi l’un l’altro come culturalmente diversi. Se queste condizioni non sono soddisfatte, non c’è etnia, poiché l’etnia è essenzialmente un aspetto proprio di una relazione, non una proprietà intrinseca di un gruppo». T.H. Eriksen, Ethnicity and Nationalism, Pluto Press, Sterling 1993: 12.
[42] S. Della Pergola, 2001. Democraphy in Israel/Palestine, IUSSP XXIV General Population Conference Paper, http://212.95.240.146/Brazil2001/s60/S64_02_dellapergola.pdf. Diverse fonti israeliane indicano «tra un quarto e metà milione» la popolazione totale presente sul posto nel 1880. D. Giladi, M. Naor, Rothschild. “Avi ha-Yishuv” ve-mifalo be-Eretz Israel [Rothschild, Il padre dell’Yishuv” e le sue attività nella Terra di Israele, Keter, Gerusalemme 1982: 18].
[43] J. McCarthy, The Population of Palestine, Columbia University Press, New York 1990: 26. In una sua precedente pubblicazione McCarthy indicò una cifra più contenuta, nell’ordine di 369 mila unità. Un più recente lavoro di Grossman ha sostanzialmente confermato i dati, indicando in circa 400 mila anime la popolazione totale (beduini inclusi) presente in Palestina a metà dell’Ottocento. D. Grossman, Rural Arab Demography and Early Jewish Settlement in Palestine, Transaction, New Brunswick 2011: 89.
[44] L’Egitto, come la Palestina, conobbe nel corso dei secoli una decrescita demografica. Si stima che ai tempi dei romani l’Egitto avesse circa otto milioni di abitanti, per poi calare a quattro nel XIV secolo e a tre intorno al 1800. La religione, vissuta in modo sempre più dogmatico a partire dalla fase post-Crociate, ebbe in questo senso un ruolo peculiare. Secondo Gibb e Bowen la conquista ottomana rallentò tale decrescita. H.A.R. Gibb, H. Bowen, Islamic society and the West, Oxford University Press, Oxford 1950: 209.
[45] Il conteggio tiene conto solo dei palestinesi presenti in Israele, nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Per la popolazione dell’Egitto nell’Ottocento cfr. J. McCarthy, “Nineteenth-Century Egyptian Population”, in “Middle Eastern Studies”, v. XII, n. 3, ott. 1976: 1.
[46] J. Weulersse, Paysans de Syrie et du Proche-Orient, Gallimard, Parigi 1946: 55. Così Weurlesse spiegò l’evoluzione della popolazione rurale: «gli Ittiti, gli Aramei, gli Assiri, i Popoli del Mare […] non sono scomparsi, hanno cambiato le loro capitali, a volte hanno modificato lingue e costumi, hanno esercitato un’influenza del tutto marginale sulla popolazione rurale, già legata al suolo». Ivi: 56. Ancora nel 1922, il primo censimento britannico indicò che circa il 65 percento (451,816 persone) degli arabi musulmani presenti in loco risiedevano in aree rurali. Gli ebrei residenti nelle zone rurali erano 15,172, mentre sotto la voce “cristiani e altri” furono indicate 25,877 persone. John Hope Simpson Report (da ora JHSR), “Palestine: Report on immigration, land settlement and development”, v. I, 1930: 24.
[47] Il censimento effettuato nel 1931 dal maggiore Eric Mills per conto del governo britannico mostrò che tra i musulmani di Palestina solo il 25 percento dei maschi e il 3 percento delle femmine era alfabetizzato. Tra i cristiani la percentuale saliva al 72 percento per i maschi e al 44 percento per le femmine. Tra gli ebrei si attestava al 93 percento per i maschi e al 73 per cento tra le femmine. Government of Palestine, Census of Palestine 1931, v. II, Gerusalemme 1932: 110.
[48] Prima dell’avvento dell’elettricità le olive erano usate anche come combustibile liquido per illuminare le lucerne durante la notte. Si stima che nei soli dodici mesi del 1913 vennero esportati dall’area di Nablus circa 130.000 chilogrammi di olive. J.S. Rajab, Palestinian Costume, Kegan, Londra 1989: 29-31.
[49] Cfr. J. Hilal, Takwin al-nukhba al-Filastiniyya [La formazione dell’élite palestinese], Muwatin, Ramallah 2002.
[50] Mentre la condizione dei notabili nel Mediterraneo Orientale era connessa in qualche modo alla terra, quella della borghesia europea dipendeva dal commercio e, in seguito, dal comparto industriale.
[51] E. Finn, “The fellaheen of Palestine”, in The Committee of the PEF, The Surveys cit.: 333. Finn sottolineò la mancanza di una “coesione nazionale” tra i fellaḥin. Aggiunse tuttavia che «da molto tempo nessun clan ha mai oltrepassato i confini del proprio distretto e nessuno mostra alcuna volontà di farlo [...]. Solo le maniere forti del governo potranno indurre un Fellah a lasciare il proprio villaggio natale […]. Non nutrono alcun patriottismo nei riguardi della Turchia». Ibid.
[52] John Thomas (1805-71) scrisse che «le immediate vicinanze di Nablus […] rappresentano uno dei luoghi più belli e fertili di tutta la Palestina». J. Thomas, Travels in Egypt and Palestine, Lippincott, Filadelfia 1853: 113.
[53] Nelle ultime quattro la componente della popolazione ebraica era inferione all’1 percento: Gaza (0,4 percento), Betlemme (0,1 percento), San Giovanni d’Acri (0,7 percento), Tulkarem (0,14 percento).
[54] Cfr. C.F. Volney, Voyage en Égypte et en Syrie, pendant les années 1783, 1784 et 1785, v. I, Bossanges Frères, Parigi 1822: 360.
[55] I beduini presenti in Palestina erano comparativamente meno rispetto a quelli presenti in Iraq, Siria e Giordania. Nel corso dell’Ottocento i beduini del Negev passarono da una fase di nomadismo ad una di progressivo seminomadismo. Secondo Oren Yiftachel l’attaccamento dei beduini alla loro terra è stato molto più sentito di quanto sovente sostenuto. Avinoam Meir ha aggiunto che già alla fine del Settecento essi erano impegnati in attività agricole nel nord del Negev. Cfr. A. Shemu’eli, Hitnahlut ha-Bevim shel Midbar Yehudah [La sedentarizzazione dei beduini nel deserto di Giudea], Gome, Tel Aviv 1970: 50. Secondo un rapporto del ministero degli Esteri statunitense datato primo gennaio 1949 la popolazione complessiva del Negev era compresa, negli anni subito antecedenti, tra le 60 e le 70 mila persone. National Archives and Records Administration (NARA), RG 59, Palestine-Israel 1945-49, LM 163, Roll 18.
[56] A. de Benoist, Identità e comunità, Guida, Napoli 2005: 12.
[57] A. Klotz, C. Lynch, Strategies for Research in Constructivist International Relations, Sharpe, New York 2007: 65. Per quanto concerne l’identità nazionale, secondo Eric Hobsbawm (1917-2012) e Ernest Gellner (1925-95) si tratta di un prodotto della “Western modernity”, reso possibile soprattutto grazie alle élite. Per Anderson fu l’America (con le sue guerre tra il 1776 e il 1825) a inventare il nazionalismo.
[58] Scrive Uri Ram: «Il concetto stesso di una ‘nazione ebraica’ primordiale o perenne è stato costruito dalla moderna storiografia sionista a partire dalla metà del 19° secolo». U. Ram, Israeli Nationalism, Routledge, Londra 2011: 128.
[59] “La conquista araba”, scrisse nel 1980 Aryeh L. Avneri, “portò nuovi coloni che imposero la religione dell’Islam e la lingua araba a tutti gli abitanti”. A.L. Avneri, The claim of dispossession: Jewish land-settlement and the Arabs, 1878-1948, Transaction, New Brunswick 1984: 11.
[60] T. Canaan, in “The Journal of the Palestine Oriental Society”, v. VII, 1927: 47. Invece di creare parallelismi tra il presente e il passato descritto nella Bibbia era dunque possibile spiegare la Bibbia usando ciò che era rimasto delle tradizioni locali. B.L. Ra’ad, Hidden histories, Pluto, Londra 2010: 213.
[61] D. Gilmour, Dispossessed, Sidgwick, Londra 1980: 20. Un secolo prima il celebre archeologo C. Clermont-Ganneau (1846–1923) fornì un quadro sulla stessa falsariga. Cfr. C. Clermont-Ganneau, “The Peasants”, in The Committee of the PEF, The Surveys of Western Palestine, Londra 1881: 319 e 324.
[62] M. Gil, A History of Palestine 634-1099, Cambridge University Press, New York 1992.:20. Secondo Gil, il quale per sostenere la sua tesi ha fatto ampio ricorso a fonti talmudiche considerate poco affidabili da numerosi storici, la conquista del VII d.C. aprì «una pagina interamente nuova nella storia della Palestina». Ivi: 1.
[63] «La scrittura cuneiforme è caratterizzata da un inventario di suoni più vicino all’arabo classico (circa 28 suoni) rispetto a quello rintracciabile nell’ebraico biblico (circa 22 suoni) [closer to that found in Classical Arabic (ca. 28 sounds) than to that found in Biblical Hebrew (ca. 22 sounds)]». M. O’Connor, “Epigraphic Semitic Scripts” in P.T. Daniels, W. Bright (a cura di), The World’s Writing System, Oxford University Press, Oxford 1996: 92. L’arabo ha lo stesso «sistema di suoni della lingua cananita, che si riflette nei 28 segni che compongono gli alfabeti di entrambi. Anche l’ugaritico ha gli stessi suoni, eccetto per il fatto che i 30 segni che compongono il suo alfabeto includono tre suoni per l’aleph: ā, ū, ē”. B.L. Ra’ad, Hidden histories, Pluto, Londra 2010:187.
[64] M. Rodinson, Israel and the Arabs, Penguins, Londra 1982: 319-20. Rodinson, storico marxista francese di origine ebraica (entrambi i genitori morirono ad Auschwitz), fu in una prima fase critico nei riguardi della creazione dello Stato d’Israele. In seguito supportò la soluzione “due popoli per due Stati”.
[65] M. Maresca (a cura di), Tommaso D’Aquino e la Scolastica, Garzanti, Milano 1943: 120. Edward Said (1935-2003) notò che «lo sviluppo e la conservazione di ogni cultura esige l’esistenza di un alter ego diverso e in competizione con essa. La costruzione dell’identità [...] implica la costruzione di opposti e di ‘altri’». E. Said, Orientalism, Vintage, New York 1994: 331-2.
[66] K. Deutsch, Nationalism and its Alternatives, Knopf, New York 1969: 3.
[67] C. Bayly, La nascita del mondo moderno, Einaudi, Torino 2004: 115-6.
[68] Secondo Smith l’aspetto religioso, radicato nella Bibbia ebraica, è «ancora molto presente, sebbene spesso in forme secolarizzate». A.D. Smith, Chosen Peoples, Oxford University Press, New York 2008: viii.
[69] D. Archibugi, F. Voltaggio, Filosofi per la pace, Editori Riuniti, Roma 1999: xvi.
[70] Si veda ad esempio L.A. Brand, Palestinians in the Arab World, Columbia University Press, New York 1988: 10.
[71] R R. Bocco, B. Destremau, J. Hannoyer, Palestine, Palestiniens. Territoire national, espaces communautaires, CERMOC, Beirut 1997: 24.
[72] Benchè i dominatori ottomani e le potenze europee fossero state, già prima delle ondate migratorie di ispirazione sionista, due ‘altri’ degni di nota, essi non erano equiparabili alla “minaccia” sionista. Quest’ultima, a differenza delle altre due, mirava a introdurre in modo permanente una popolazione che era peraltro fortemente motivata in virtù di atavici legami con la terra in oggetto.
[73] In riferimento alla seconda metà dell’Ottocento, Makdisi ha notato che nella stessa fase storica in cui “gli Stati Uniti erano alle prese con la schiavitù e l’emancipazione dei neri, e l’Europa con l’emancipazione degli ebrei, l’Impero ottomano si confrontava con la questione del ruolo dei non-musulmani all’interno di ciò che era stato a lungo un impero musulmano”. U. Makdisi, Age of Coexistence, University of California Press, Berkeley 2019: 11.
[74] F. Bovet, Viaggio in Terra Santa, Claudiana, Firenze 1867: 94.
[75] R. Khalidi, Identità palestinese, Bollati, Torino 2003: 50. L’identità palestinese non nacque come risposta al sionismo. Quest’ultimo servì a sollecitare l’esigenza di delimitare in modo sempre più netto una serie di caratteristiche tra il “noi” e gli “altri” in parte già presenti tra la popolazione locale: a metà dell’Ottocento un abitante di Nablus aveva tradizioni e caratteristiche identitarie peculiari rispetto a un cittadino di Damasco o Beirut, ma non per questo sentiva l’esigenza di marcare un “confine netto” da quelle stesse realtà.
[76] S. Telhami, M. Barnett (a cura di), Identity and Foreign Policy in the Middle East, Cornell University Press, New York 2002: 19.
[77] J. Peters, From time immemorial, Joseph, Londra 1985: 249.
[78] Il libro di Avneri venne pubblicato in ebraico (1980) e tradotto in inglese (1984): «I pochi arabi che vivevano in Palestina un secolo fa, all’epoca dell’inizio dell’insediamento ebraico, rappresentavano un minuscolo residuo di una popolazione volatile in costante mutamento». Avneri, The claim of dispossession cit.: 11.
[79] H. Melville, Journals, Northwestern University Press, Evanston 1989: 94.
[80] ISA RG 160/2881-P. Moore. Gerusalemme, 30 lug. 1879.
[81] R. Sanders, “The New Republic”, 23 lug. 1984.
[82] Con il passare degli anni il libro venne riconosciuto per essere un parziale plagio di una precedente opera di Ernst Frankenstein, viziato in piú da falsificazioni nei dati e nelle citazioni proposte. Finkelstein lo bollò come «la piú grandiosa frode mai pubblicata a proposito del conflitto arabo-israeliano». N. Finkelstein, Image and reality of the Israel-Palestine conflict, Verso, Londra 1995: 22.
[83] A. Dershowitz, The case for Israel, Wiley, Hoboken 2003: 27.
[84] Si verificarono anche diversi casi di movimenti migratori arabi interni alla stessa Palestina e miranti a insediarsi in zone a prevalenza ebraica, ovvero in perimetri che garantivano occasioni di sviluppo piú concreti. Tali fenomeni furono tuttavia molto successivi, ovvero risalenti alla fase storica post Prima guerra mondiale: «La popolazione araba mostra un’importante crescita a partire dal 1920, ed essa ha avuto una certa correlazione con l’incremento della prosperità [dovuta in buona parte al contributo ebraico] in Palestina […]. In particolare, gli arabi hanno beneficiato dei servizi sociali che non potevano essere forniti su vasta scala senza la rendita ottenuta dagli ebrei». Cfr. cap. 5 della Commissione Peel del 1937.
[85] M.S. Hasan, “Population Movements, 1867-1947”, in Issawi (a cura di), The Economic cit.: 160.
[86] McCarthy, The Population of Palestine, cit.: 16-7.
[87] Per un’analisi dell’incremento demografico (che coinvolse circa 120mila individui) registrato in Palestina tra gli anni Cinquanta dell’800 e l’inizio degli Ottanta cfr. A. Schölch in H. Nashabe (a cura di), Studia Palaestina: Studies in Honor of Constantine K. Zuray, Institute for Palestine Studies, Beirut 1988.
[88] Porath puntualizzò che fino agli anni Cinquanta non ci fu alcun incremento “naturale” tra gli arabi. Ciò iniziò a cambiare «quando furono introdotte cure mediche moderne e furono istituiti ospedali moderni, sia per mano delle autorità ottomane che dei missionari cristiani stranieri. Il numero di nascite è rimasto stabile ma la mortalità infantile è diminuita. Questa è stata la ragione principale della crescita della popolazione araba. [...] Nessuno dubita che alcuni lavoratori siano immigrati in Palestina dalla Siria e dalla Transgiordania e che siano rimasti in loco. Ma è necessario aggiungere che al contempo si verificaro anche flussi migratori in direzione opposta». Y. Porath, “Mrs. Peters’s Palestine”, in “New York Review of Books”, 16 gen. 1986. Si veda L. Kamel, Identities and Migrations: a Borderless Middle East’s Perspective, in “Storicamente”, 11(9), 2015: 1-16.
[89] Vi furono dei piccoli gruppi immigrati da zone esterne alla Palestina. Tra essi un gruppo di egiziani stabilitisi in Palestina durante gli anni in cui la regione fu sotto la dominazione di Muhammad Alì. Poco dopo giunsero sul posto un numero esiguo di immigrati bosniaci, algerini e circassi, i quali si andarono a insediare soprattutto in Galilea (oggi presenti nei villaggi di Rehaniya e Kfar Kama) e al ‘confine’ con il Libano. A differenza degli ebrei che qualche decennio più tardi arrivarono con la Seconda e la Terza aliyah – i quali attraverso pratiche come l’avodah ivrit (“lavoro ebraico”, ovvero solo i lavoratori ebrei erano accettati dai nuovi immigrati) optarono per l’esclusione e quindi la non integrazione con la popolazione araba locale – i gruppi menzionati si andarono quasi subito a integrare con gli autoctoni.
[90] A. Manna in P. Scham, W. Salem, B. Pogrund (a cura di), Shared Histories., Left Coast Press, Walnut Creek (Ca) 2005: 34.
[91] Metternich, 2 ago. 1847. Si veda A. Gercen, Briefe aus Italien und Frankreich: (1848-1849), Hoffmann, Amburgo 1850: 56.
[92] Scrive Lewis: «Il termine [Palestina] sopravvisse brevemente nel primo impero arabo e poi scomparve». B. Lewis, From Babel to Dragomans, Phoenix, Londra 2005: 191. Secondo Likhovski: «Prima del 1917, Palestina [...] era semplicemente un termine geografico». A. Likhovski, Law and Identity in Mandate Palestine, Univ. Of North Carolina Press, Chapel Hill 2006: 10.
[93] Moshe Dayan Center (da ora, MDC) – “Filastīn”, 2/15 feb. 1913. Due mesi dopo il medesimo giornale mise in guardia i lettori circa il pericolo che la Palestina potesse trasformarsi in un paese “interamente ebraico”. MDC – “Filastīn”, 19 apr. 1913. Editoriali dello stesso tenore sono presenti su grande parte dei giornali dell’epoca: “Per quanto tempo ancora l’avvoltoio [le organizzazioni sioniste] mangerà il cuore del nostro paese? Se perdiamo il nostro paese che viviamo a fare?”. MDC – “al-Karmil”, 27 nov. 1912.
[94] Cit. R. Khalidi, Identità palestinese, Bollati, Torino 2003: 241.
[95] Sebbene la gran parte dei giornali palestinesi riuscissero a stampare solo poche centinaia di copie ciascuno (“al-Quds” ne stampava tuttavia circa 1500 prima del 1914), la maggior parte di essi erano presenti nei luoghi pubblici e in alcune biblioteche aperte al pubblico; inoltre non di rado essi venivano inviati gratuitamente al mukhtar (capovillaggio) di diversi centri abitati. J. Yehoshua, Tarikh al-sihafa al-‘Arabiyyah fi Filastin fi al-‘ahd al-‘Uthmani, 1909-1918 [La storia della stampa araba in Palestina durante l’era Ottomana, 1908-1918], Matba’at al-Ma’arif, Gerusalemme 1974: 17-8 e 44.
[96] Il 1908 fu l’anno della nuova costituzione (la seconda dopo quella del 1876) concessa da Abdul Hamid II (1842-1918). Il nuovo clima portò a una diminuzione delle restrizioni imposte dalla censura ottomana e la conseguente proliferazione di nuovi organi d’informazione. Questa breve fase fu interrotta dall’avvio della Prima guerra mondiale, quando la Porta mise il bavaglio a tutti gli organi di stampa. Al termine della guerra i giornali locali cominciarono a riorganizzarsi; già dal 1919/20 iniziò una nuova fase, quella della censura imposta dal governo di Sua Maestà. Quasi vent’anni dopo (feb. ‘37) le autorità britanniche registrarono in Palestina la presenza di otto quotidiani annoverabili come “political press”. Quattro (“al Liwa”, “Filastīn”, “al-Difa’a”, “al-Jamia al-Islamiya”) erano arabi e quattro (“The Palestine Post”, “Haboker”, “Ha’aretz”, “Davar”) ebraici. In concomitanza con i primi mesi della Grande rivolta araba del 1936-39, i “giornali arabi vennero sospesi in 34 occasioni e quelli ebraci in 13”. TNA CO 733/346/10. Rapporto prodotto dalle autorità britanniche nel 1936.
[97] “al-Karmil” venne fondato nel 1908 nel distretto di Haifa da Najib Nassar. Rimase in attività fino al 1944. “al-Quds” venne stampato la prima volta a Gerusalemme nel 1908, per poi essere chiuso nel 1917, in concomitanza con la caduta dell’Impero ottomano. “al-Munadi” venne pubblicato nel 1912; rimase in attività fino al 1914. “Filastīn” fu fondato da Yūsuf (1870-1948) e Issa Daoud El-Issa (1878-1950); risultò il più longevo dei quattro giornali, rimanendo in stampa dal 1911 al 1948. “al-Dustur” venne stampato da Khalīl Sakānīnī (1878-1939) tra il 1910 e il 1913, per poi essere ceduto a Jamīl al-Khālidī. Y. Khūrī, al-Sahafa al-‘Arabyya fi Filastīn [La stampa araba in Palestina], Institute for Palestine Studies, Beirut 1976.
[98] MDC – Filastīn, 6/9 apr. 1913.
[99] A. Ayalon, Reading Palestine, Univ. of Texas Press, Austin 2004: 64.
[100] Cit. in J. Hilal, I. Pappe, Parlare con il nemico, Bollati Boringhieri, Torino 2004: 159.
[101] La Palestina prende il suo nome dai pelishtim (filistei), una tribù annoverata tra i “popoli del mare” che nel XII a.C. si stanziarono nell’area costiera meridionale della regione (tra le odierne Tel Aviv e Gaza). L’origine dei filistei è dibattuta. Erodoto usò i termini Palaistinê Syria (“Siria-Palestina”) riferendosi a un’area più ampia rispetto a quanto indicato nell’ebraico biblico con Pəlésheth. Nel VII libro delle Historìai (“Storie”), intitolato Polinnia, è scritto: «[...] questa parte della Siria, con tutto il paese, che fino all’Egitto si esistende, chiamasi Palestina [Palaistinê]». G. Desiderj, Erodoto Alicarnasseo, v. II, n.d., Roma 1789: 153. Per una trattazione sul riferimento fatto da Erodoto a proposito degli abitanti circoncisi della “Palaistinê” (pratica diffusa tra le antiche popolazioni semite; è rintracciabile nell’Antico Egitto la più antica prova riguardante la circoncisione) cfr. J. Brunschwig, G.E.R. Lloyd (a cura di), Greek Thought, Harvard University Press, Cambridge (Ma) 2000: 871. Anche Aristotele (384-322 a.C.), basandosi su informazioni di seconda mano, usò il termine Palestina. Il fatto che anche in questo caso il termine non indicasse un’area precisamente delimitata non sminuisce l’importanza della citazione: «Se esiste in Palestina, come narrano alcuni, un lago [Mar Morto] tale che se qualcuno ci getta dentro un uomo o un animale legati esso galleggia e non annega [...]». Aristotele, Metereology, Kessinger, Whitefish 2004: 39.
[102] Un caso esemplare è rappresentato dalle tafsīr (esegesi) coraniche prodotte da Tabarī (838–923). Tabarī, Jāmi‘ al-bayān ‘an ta’wīl al-Qurān [La raccolta evidente circa l’interpretazione del Corano], Ed. Sīdqī Jamīl al-‘Attār, 15 volumi, Beirut 2001. Per una fonte successiva cfr. Mujīr al-Dīn, al-Uns al-Jalil bi-tarikh al-Quds wa’l-Khalīl [La gloriosa storia di Gerusalemme ed Hebron], v. I, al-Haydariyya, Najaf 1968: 65, 66, 71, 94, 101.
[103] A.S. Al-῾Ayyāshī, al riḥla Al-῾Ayyāshīa [Il viaggio di al-῾Ayyāshī], v. 2., Dār al-Essouaidī, Abu Dhabi 2006: 189.
[104] L’argomento è affrontato in A. Fahīm Gabr, Al ‘Ard al Muqaddasa [La Terra Santa], An-Najah Univ., Nablus 1983.
[105] Cit. in J. van Ess, “Abd al-Malik and the Dome of the Rock. An Analysis of Some Texts” in J. Raby, J. Johns (a cura di), Bayt Al-Maqdis, v. I, Oxford University Press, Oxford 1992: 89-90. La frase citata riprendeva, come accade in parti consistenti della teologia islamica, concetti già presenti nella tradizione ebraica (anche la tradizione greca ebbe un impatto evidente). Nel corso dei secoli, nei campi dell’astronomia, della logica, della matematica e della giurisprudenza, l’influenza fu invece all’insegna della reciprocità.
[106] Cfr. Al-Ya‘qūbī, M.J. de Goeje (a cura di), Kitāb al-Buldān [Il libro dei Paesi], Bibliotheca Geographorum Arabicorum, v. II, Brill, Leida 1892: 330. Trad. in francese in G. Wiet, Les Pays, Institut Français d’Archéologie Orientale, Il Cairo 1937.
[107] Cit. in G. LeStrange, Palestine Under the Moslems: A Description of Syria and the Holy Land from A.D. 650 to 1500, Watt, Londra 1890: 28. Le traduzioni dell’orientalista inglese Guy Le Strange (1854-1933) relative ai geografi islamici del Basso Medioevo sono ancora oggi una sorgente ineguagliabile di informazioni sul tema.
[108] Ibn Hawqal, Kitāb Sūrat al-’Arḍ [Il libro della configurazione della Terra], Brill, Leida 1967, trad. in francese in J.H. Kramers, G. Wiet (a cura di), Configuration de la terre, 2 v., Maisonneuve, Parigi-Beirut 1964.
[109] Di seguito uno dei tanti passaggi scritti sulla Palestina da Al-Muqaddasi (“Il Gerosolimitano”): “Il commercio dalla Palestina include olive, fichi secchi, uva passa, e il frutto della carruba, anche tessuti mischiati da cotone e seta”. LeStrange, Palestine Under the Moslems cit.: 18.
[110] al-Maqdisī, O. Livne-Kafri (a cura di), Fada‘il Bayt al-Maqdis wa-al-Khalil wa-Fada’il al-Sham [Meriti di Gerusalemme ed Hebron e meriti della Siria], Aimashreq, Shefa-‘Amr 1995. Per un’analisi della letteratura dei Faḍā’il al-Quds in rapporto all’emergenza della coscienza della Palestina come paese a sè cfr. A. Schölch, Palestine in transformation, 1856-1882, Institute for Palestine Studies, Washington 1992.
[111] al-Ramlī, Al-fatāwā al-Khayriyya li-naf al-bariyya [Risposte legali consolatorie a beneficio della Creazione], v. II, Dār al-Ma‘rifa, Il Cairo n.d.: 151-60. Scrive Haim Gerber: «Fonti poco utilizzate risalenti al XVII e XVIII secolo indicano notevoli tracce di consapevolezza legate a una coscienza territoriale che meriterebbe maggiore attenzione. […] Sebbene sia pienamente consapevole che alcuni possano obiettare che tali concetti territoriali si riferiscano semplicemente alla propria casa natìa, al luogo di nascita, una lettura attenta di [Khayr al-Din] al-Ramli suggerisce che ci fosse qualche elemento ulteriore, e che di fatto stiamo guardando a qualcosa che può essere considerato come un embrionale senso di consapevolezza territoriale, sebbene il riferimento sia a una consapevolezza sociale piuttosto che politica». Cfr. H. Gerber, “‘Palestine’ and other territorial concepts in the 17th century”, in “International Journal of Middle East Studies”, v. XXX, n. 4, nov. 1998: 563.
[112] Mujīr al-Dīn, al-Uns al-Jalil bi-tarikh, v. II, cit.: 66-73. In numerosi casi il termine “Filastīn” fu utilizzato da Mujīr al-Dīn in riferimento al presente, dunque in relazione alla fase storica in cui egli viveva.
[113] BOA I.HUS 140/43. 12 feb. 1906.
[114] Per la riproduzione della mappa si veda N. Matar, Turks, Moors, and Englishmen in the Age of Discovery, Columbia University Press, New York 1999: 134.
[115] B. Doumani, “Rediscovering Ottoman Palestine”, in “Journal of Palestine studies”, v. 21, Washington 1992: 9-10.
[116] ISA RG 160/2881-P. Moore a Elliot. Gerusalemme, 27 lug. 1872.
[117] Bodleian Library (da ora, BOL – CMJ – C. 61).
[118] N.J. Mandel, The Arabs and Zionism before World War I, University of California Press, Berkeley 1976: xx.
[119] L. Hertslet (a cura di), A complete collection of the treaties and conventions, v. V, Butterworth, Londra 1840: 548.
[120] H. Chisholm (a cura di), in “The Encyclopaedia Britannica”, v. XX, Cambridge University Press, Cambridge 1911: 600.
[121] C. Schayegh, The Middle East and the Making of the Modern World, Harvard University Press, Cambridge (Ma) 2017, cap 1.
[122] Per comprendere le ragioni alla base delle frasi del futuro fondatore dell’OLP Ahmad ash-Shuqayri (1908-1980) e di altri leader arabi, sovente citati per negare l’esistenza di una peculiare identità palestinese cfr. D. Pipes, Is Jordan Palestine?, in “Commentary”, ott. 1988. Disponibile on-line: http://www.danielpipes.org/298/is-jordan-palestine.
[123] Quattro anni prima era diffusa l’‘opzione egiziana’. L’attaccamento alla Palestina restava centrale: «Quale sarà», domandò nel suo diario Ihsan Turjman (1893-1917) in data 28 marzo 1915, «il destino della Palestina? Noi tutti vediamo due opzioni: indipendenza o annessione all’Egitto. Quest’ultima possibilità è più verosimile dal momento che solo gli inglesi posseggono [il controllo] del paese, e l’Inghilterra difficilmente darà piena sovranità alla Palestina, ma è più incline ad annetterla all’Egitto». Cfr. S. Tamari, Year of the Locust, Univ. of California Press, Berkeley 2011: 91.
[124] TNA 371/5139. Samuel a Curzon. Gerusalemme, 2 apr. 1920.
[125] A. Manna in Scham, Salem, Pogrund (a cura di), Shared Histories cit.: 54.
[126] Che la Palestina fosse una realtà ben presente anche agli occhi dei panarabisti del tempo trova conferma in un articolo pubblicato nel gennaio del 1920, con lo pseudonimo “Ibn al-Jazira” (“Figlio dell’Arabia”), sulla prima pagina di Suriyya al-Janubiyya: Palestina, oh palcoscenico dei Profeti e culla di grandi uomini; Palestina, oh sorella dei giardini del paradiso; [...] Palestina, mio paese e paese dei miei progenitori e avi”. Cit. in R. Khalidi, Palestinian Identity, Columbia University Press, New York 1997: 168.
[127] U.S. Barghūtī, K. Tutah, Tārīkh Filastīn [Una storia della Palestina], Bayt al-Maqdis, Gerusalemme 1923: 13. Il libro venne originarimente pubblicato nel 1920. Umar Sālih Barghūtī (1894-1965), convinto “ottomanista”, era un fine intellettuale educato secondo il sistema scolastico dell’Alliance Israélite Universelle. Khalīl Tutah (1886-1955) si formò dai missionari della CMS e alla Columbia University.
[128] S. S. al-Hadi, Jughrafiyyat Suriyya wa Filastīn al-Tabi’iyya [“La geografia naturale della Siria e della Palestina”], al-Ahliyaa, Il Cairo 1923. Cit. anche in Khalidi, Identità palestinese cit.: 270.
[129] K. Sakānīnī, Filastīn ba’ad al-harb al-kubra [Palestina dopo la Grande guerra], Bayt al-Maqdis, Gerusalemme 1925: 9. Le opere di Sakānīnī sono disponibili alla Hebrew University. Il Khalīl Sakānīnī Cultural Center (Ramallah) è stato semidistrutto nel 2002 nel corso di un’invasione dell’esercito israeliano iniziata a seguito di un attentato terroristico compiuto il 27 marzo dello stesso anno a Netanya.
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Lorenzo Kamel, insegna Storia Globale e Storia del Medio Oriente e del Nord Africa all’Università di Torino. Ha ottenuto incarichi di insegnamento e ricerca in numerose università in Europa, America e Medio Oriente, tra cui la Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, l’Università Ebraica di Gerusalemme, l’Università Birzeit di Ramallah, l’Università ‘Ain Shams del Cairo e l’Università di Harvard, presso cui ha afferito per quattro anni. Il suo ultimo libro si intitola History Below the Global. On and Beyond the Coloniality of Power in Historical Research (Routledge 2024).
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