di Luca D’Anna
Mazara del Vallo ospita, come è noto, la comunità tunisina più antica d’Italia. La peculiarità dell’insediamento dei Tunisini di Mazara all’interno del centro storico, esso stesso di matrice araba, ne fa inoltre un caso unico nel panorama europeo. Mentre altrove, infatti, gli immigrati hanno abbandonato il proprio dialetto arabo nel volgere di una o due generazioni, la comunità formatasi negli stretti vicoli della Kasbah ha permesso all’arabo di sopravvivere, a Mazara del Vallo, almeno fino alla terza generazione. Nessuna lingua e nessun dialetto, tuttavia, sopravvivono inalterati per oltre cinquant’anni, soprattutto quando si trovano a così stretto contatto con altre varietà linguistiche. Il dialetto tunisino parlato a Mazara del Vallo può essere dunque visto, e studiato, da diverse prospettive. è la lingua aspra e spigolosa dei marinai, ma anche quella dei bambini che si rincorrono per i vicoli della Kasbah e quella accorata delle donne, vere reggenti delle famiglie tunisine stabilitesi nella città del Satiro.
Il dialetto tunisino di Mazara del Vallo è, però, innanzitutto, il dialetto di Mahdia, città nata sulla costa tunisina, di fronte a Mazara, come una speranza. Mahdi significa infatti, in arabo, qualcosa come “Messia” (il significato esatto della parola è “ben guidato”, ovviamente da Dio), e la città di Mahdia fu fondata nel 914 d.C. da ʔUbayd Allāh al-Mahdī, fondatore di una dinastia di califfi sciiti (che facevano risalire la propria discendenza a Fāṭima, la figlia più giovane e più amata dal Profeta Muḥammad, e sono dunque noti come Fatimidi) che in essa videro l’alba di una nuova era. Gli stessi califfi che regnarono a lungo sulla Sicilia e che abbandonarono poi Mahdia al suo destino, lasciandola nelle mani di un vicerè, per inseguire ad Oriente il sogno di conquistare Baghdad.
Da Mahdia, città del Messia, a Baghdad, il cui nome significa “dono di Dio”. Non senza passare, e rimanervi a lungo, per un modesto accampamento in Egitto, trasformato nella caotica e fantasmagorica Il Cairo, “la dominatrice”, bagnata dal Nilo e splendente di moschee. I Fatimidi, questo il nome della dinastia che fondò Mahdia, riusciranno a conquistare Baghdad solo per brevissimo tempo e saranno infine cacciati anche dall’Egitto, senza che ciò scalfisca la grandezza del loro contributo culturale e spirituale alla storia del Mediterraneo e della Sicilia. Al di là delle innumerevoli opere artistiche e architettoniche disseminate nell’Isola e delle pagine di storia e letteratura raccolte dall’Amari nella sua monumentale Biblioteca Arabo-Sicula (1857), questo passaggio ha lasciato un’eredità più fuggevole, quel dialetto arabo siculo prima descritto da Dionisius Agius nel suo volume Siculo Arabic (1996) e ancora oggi oggetto di studio da parte di generazioni di arabisti siciliani (Mirella Cassarino e Cristina La Rosa ne sono gli ultimi – e brillanti – esempi).
Dopo l’abbandono da parte dei Fatimidi, Mahdia visse un periodo di declino ma, da città di mare qual era, accolse le diverse ondate di arabi e musulmani, ma anche ebrei (oggi diremmo profughi), in fuga (o espulsi) dalla Penisola Iberica al tempo della Reconquista dei re cattolici, culminata nel 1492 con la presa di Granada da parte di Ferdinando II e Isabella di Castiglia. Insieme agli uomini, si mescolavano anche i dialetti, portando profumo d’Andalusia nell’ormai decadente provincia africana.
Cinquecento anni dopo questi fatti, un altro spostamento di uomini porta l’arabo, ancora una volta, sulle coste siciliane. Questa lingua di straordinaria bellezza e profonda cultura, sfiorita in altri porti europei nel volgere di una o due generazioni, attecchisce invece in Sicilia, dove la Kasbah, costruita da mani arabo-berbere nel IX e X secolo, torna a risuonare di voci antiche, di quella lingua del ḍād, l’arabo, che nel corso di un millennio si è nel frattempo arricchita di mille echi diversi e arriva sotto forma dei dialetti parlati sulla costa tunisina. E qui, in questo estremo lembo d’Europa, l’arabo ricomincia un lento processo di contatto con le lingue locali, in particolare con il dialetto siciliano di Mazara del Vallo.
Anche in questo caso, ci sono mille opzioni per guardare ai modi in cui le lingue si mescolano. In questa sede ho optato per una dialettologia che potremmo definire “sentimentale” dell’arabo di Mazara, guardando al modo in cui i suoi parlanti esprimono a parole la tenerezza, ossia all’uso del diminutivo. L’arabo, lingua di straordinaria ricchezza, come già detto, non possiede alcun suffisso per il diminutivo. Si tratta, infatti, di una lingua per lo più introflessiva, dove la morfologia delle parole opera al loro interno più che alla fine. Il diminutivo di uled “bimbo”, sarà dunque uleyyed “bimbetto”.
I giovani parlanti tunisini di Mazara del Vallo, tuttavia, sono quotidianamente a contatto con il siciliano, che di diminutivi fa invece grandissimo uso (-uzzu, -eddru). Durante i molti mesi passati insieme ai ragazzi della Kasbah, dunque, ho avuto accesso a un codice, non so se e quanto noto ai più grandi, fatto di ibridi linguistici, che al nome proprio arabo fanno seguire il diminutivo siciliano: ḥamdiceddru “piccolo ḥamdī”, ṣafwāniceddru “piccolo ṣafwān”, etc. Si tratta di una forma di “giovanilese”, o lingua dei giovani, che segna l’identità di gruppo dei giovani italo-tunisini di Mazara del Vallo.
Questo fatto, di per sè molto interessante, si arricchisce di nuovi aspetti quando veniamo a sapere che già nell’arabo andaluso era avvenuto qualcosa di simile, con l’adozione (stavolta permanente) del diminutivo romanzo –el, derivante dallo stesso etimo latino del siciliano –eddru, nel dialetto arabo allora parlato. è dunque curioso pensare alla possibilità che, più di dodici secoli fa, altri ragazzi come questi abbiano dato origine quasi per scherzo ad un mutamento linguistico perenne dell’arabo d’Andalusia, per l’identica voglia di esprimere, a mezzo di un diminutivo, la stessa tenerezza.
Le parole solcano il mare. Gli Arabi dell’Andalus non presero in prestito dal volgare andaluso solo il diminutivo –el, bensì anche l’accrescitivo –on (-one in italiano, come in “mangione”, -uni in siciliano, come in “mangiuni”), insieme ad altri morfemi la cui menzione tralasceremo in questa sede. Questo tratto linguistico, sulle navi che portarono i Musulmani in salvo dalla furia dei re cattolici e dei loro inquisitori, si diffuse in tutta l’area costiera del Maghreb, arrivando fino a Mahdia, dove divenne parte integrante della parlata locale. Su altre navi, oltre cinquecento anni dopo, questo stesso tratto sbarcò infine in Sicilia, entrando a far parte dell’insieme di dialetti arabi parlati a Mazara del Vallo.
Romanzo e semitico, dunque, vengono a contatto e si mescolano a più riprese, arricchendosi non soltanto nelle parole, l’elemento linguistico che più facilmente passa da una lingua all’altra, ma nella morfologia, a testimonianza di una interazione profonda e duratura. Dei due morfemi romanzi presenti nel dialetto tunisino di Mazara, ossia –eddru e –ūn, il primo è nato proprio a Mazara del Vallo, ma rievoca un identico processo avvenuto in Andalusia un millennio prima. Il secondo, al contrario, proprio nell’Andalus è nato, ma è stato portato sulle nostre coste dalle vicissitudini della Storia. Ed è così che mio figlio, il piccolo Alessandro, divenne in un giorno d’estate Alessandro et-taḥfūn (il carinissimo) es-saġrūn (il piccolissimo) sulle labbra di una mia amica carissima, figlia di queste due sponde protese l’una verso l’altra in un abbraccio che racchiude in una sintesi mirabile ciò che i Romani intesero dire con Mare Nostrum.