di Luigi Lombardo
Nella prassi quotidiana pane e dolci sono ormai alimenti cui scarsamente attribuiamo un significato che vada al di là del semplice e scontato apporto calorico. L’uno si lega alla quotidiana esigenza di nutrirci, gli altri sembrano più attenere alla sfera dell’edoné, cui ciascuno di noi aspira quando si siede a tavola.
Il pane accompagna, il dolce chiude e nobilita un pranzo e una cena. Poca attenzione si presta ormai alle forme che il pane (i pani) e i dolci, nonostante tutto, assumono. Così ci ritroviamo a consumare una mafalda o una manuzza, chiamandole genericamente panini, mentre dall’altra parte a nessuno verrebbe in mente di pensare al cannolo in termini di impliciti risvolti sessuali.
Salvo poi a sbalordirci se a Pasqua si vedono ancora dei pani, ma soprattutto dolci, che hanno forme e significati che esulano dalla mera esigenza nutrizionale. É in questi frangenti che scatta il sospetto che c’è qualcosa d’altro che va detto circa lo statuto dei pani e dei dolci, dai più ordinari ai più complessi. In effetti non esistono pani che non abbiano una forma, come non esistono dolci che non denotino uno statuto, un corpus di gesti, comportamenti che rinviano ad altro, cioè in ultima analisi alla sfera della codificazione segnica.
Invitati a pranzo portiamo spesso dei dolci: ecco allora che il dolce diviene dono e acquista uno statuto aggiuntivo, che diviene primario. Certo, in particolare la dolceria ha preso strade proprie e si è sempre più “laicizzata”: ma basta osservare meglio le forme dei dolci più popolari di Sicilia per accorgersi che in ciascuno di essi c’è una forma che trasmette un messaggio.
Molti di questi dolci, oggi popolarissimi, erano specialità conventuali. Di questa particolare produzione ci danno una straordinaria descrizione una serie di poemetti composti tra gli inizi dell’Ottocento e la metà del secolo.
Pare che tutti derivano da un poemetto del Meli [1] avente per titolo Li cosi duci di li batii. Canzuni siciliani. In esso il Meli loda i famosi dolci dei monasteri palermitani dell’Origlione, di Santa Chiara, del Salvatore, della Martorana, di Belvedere, “di li Virgini”, la Pietà, la “Batia nova”, “Cuncisioni”, Pignatelli, S. Elisabetta, Cancilleri, Stimmati, Santa Catarina, Ripintiti, Muntivirgini, San Giulianu, Assunta, Santu Vitu, Scavuzzu, Santa Rusulia. Sembrano dolci “laici”, ma analizzati ciascuno nel contesto in cui si producevano mostrano il rapporto stretto col tempo della festa.
Tra tutti prendiamo un dolce che oggi caratterizza la dolceria siciliana: i minni di Virgini. É fin troppo chiaro il riferimento anatomico e devozionale, legato alla festa di S. Agata e al martirio della Santa cui furono strappati i seni. Tuttavia non è escluso che prendessero il nome proprio dal monastero palermitano di Montevergine che ne produceva in abbondanza nelle feste di S. Agata e per carnevale. Scrive infatti il Meli nel citato poemetto: «Di li Virgini su’ li beddi minni / quantu ccellenti su’ tutti lu sannu».
Ma è nelle feste calendariali che pani e dolci assolvono a un compito di tipo simbolico. Tra tutti spiccano i riti pasquali e le forme di pane e dolci che li accompagnano. Le cerimonie della Settimana Santa culminano col rito dell’incontro di Cristo risorto e della Madonna: una festa nella festa.
Tale rito prende il nome in genere di Scuontru, Ncuontru, ma in alcuni paesi della Sicilia sud orientale (come Canicattini) tale cerimonia è chiamata A paci, Paci. Con questo rito la comunità ribadisce i valori solidaristici, smorzando la competitività sociale. Antichi odi si placano e le “sciarre”, soprattutto familiari, si compongono.
Fino a pochi anni fa in alcuni paesi, come Chiaramonte, si confezionava per l’occasione un pane a forma di ciambella, chiamato “a paci”, consumato a tavola dalle famiglie, un tempo distribuito ai vicini di casa. In questo modo il pane da alimento di sussistenza si trasformava in messaggio, in tramite e segno. L’uso di festeggiare la Pasqua confezionando pani e dolci risponde ad un’esigenza non solo alimentare, ma comunicativa, per cui essi sono, per dirla con Cirese, “buoni da mangiare”, ma anche “buoni a comunicare”, in una dimensione rituale e cerimoniale, e in un ambito sociale e comunitario.
I pani e i dolci della Pasqua sono per la maggior parte legati alla liturgia cristiana, come il pane a forma di palma, i pani re puostili, distribuiti ai poveri, la tinagghia e a cruna ro signuri, a cruci e la scalitta, riproducenti i simboli della passione. Ma altri, divenuti col tempo doni fatti ai bambini, rinviano a significati più complessi, legati come sono a riti e feste precristiane. Tali sono senz’altro tutti i pani con l’uovo dentro, fra i quali il più comune è la “pupa cull’ovu”, o varie forme animalesche come u iaddhuzzu, u cavaddhuzzu , u puorcuspinu , a palummeddha, l’aceddu ccull’uovu , l’uovu ri pasqua con i pulcini; comunissima è la borsetta con l’uovo dentro chiamata panarieddhu. L’interpretazione di queste forme non è difficile, trattandosi di forme panciute e gravide, rinviano alla rinascita, alla fecondità.
L’uovo, che spesso racchiudono, «appartiene alle più antiche religioni mediterranee simboleggiando la cosmogonia, l’uovo garantisce la possibilità di ripetere l’atto primordiale, cioè la creazione, rappresenta un riassunto della cosmogonia» (Eliade).
Così anche le comunissime palummeddhi appartengono ad un identico fondo culturale precristiano, rappresentando esse l’uccello della primavera, segno di rinascita. Alla Pasqua ebraica rinvia chiaramente l’agnello pasquale di pasta reale, raffigurato ora sdraiato, ora seduto con la bandierina, o ancora in piedi al pascolo. Poiché, non si dimentichi, Pasqua (dall’ebraico Pesah) era la festa dei pastori a primavera, nel quale periodo nascevano gli agnellini offerti all’Essere supremo, mentre, come avviene ancora da noi, per S. Giuseppe, si facevano “coprire” gli animali per la riproduzione.
I pani e i dolci della Pasqua, carichi di significati ormai dimenticati, sono il risultato di complesse sedimentazioni culturali, mai tuttavia relitti folklorici, poiché si caricano di forti connotazioni sociali, in quanto veicoli di rapporti solidaristici e di reciproca affettività. Per Pasqua la nuora infatti regala la palummedda alla suocera, il fidanzato offriva un tempo il cuore di pasta reale, oggi preferisce l’uovo di cioccolato con la sorpresa dentro. Il consumo di tali manufatti caratterizza i pranzi di Pasqua e Pasquetta, con quell’eccesso alimentare che si lega intrinsecamente al periodico rinnovarsi della natura, con il senso di bulimìa e di attrazione erotica, che pervade le creature a primavera.
Ma il dolce per eccellenza dei ceti popolari sono senz’altro le cassateddi di ricotta, zucchero e cannella (a Palazzolo Acreide detta lumera), che si distribuiscono a parenti e amici.
Certo, assistiamo oggi ad un assopirsi progressivo di tali usi pasquali e ad una prevalenza dei dolci comuni, senza linguaggio, feriali: l’attuale livellamento del calendario alimentare, conseguenza del carattere seriale della nostra vita, da cui è stato espulso il momento festivo, ridotto ad una noiosa domenica uguale a tante altre, ha portato alla scomparsa parziale dell’uso di confezionare pani e dolci in casa e alla conseguente scomparsa di molte forme e manufatti alimentari, cui erano demandate nelle società agropastorali funzioni essenziali.
Quella improvvisa ed eccezionale abbondanza di cibo aveva, fra l’altro, la funzione di allontanare la minaccia della carestia e il senso della precarietà esistenziale quotidiana, di ricreare sul piano della fantasia un paradiso alimentare impossibile e impedito sul piano del reale. Il loro consumo rafforzava i vincoli di solidarietà comunitaria, infondendo un vigore nuovo in sintonia col vigore cosmico, con la rigenerazione vegetale e animale [2].
Il pane, dunque, come metafora del cibo «è stato e resta – scrive Alberto Maria Cirese – contemporaneamente alimento e segno, sussistenza e forma. La cosa si manifesta con prepotente evidenza quando si tratti dei prodotti cerimoniali o rituali, e cioè: quando il pane o i dolci sono modellati e confezionati in modo da servire anche (o soprattutto) a significare che è festa (o addirittura che è quella particolare festa, e non un’altra qualsiasi). In questi casi – continua Cirese – il valore di forma o la funzione di segno travalicano e quasi sopraffanno il valore di sussistenza e la funzione di alimento. E tuttavia la componente di alimento e sussistenza continua a permanere, così come la componente formale resta anche quando si esca dai prodotti cerimoniali.
Giacché una forma c’è sempre, anche quando si tratti del puro e semplice prodotto quotidiano, e cioè quando il valore di sussistenza e la funzione alimentare sono assolutamente preminenti [...] allora – conclude Cirese – schematicamente si potrebbero riconoscere tre livelli: quello che per brevità possiamo dire tecnico-materiale (per es. i tipi di impasto o di cottura o di forno ecc.); quello che convenzionalmente possiamo chiamare sociologico (la provenienza e la destinazione del prodotto pongono loro proprie esigenze formali in rapporto alla conservabilità, alla trasportabilità e simili, con particolari variazioni, ad esempio, tra pastori e contadini, oltre che , naturalmente tra ricchi e poveri); quello che potremmo dire ideologico in senso lato [...]»[3].
Per questo, e per tanto altro, il pane, in particolare nelle residue culture contadine, ma anche in contesti cittadini e non popolari, riveste un ruolo centrale nell’alimentazione e allo stesso grado una valenza sacrale che si è, oggi, solo attenuata. E certo che a chiunque è educato alla “cultura del pane” fa impressione vedere in televisione scene quale quella, vista di recente in televisione, in cui esponenti della destra xenofoba rovesciano per terra una cesta di pane e lo calpestano con odio rancoroso.
Si tratta di un gesto denso di significati, purtroppo negativi, ma che ben esprimono i tempi di oggi, in cui non solo si nega il pane, ma lo si calpesta, quasi a voler negare a quella gente, cui era destinato, il diritto alla vita.