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Parole in gioco e vittime sul terreno. Note sulla sacralizzazione del 7 ottobre e sull’invisibilità del massacro a Gaza

Gaza, agosto 2024

Gaza, agosto 2024

di Dario Inglese 

Premessa

Quello che sta succedendo a Gaza interessa ciascuno di noi e non può essere ignorato. Per quanto ad alcuni possa ancora apparire un problema lontano, o comunque strettamente “regionale” (mediorientale cioè) e con tenui legami con la realtà sociopolitica “occidentale” (euro-americana), il massacro cui la popolazione della Striscia è sottoposta da ormai più di dieci mesi ad opera del governo e dell’esercito israeliano interroga le nostre coscienze, scuote dal profondo i principi etici su cui organizziamo le nostre collettività e mette profondamente in discussione i tropi fondanti delle nostre democrazie: uguaglianza, libertà, pace, diritti.

Fin dove può spingersi, infatti, l’azione di uno Stato a tutela dei propri interessi nazionali? È lecito devastare un fazzoletto di terra dal quale è impossibile evadere per scovare il nemico? È legittimo uccidere decine di migliaia di civili e cancellare le tracce di una cultura millenaria (scuole, università, archivi, monumenti, siti archeologici; per non parlare di abitazioni, ospedali, infrastrutture) per esigenze strategiche? Si può rispondere a un terribile attacco terroristico con una punizione collettiva inflitta a vittime inermi? Per quanto ancora sarà possibile trascurare con cinica indifferenza la brutalità dello slogan “a Gaza non ci sono civili”?

La scrittrice Ibtisam Azem dieci anni fa ha costruito una disturbante distopia immaginando la scomparsa – una vera e propria evaporazione nel nulla – dell’intera popolazione palestinese in Israele, a Gaza e in Cisgiordania. Un evento perturbante, incredibile, inspiegabile, raccontato attraverso lo smarrimento di Ariel, un giornalista israeliano alle prese con le pagine del diario del suo migliore amico palestinese, Alaa, appena svanito chissà dove. L’autrice, in questo modo, metteva a nudo i grandi dilemmi che attraversano la società israeliana contemporanea – la complessa costruzione dell’identità nazionale, il disagio della sinistra progressista all’interno di uno spazio pubblico occupato dalla destra fondamentalista e il delicato senso della memoria di quei luoghi – portando fino al paradosso la tragica invisibilità che la questione palestinese riveste in una comunità sempre più sorda, militarizzata e indifferente.

ibtisam-azem-il-libro-della-scomparsa-1Anche oggi, nonostante stiano morendo come mosche sotto le bombe, i Palestinesi restano invisibili: le loro ragioni vengono taciute, il loro diritto alla presenza ignorato. Si fa davvero una gran fatica a non pensare che quello in corso nella Striscia di Gaza sia un deliberato tentativo di fare pulizia etnica e di portare una volta per tutte a compimento quanto avviato nel 1948. Il tutto nell’acritico assenso o nel silenzio assordante e pavido della comunità internazionale e nel bel mezzo di una sistematica opera di marginalizzazione delle voci dissonanti rispetto alla narrazione accreditata dei fatti.

L’obiettivo delle righe che seguono – voglio immediatamente precisarlo – non è dibattere sugli sviluppi della crisi a Gaza, né disquisire sulla storia delle relazioni arabo-israeliane in Palestina. Non sono uno storico di formazione, né un esperto di geopolitica; non mi interessa stabilire una volta per tutte chi ha torto e chi ha ragione, risalire a cause prime o individuare colpevoli; né è mia intenzione proporre mirabolanti soluzioni per gestire il periodo post-bellico. Non siamo al bar, qui non c’è da commentare l’esito di una finale olimpica. Ovviamente ciò non vuol dire che assumerò d’ora in avanti una postura neutrale o che rifiuterò di prendere posizione. Chi scrive ha partecipato, sia in Italia che all’estero, a decine di manifestazioni per il cessate il fuoco nella Striscia, ha più volte conversato con persone che hanno lavorato sul campo fino ai primi di ottobre 2023, ritiene che il boicottaggio delle Università israeliane sia uno strumento valido per fare pressione su Tel Aviv, da anni non acquista prodotti provenienti dai Territori Occupati, è un convinto sostenitore di uno Stato binazionale israelo-palestinese, ha paura di soluzioni etnico-religiose applicate alla politica (da qualunque parte l’idea arrivi).

In questa sede, tento di osservare, tra la nebbia di un’informazione pessima e il disinteresse di buona parte del mondo intellettuale e politico, ciò che sta succedendo; cercare nella mia cassetta degli attrezzi antropologici qualche strumento utile (scartandone altri o maneggiandoli con cura) a orientarmi; riflettere sul modo in cui si sta costruendo, almeno in Italia e in ampi settori delle società occidentali, il racconto di questa catastrofe.

Nel corso dello scritto, a punteggiare queste considerazioni, faranno capolino alcune parole chiave – “guerra”, “genocidio”, “pogrom”, “terrorismo”, “cultura” –, nella convinzione che il linguaggio dà forma al mondo in cui viviamo. Pur non analizzando nel dettaglio il lessico (curiosamente convergente) con cui il governo israeliano e i media occidentali narrano il conflitto – lo ha fatto in modo mirabile, tra gli altri, Alessandro Prato (2024) proprio su “Dialoghi Mediterranei” –, cercherò di far emergere i contorni del quadro prodotto dalle retoriche in cui siamo quotidianamente immersi: da una parte Israele, la vittima; dall’altra i Palestinesi, gli aggressori. La prima, anche quando esagera, ha “il diritto di difendersi” perché condivide i nostri valori democratici; i secondi, invece, vivendo in un atavico stato di arretratezza culturale e fornendo appoggio (diretto o indiretto) ad Hamas, il male puro, sono i soli responsabili della condizione di deprivazione e miseria in cui versano da decenni e dell’attuale furia di Tsahal. In antropologia, questo si chiama essenzialismo ed è una pratica funzionale alla costruzione di muri e al mantenimento di rapporti di forza ben precisi in un dato contesto. 

9788858155837C’era una volta… 

Il 7 ottobre (rigorosamente senza l’indicazione dell’anno) è uscito presto dall’ambito della cronaca per entrare nella sfera del mito, spazio in cui, per definizione, non ci sono dubbi, solo certezze. Il giorno in cui si è consumata la spaventosa serie di attentati di Hamas in Israele, infatti, è immediatamente diventato un simbolo indiscutibile: emblema del furore fondamentalista dei Palestinesi e causa unica dell’inevitabile, per quanto a volte esagerata, reazione militare del governo israeliano. Sganciato da qualsiasi legame storico-politico con lo spazio locale (mediorientale) e globale (colonialismo, correnti interessi euro-americani e arabi nell’area), questo vero e proprio feticcio ha immediatamente indirizzato l’opinione pubblica mondiale portando a una polarizzazione delle posizioni e al consolidamento dell’idea dello scontro di civiltà. Come l’11 settembre, altra data sacra e intoccabile della religione civile dell’Occidente di questo primo quarto di XXI secolo, infatti, il 7 ottobre non ammette domande, né perplessità: di fronte all’ultima manifestazione, in ordine di tempo, del male assoluto, si può solo agire senza esitazione o particolari scrupoli morali.

Questa visione delle cose, acriticamente accettata da leader politici, intellettuali e commentatori, oscura però una realtà ben diversa: come sostenuto anche dal Segretario Generale dell’ONU António Guterres, il 7 ottobre non è avvenuto in un vuoto pneumatico [1]  ma si è consumato in una regione altamente militarizzata, segnata cioè da un’asimmetria strutturale tra le parti in causa e da un regime di occupazione che, in buona parte, il governo israeliano porta avanti da decenni in barba al diritto internazionale. Persino a Gaza, area abbandonata dai blindati di Tel Aviv nel 2005, la presenza dell’esercito israeliano resta estremamente forte e pervasiva, dal momento che i gazawi non possono liberamente uscire dalla Striscia e, con le parole di Ilan Pappé (2022), vivono, a maggior ragione dopo la vittoria elettorale di Hamas, in un enorme «carcere di massima sicurezza».

Dimenticare tutto questo per ridurre il conflitto a uno scontro tra Civiltà e Barbarie, secondo la vulgata che vuole Israele, oasi liberale e pluralista, vivere da sempre sotto gli attacchi ferini e oscurantisti dei Palestinesi, ai quali viene oltretutto imputata la colpa di non essere mai riusciti a costruire uno Stato tutto loro, non è solo disonesto intellettualmente (e sostanzialmente lontano dalla realtà), è anche un modus operandi funzionale a coprire le responsabilità israeliane per la situazione esplosiva dell’area; a giustificare la strategia segregazionista che Tel Aviv porta avanti dal 1948 contro i Palestinesi residenti all’interno dei suoi confini riconosciuti, di quelli occupati illegalmente o nelle enclave libere in Cisgiordania e nella Striscia; a difendere, voltandosi dall’altra parte, la tremenda sproporzione con cui Israele sta oggi rispondendo all’ultimo attacco di Hamas, senza aver apparentemente raggiunto obiettivi militari tangibili [2] .

Ed è – mi si perdoni la franchezza – un insulto all’intelligenza essere ogni volta costretti a specificare che tenere in considerazione questi aspetti non significa certo giustificare l’azione di Hamas o, peggio, negare pietà ai più di mille civili israeliani trucidati il 7 ottobre, ma si configura come una postura ineludibile se si vuole cogliere perché si è arrivati alla tragedia attuale e, soprattutto, che cosa si può fare concretamente per uscire da questo vicolo cieco. Come ha scritto recentemente Enzo Traverso, ci piaccia o no, in questo contesto la violenza di Hamas è una variabile che non possiamo permetterci di ignorare. Essa, nel caso specifico, è stata del tutto velleitaria, perpetrata con lucida crudeltà per suscitare terrore tra i civili israeliani e per mostrare, sulla pelle dei civili israeliani e della Striscia, a tutti gli altri attori sociali (USA, EU, Stati arabi dell’area) che, a dispetto del disinteresse generale, la questione palestinese non è affatto risolta (Traverso 2024: 58). Non possiamo, per quanto ci faccia comodo, negarla come manifestazione di pura bestialità o di astorico integralismo religioso: «non si tratta certo di idealizzarla, ma bisogna comprenderla» (Ibidem).

La questione, s’intreccia oltretutto a temi più profondi: la liceità della lotta armata cui certi settori della società palestinese hanno fatto ricorso negli anni e la legittimità di Hamas, il movimento che ha preso il controllo della Striscia dopo una tornata elettorale controversa (riconosciuta come regolare dall’ONU ma non accettata dalla comunità internazionale) e uno scontro cruento per il potere con il partito laico al-Fatḥ. Anche in questo caso, senza giustificare nulla, è necessario mantenere un atteggiamento aperto e fare come prescriveva Clifford Geertz in etnografia: «sforzarsi di comprendere anche ciò che non possiamo accettare» (Geertz, 2000: 559).

Per quanto, dunque, l’idea di ricorrere alla violenza ci ripugni e appaia lontana dai nostri modi di pensare; per quanto il comportamento di Hamas, con la fusione di islamismo, attivismo politico e assistenzialismo, rappresenti un vero e proprio enigma epistemologico per lo sguardo occidentale, non possiamo cancellare dalle nostre analisi il contesto di riferimento. Non possiamo, cioè, disgiungere le azioni, anche quelle più dure, dei vari gruppi palestinesi dalla violenza strutturale (simbolica, burocratica e militare) su cui Israele ha edificato il suo controllo della regione con il pieno appoggio euroamericano e col progressivo silenzio/assenso del mondo arabo. In condizioni di forte deprivazione – non è certo la prima volta che accade e di sicuro (purtroppo) non sarà l’ultima – il terrorismo trova terreno fertile e diventa un’arma sfruttabile da chi si trova in una situazione di minorità. Come ha fatto recentemente notare Marco Aime (2023), d’altra parte, 

«qualcuno ricorda lo Loḥamei Ḥerut Israel (Combattenti per la Libertà d’Israele), noto anche come Banda Stern? Un’organizzazione paramilitare sionista che lottava per liberarsi degli inglesi e fondare il nuovo Stato di Israele, compiendo numerosi attentati. I suoi membri erano definiti terroristi dai britannici. Tra di loro c’era Yitzhak Shamir, che divenne poi primo ministro, riconosciuto in tutto il mondo». 

MONDO GLOBALE MONDI LOCALIParole in gioco. Vittime sul terreno

Purtroppo, la sacralizzazione del 7 ottobre è stata unanimemente accettata da gran parte dell’opinione pubblica internazionale (almeno nel mondo occidentale), per altro da sempre molto indulgente con le reiterate violazioni israeliane del diritto internazionale, e ha dato vita a una liturgia basata su un linguaggio formulare in grado di dar forma a una ben precisa immagine della realtà.

Così, mentre Israele (sostenuta dagli alleati) rifiuta sdegnata l’accusa di “genocidio” mossa dal Sud Africa e riconosciuta come plausibile dall’International Court of Justice (ICJ [3]), e mentre commentatori apparentemente sopra le parti si interrogano sull’opportunità di definire “genocidario” l’operato di Tel Aviv, non v’è però alcun problema nel ricorrere al termine “pogrom” per descrivere il massacro compiuto da Hamas. In tal modo, spostando ad arte l’attenzione sull’identità religiosa dei civili israeliani uccisi e facendo finta di non vedere che, contrariamente ai pogrom storici, le vittime del 7 ottobre 2023 non facevano parte di una minoranza perseguitata e discriminata, ma appartenevano alla comunità egemone e ben armata di un’area in cui è invece un’altra minoranza a vivere ai margini o in totale cattività, si fa confusione e si reitera l’immagine di uno scontro morale tra biechi assassini assetati di sangue e vittime perseguitate solo per la loro fede.

Con questo, ovviamente, non voglio certo sostenere che tra i Palestinesi non trovino spazio pulsioni antisemite, né intendo negare che in Hamas non circoli odio razzista antiebraico (l’antisemitismo è un cancro ancora troppo diffuso, purtroppo). Desidero piuttosto sostenere che, in un contesto segnato da una pervasiva violenza simbolica e materiale, l’antisemitismo antiebraico di certe frange della comunità palestinese è, insieme all’antisemitismo antiarabo di certe frange della società israeliana, solo uno dei problemi sul tavolo.

Non sorprende, allora, che il termine “pogrom” si accompagni sempre più spesso proprio all’accusa infamante di antisemitismo lanciata a tutti quei soggetti che cercano di svincolarsi dal discorso politico-mediatico prevalente, considerati alla stregua di fiancheggiatori del terrorismo islamico o, nel migliore dei casi, bollati come utili idioti che lo sostengono involontariamente. Anche in questo caso, la denuncia di antisemitismo rasenta il ridicolo e, offendendo in primis l’intelligenza di chi la lancia, dovrebbe essere totalmente espunta da ogni dibattito serio: persino uno sprovveduto, infatti, dovrebbe sapere che il governo israeliano, criticabile come qualsiasi esecutivo in qualsiasi parte del mondo, rappresenta solo sé stesso e non certo la religione ebraica.

appadurai-sicuri-da-morireTuttavia, per quanto sia insensato spendere tempo ed energia a rispondere a tali accuse, la questione è estremamente delicata e non può essere sottovalutata: l’antisemitismo, infatti, viene ormai tirato in ballo senza alcuna remora dal governo israeliano per colpire la credibilità di chi osa sollevare critiche ragionate al suo operato [4] ed è rilanciato da buona parte dell’intellighenzia locale e internazionale con esiti paradossali, anche dalla destra (post)fascista europea che pur non avendo fatto mai i conti con il suo passato oggi si definisce grande amica di Israele. La cosa, dunque, da potenzialmente risibile, assume contorni tremendamente seri: inquina e spegne sul nascere il dibattito pubblico, delegittima le posizioni critiche, ricorre alla censura [5], provoca l’autocensura.

Essa, inoltre, ed è forse questa la cosa più inquietante, allunga un’ombra sinistra sul prossimo futuro, dal momento che le forze politiche che reggono Tel Aviv sono impegnate da anni in un’operazione essenzializzante che mira a fare di Israele, a dispetto del suo dinamismo, uno Stato dai connotati etnico-religiosi sempre più stringenti. Una tale postura politico-messianica, evidente in molte delle attuali prese di posizione di esponenti politici di Tel Aviv [6], sembra servirsi dell’antisemitismo non solo per silenziare gli oppositori interni e disumanizzare il mondo palestinese, ma anche per rafforzare all’esterno l’idea che Israele ed ebraismo coincidano e che chiunque critichi la prima voglia deliberatamente colpire il secondo rimestando in ataviche pulsioni antisemite. Una deriva, questa, assolutamente da scongiurare e che, come ha notato Enzo Traverso (2024: 53-55), alla lunga rischia proprio di innescare odiose recrudescenze razziste.

Anche il ricorso al termine “guerra” per descrivere il massacro in corso a Gaza è evidentemente improprio e ideologico perché eleva una punizione collettiva e indiscriminata di civili al rango di un conflitto in cui due eserciti – Tsahal e Hamas – si fronteggiano regolarmente sul terreno: l’uno alla disperata ricerca di nemici introvabili, l’altro che non ha alcuna vergogna nell’usare la popolazione come “scudo umano”. In questo, pur nella specificità del contesto locale, l’interpretazione dei fatti attinge a un repertorio retorico e simbolico che conosciamo da ormai più di vent’anni: quello della Global War on Terror lanciata nel 2001 dall’amministrazione Bush dopo l’attacco alle Torri Gemelle; quello delle guerre preventive e della violazione del diritto internazionale a difesa degli interessi nazionali e della ragion di stato; quello dei conflitti asimmetrici che hanno svuotato di senso la distinzione tra target militari e civili; quello dei «bombardamenti diagnostici», come li definiva Arjun Appadurai (2005: 76), volti non solo a stanare, bensì a costruire e a conoscere il nemico – raid tanto più brutali e devastanti per persone e cose quanto più certificatori a posteriori della barbarie indistinta di chi li subisce. 

9788855199599_0_536_0_75Una parentesi teorica 

In un interessante libretto autobiografico sulla sua formazione antropologica e sulla sua mai rinnegata militanza marxista, Jean-Loup Amselle (2024) ha riflettuto con grande acume, tra le altre cose, sulle implicazioni scientifiche e politiche del lavoro etnografico e ha trattato incidentalmente questioni molto vicine a quelle qui discusse. Nella sezione centrale del testo, lo studioso francese ha infatti preso di mira la tendenza di certa antropologia critica a sfumare etnicamente i conflitti di classe e ad esaltare, in funzione anti-egemonica e anticapitalista, un’idea essenzialista di “primitivismo culturale”. Una tale linea di indagine, lontana dalla sua epistemologia continuista, ha così la tendenza a celebrare «zone antropologiche da difendere» (Ivi: 64) dal sapore neo-funzionalista: aree in cui, isolando ad arte alcuni tratti culturali, la coesione interna viene ingigantita fino a trasmettere l’immagine di comunità compatte ed omogenee da opporre romanticamente all’Occidente imperialista; «riserve indigene portatrici di valori che non siamo stati in grado di instaurare nelle nostre società» (Ibidem).

Tra le principali “zone antropologiche” contemporanee figurano i Curdi del Rojava e gli Zapatisti del Chiapas: rappresentati senza sfumature – con le loro assemblee democratiche, il ruolo preminente assegnato alle donne, le cooperative e le forme di mutuo soccorso, l’assenza dello Stato, i valori della “buona vita” e della “pachamama” –, questi spazi diventano, mi sia concessa l’espressione, figure dal sapore vagamente auerbachiano. Allegorie buone per le dispute intellettuali nelle università e nei centri del sapere euroamericani, ma fondamentalmente sganciate dal referente cui vorrebbero riferirsi, intrise come sono di proiezioni tutte occidentali sull’alterità e fondamentalmente prive di rispetto per la dimensione culturale e politica delle comunità in questione (Ivi: 64-72).

La posizione di Amselle è dichiaratamente di parte: da marxista convinto, egli non rifiuta certo la dialettica tra scienza e impegno militante, ma si schiera contro l’antropologia che dimentica la classe (e i dislivelli interni a ogni società) a favore dell’esagerazione della differenza etnica, individuando in questa linea discontinuista falle epistemologiche – scarsa profondità interpretativa – e politiche – incapacità di scorgere e favorire autentiche lotte di emancipazione. Ovviamente non è questa la sede adatta per discutere tali aspetti e se ho citato l’etnografo francese è solo per un punto della sua argomentazione: al termine del suo ragionamento, per mostrare l’inconsistenza teoretica dell’antropologia primitivista, Amselle contrappone alle suddette “zone da difendere” dei soggetti che, pur avendo tutte le carte in regola per far parte del club, sono sempre stati piuttosto trascurati: i Palestinesi di Gaza e della Cisgiordania. Per quanto inequivocabilmente indigeni, marginali e «vittime di una lenta morte a causa della politica di oppressione e spoliazione delle terre commessa nei loro confronti dallo Stato israeliano», infatti, essi sono sempre stati ben lontani dallo scaldare i cuori degli etnografi più impegnati (Ivi: 72).

Di Palestina, in effetti, si è scritto poco (anche) dal punto di vista antropologico, e comunque con una prudenza che studiose e studiosi non sempre hanno mostrato per altri oggetti di ricerca. Le cause, scrive Amselle, possono essere diverse: dalle difficoltà logistiche di fare campo a causa delle politiche repressive israeliane, al peso crescente dell’islamismo tra la popolazione, alla sfida categoriale lanciata dai Palestinesi agli occidentali progressisti che rende piuttosto complicata la loro trasformazione in un’icona dell’antropologia critica: (r)esistere politicamente all’occupazione attingendo anche al fondamentalismo religioso (Ivi: 73).

Dopo il 7 ottobre e l’avvio dell’offensiva israeliana a Gaza, però, questa invisibilità ha iniziato a sgretolarsi e la comunità scientifica, attraverso le prese di posizione di ricercatrici e ricercatori e i comunicati ufficiali delle associazioni disciplinari internazionali, ha chiesto a gran voce l’immediato cessate il fuoco e il rispetto dei diritti umani da parte di Tel Aviv. Anzi, qualcosa si era mosso pure prima: se infatti la European Association of Social Anthropology (EASA), seguita a stretto giro, tra le altre, anche dalle associazioni italiane (SIAC, SIAA e ANPIA), è intervenuta con un comunicato il 23 ottobre 2023, ad attacco israeliano iniziato, l’American Anthropological Association (AAA) si era espressa a larga maggioranza già nel luglio dello stesso anno a favore del boicottaggio delle Università israeliane, sempre più vicine agli apparati militari e in prima linea nell’amministrazione dei territori occupati. Ovviamente non sono mancati i distinguo, nonché i decisi botta e risposta con studiosi contrari alle suddette prese di posizione [7]. Il tono di queste critiche è riassumibile a grandi linee come segue: la contestualizzazione/storicizzazione del conflitto invocata dalle varie comunità antropologiche tende a tacere o a minimizzare la violenza di Hamas, vera responsabile di quest’ultima crisi; il consesso scientifico non dovrebbe occuparsi di politica schierandosi per l’una o per l’altra parte, ma dovrebbe limitarsi all’analisi culturale.

Tale dialettica ricalca i toni di un dibattito disciplinare attualmente molto sentito: quello sul potenziale euristico dell’antropologia a cavallo tra comprensione dei fenomeni e militanza attivo-trasformativa. Al centro, da una parte, c’è il tema foucaultiano dell’interconnessione tra sapere e potere, questione su cui insiste anche il comunicato di EASA; dall’altra le perplessità verso un’antropologia votata a cogliere il politico nel culturale e a smascherare le logiche di dominio e sopraffazione della nostra società in rapporto alle sue minoranze interne e alle altre comunità. In questa discussione che va avanti da un po’, ho sempre trovato molto centrate le argomentazioni di Fabio Dei (2005; 2017) a proposito del ruolo ancillare di un’antropologia totalmente appiattita su un’azione di disvelamento delle relazioni di potere, secondo la vulgata post-marxista/strutturalista attualmente in voga tra gli studiosi più engagé. Così facendo, infatti, l’antropologia ha molto da perdere perché finisce col barattare la specificità del suo contributo declassando la cultura a travestimento ideologico messo in piedi in modo fraudolento da impersonali sistemi di oppressione.

La cultura, al contrario, è più di questo. La cultura è molto importante. Ma che tipo di cultura? Se non può essere considerata come una mera patina sovrastrutturale, non può nemmeno essere vista come una realtà omogenea e compatta che determina meccanicamente atti e comportamenti dei singoli individui e delle collettività. La cultura, infatti, non è un ente oggettivo, chiuso in sé stesso e normativo, ma è un campo di relazioni organizzato su piani differenti, passibile di continui cambiamenti e alimentato da un costante rapporto tra identità e alterità, tra locale e globale. Trovare il giusto equilibrio, nell’analisi socio-antropologica, tra fattori culturali, storico-sociali e politico-economici, nella consapevolezza che tali categorie sono solo modalità tutte umane di discretizzare il continuum del reale in vista della sua comprensione, è fondamentale per un’indagine accurata e onesta.

Ora, qui non si sta certo parlando di problemi teorici di un’etnografia di un qualche istituto culturale palestinese. Come ha scritto Simona Taliani (2024), al momento i nostri bisogni di ricercatori sono insignificanti rispetto alla tragedia in corso a Gaza e quel che conta è solo il cessate il fuoco. Qui si sta parlando della lettura che si dà di questa ennesima spirale bellica; ma anche in questo caso, ciò di cui abbiamo bisogno sono griglie interpretative lontane da ogni determinismo e in grado di fare chiarezza e aiutare a diradare le nubi. Modelli che aiutino altresì a far uscire i Palestinesi, con tutte le loro idiosincrasie, dall’ombra cui fino ad ora sono stati confinati anche dal punto di vista etnografico per collocarli nella storia come soggetti attivi. La mia sensazione, infatti, è che quando si parla della situazione israelo-palestinese si attivino, consciamente o meno, certi stereotipi molto consolidati nel racconto occidentale dell’alterità: mentre gli Israeliani, ormai pienamente inseriti tra i nostri, sono soggetti evoluti che non a caso hanno fondato uno Stato democratico, i Palestinesi restano, parafrasando Giuseppe Cocchiara (1961; 2000), eternamente selvaggi, schiavi di una dimensione tribale e religiosa non ancora matura (ammesso che mai lo sarà) socialmente e politicamente.

Di contro, riconoscere questo bias non conduce alla loro idealizzazione come “zone antropologiche da difendere”, né alla loro meccanica elevazione, come fossero un esercito di replicanti in cui possiamo specchiarci, ad eroi della lotta anticoloniale. Vuol dire qualcosa di più semplice e rivoluzionario: starli finalmente a sentire, prenderli sul serio. 

9788832854824_0_536_0_75Bateson in Palestina 

Mi è capitato non poche volte, ultimamente, di imbattermi in studiosi che impiegano il modello della “schismogenesi simmetrica” di Gregory Bateson per leggere o interpretare la corrente crisi in Medio Oriente. Lo ha fatto, ad esempio, in un testo di grandissimo interesse (per quanto, a mio avviso, non pienamente condivisibile) anche l’antropologo italiano Antonello Ciccozzi (2024) sul precedente numero di “Dialoghi Mediterranei”.

I processi di schismogenesi, come è noto, si innescano quando le interazioni tra gruppi sociali o singoli individui producono, nel corso del tempo e a determinate condizioni, divisioni e fratture identitarie tra questi stessi gruppi o individui. Simili movimenti ciclici di rottura possono altresì riguardare le singole persone ed incidere, producendo dissociazione, sulla loro salute psichica. Il modello schismogenetico, dunque, ha il pregio di cogliere la natura essenzialmente dialogica delle costruzioni/scissioni identitarie (individuali e collettive) e il progressivo sviluppo della differenziazione (sociale, culturale, mentale, etc.) pur in un contesto di continue, ancorché occultate o negate dalle parti in gioco, relazioni sociali.

Per Bateson, la schismogenesi è un processo essenzialmente (auto)distruttivo che, se non viene in qualche modo fermato da un attore esterno o ritualmente (o psicologicamente) controllato dall’interno attraverso una delicata dialettica tra ethos ed eidos, conduce alla disintegrazione delle comunità o dei soggetti che si incontrano/scontrano. Serve, dunque, un deciso intervento – interno o esterno alle culture o ai soggetti di riferimento – affinché i suoi effetti non oltrepassino il punto di non ritorno. In altre parole, quando la temperatura supera una certa soglia, è necessaria l’attivazione di una sorta di termostato in grado di riportare il sistema allo stato di equilibrio.

Il concetto, che Bateson sviluppa per la prima volta nella sua innovativa etnografia sul rituale di travestimento Naven degli Iatmul della Nuova Guinea (1936; 2022) e che perfezionerà, innervato di acquisizioni cibernetiche, nei successivi studi antropologici, epistemologici e psichiatrici, si rivela estremamente utile come chiave di comprensione dei conflitti e può indubbiamente aiutare a cogliere anche l’escalation militare, che al momento appare irreversibile, in Israele/Palestina. Tuttavia, a mio avviso, va maneggiato con cautela perché, meccanicamente applicato alla realtà attuale, rischia di nascondere ai nostri occhi molte più cose di quanto al contrario ne rilevi.

Un riuscito impiego di modello schismogenetico si trova in Marshall Sahlins (2023) e riguarda le intricate vicende che produssero la proverbiale rivalità ideologica, politica ed economica tra Ateniesi e Spartani nella Grecia del V secolo a.C. Attraverso l’analisi del progressivo gioco di azioni e retroazioni messo in atto dai diversi attori sociali dell’epoca (oltre ad Atene e Sparta, le altre città elleniche e il potentissimo impero persiano con i suoi interessi in Asia Minore e nell’Egeo), l’antropologo americano ha mostrato in modo convincente le tappe che condussero alla radicale divaricazione tra la polis attica e quella lacedemone evidenziando, per entrambe, l’attivazione di motivazioni culturali funzionali a una giustificazione a posteriori dell’azione schismogenetica. Così facendo, Sahlins ha cercato di superare quelle visioni antropologiche che vincolano l’indagine culturale all’individuazione di più autentiche strutture politiche ed economiche e ha proposto uno schema che, al contrario, riesce a tenere insieme tutti questi aspetti in vista di una comprensione profonda di determinati fenomeni sociali.

81bvjaqyf6l-_ac_uf10001000_ql80_Ovviamente, il compito dell’antropologo americano è stato facilitato dalla sua posizione di osservatore distaccato rispetto a un oggetto di studio molto lontano nel tempo. Al contrario, l’analista che intende applicare il modello schismogenetico al qui e ora israelo-palestinese, ovvero a una realtà in costante mutamento e non ancora consegnata alla storia, si imbarca in una impresa decisamente più delicata che richiede la considerazione di tutti gli elementi in gioco se non vuole costruire un sistema autoevidente, dominato (o comunque segnato) da un determinismo culturale tanto sospetto quanto quello politico-economico. Il pericolo, infatti, è duplice: a) ritrovarsi alle prese con una struttura diadica chiusa che, una volta attivatasi la spirale schismogenetica, diventa impermeabile all’esterno e si autoalimenta fino alla dissipazione: b) legare la tendenza (auto)distruttiva (solo) a cause endogene e, in caso di assenza di freni interni, gli eventuali interventi equilibratori (solo) a soggetti esterni [8].

Ciccozzi rischia di cadere in una trappola simile quando, volendo criticare il monismo interpretativo di certa sinistra anticolonialista filopalestinese (Ciccozzi, 2024: 189-193), quella che sta dalla parte degli oppressi (i Palestinesi) contro gli oppressori (gli Israeliani), finisce col ridurre, nonostante la sua prudenza, lo scontro tra Israele e Hamas essenzialmente a cause culturali, ovvero alla battaglia tra due universi simbolici che rivendicano il possesso del territorio su base etnico-religiosa (Ivi: 197).

Così facendo, a mio avviso, egli minimizza questioni enormi, impossibili da tener fuori dal quadro: l’intricato intreccio storico-politico di quella porzione di mondo; la dialettica tra locale e globale che interessa l’area e che ha reso disponibile un repertorio simbolico-pratico non necessariamente autoctono (l’etnonazionalismo, l’antisemitismo, il terrorismo, la retorica umanitaria, etc.); la conclamata illegalità delle politiche di occupazione israeliane, certificata dall’ONU e non solo denunciata dai frequentatori dei centri sociali; l’impossibilità di appiattire tutti i Palestinesi sulle posizioni di Hamas (esattamente come non tutti gli Israeliani sono espressione del loro governo); il riconoscimento che il problema della relazione tra Israeliani e Palestinesi, se così lo si può chiamare, non è rappresentato solo dall’anomalia chiamata Gaza (ammesso che anche a Gaza tutti la pensino allo stesso modo), ma dalla generalizzata segregazione/discriminazione che la popolazione palestinese sperimenta anche fuori dal recinto gazawo.

Porre sullo stesso piano il fondamentalismo israeliano e quello palestinese è un’operazione che a mio avviso funziona benissimo in astratto, un po’ meno quando viene messa a terra. Una tale rappresentazione, infatti, finisce col produrre due movimenti: a) reitera l’immagine dello scontro tra mondi incompatibili e tra i due prende indirettamente le parti di chi è pienamente inserito nel consesso occidentale, Israele, mentre guarda con sospetto al mondo palestinese che dissimula abilmente i suoi disegni di islamismo globale dietro la bandiera anticoloniale – non a caso, l’autore chiede ai Palestinesi e ai loro sostenitori all’estero di sconfessare Hamas prima di pretendere il cessate il fuoco (Ivi: 199), ma non invita con la stessa enfasi gli Israeliani a smarcarsi dal loro governo o dal sionismo più aggressivo; b) produce un equilibrismo linguistico abbastanza spericolato (Ivi: 199-201) quando, avanzando dubbi sull’opportunità di definire genocidario l’operato di Tel Aviv (posizione legittima, beninteso), affianca l’eventuale genocidio perpetrato da Israele a un latente “genocidio in potenza” che Hamas, se potesse, compirebbe senza alcuno scrupolo (cosa tutta da dimostrare e asserita sulla base dello statuto originario dell’organizzazione e delle dichiarazioni di certi suoi aderenti – ma, allora, mi chiedo: perché non fare altrettanto con i programmi del partito attualmente maggioritario in Israele, salito al potere la prima volta nel ’77 con la dichiarata ambizione di prendere definitivamente Cisgiordania e Gaza, e con le uscite di molti ministri dell’attuale esecutivo israeliano?). 

81zdfgqpgolConclusioni? 

Mentre scrivo, oltre alle quarantamila vittime stimate nella Striscia [9], a un sistema sanitario al collasso e al primo caso di poliomielite tra la popolazione di Gaza da venticinque anni [10], giungono le notizie di un assalto di un centinaio di coloni israeliani al villaggio palestinese di Jit, a ovest di Nablus, culminato con un morto e il rogo di svariate abitazioni. Dal 7 ottobre diciannove comunità palestinesi sono state costrette a lasciare le loro terre a causa delle aggressioni perpetrate dai coloni in Cisgiordania – si tratta, secondo le stime dell’Autorità Palestinese, del più grande sfollamento nell’area dal 1967 – e più di 620 palestinesi sono stati uccisi (mentre oltre cinquemila sono stati feriti) in raid di questo tipo, come riportato dall’Ufficio per gli affari umanitari dell’Onu (OCHA) [11].

Oggi ci troviamo di fronte a una escalation di cieca violenza che eccede la relazione schismogenetica tra Israele e Hamas e che, dopo le uccisioni mirate di esponenti di Hamas in Libano e in Iran, rischia soprattutto di tracimare dai confini israeliani e gazawi all’intero Medio Oriente (e non solo). Non si tratta – come mi auguro di aver mostrato – di un’emergenza esplosa con gli attacchi del 7 ottobre, bensì di una condizione strutturale dovuta in primis alla relazione asimmetrica che i governi israeliani, sostenuti dalla comunità internazionale, hanno intrattenuto con la popolazione palestinese a partire dal 1948.

Che ci siano, come evidenzia opportunamente Ciccozzi, dei pattern culturali da dover indagare in questa ultima crisi è innegabile, ma questi schemi si attivano tatticamente all’interno di un crocevia di suggestioni locali e globali e sono incistati dialetticamente in una matassa di storia e politica dalla quale non possono essere avulsi (e viceversa). L’importante, insomma, è che la “cultura” osservata non diventi, come ammoniva Ugo Fabietti (2004), uno pseudo-concetto utile a rafforzare posizioni già consolidate: un rovesciamento parodico-culturalista di quell’antropologia in salsa foucaultiano-militante volta a scovare le vere cause politico-economiche dei fenomeni sociali; una mossa che, in questa tragica congiuntura, legittima una lettura destoricizzante dell’attuale crisi e la normalizzazione di un massacro di proporzioni spaventose che, qualunque cosa possano aver compiuto gli oppositori di Israele, resta al di là di ogni logica e giustificazione.

Se c’è una cosa che l’azione di Tsahal degli ultimi mesi ha involontariamente portato all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, sebbene non tutti vogliano davvero osservarla da vicino, questa è la natura coloniale del controllo imposto da Israele alla regione – una forma sempre più coincidente con l’esperienza del colonialismo storico europeo, che mentre promuoveva libertà e diritti per i suoi legittimi cittadini all’interno dei propri confini, perpetrava un implacabile regime di occupazione e apartheid oltremare. Contrariamente alla narrazione più in voga, non è l’esistenza di Israele ad essere minacciata, ma la presenza stessa dei Palestinesi.

Riprendendo le considerazioni recentemente espresse da Mauro Van Aken, allora, «qui non si tratta di dire chi ha ragione tra due litiganti, si tratta di fermare la pazzia totale perché dietro l’attacco a Gaza […] non ci sono progetti di futuro se non quello di disumanizzazione continua [12]». Si tratta, cioè, di fermare ciò che al momento la comunità internazionale e la parte sana di un’opinione pubblica israeliana sempre più radicalizzata, e sempre più spaventata (e dunque sempre più spinta a radicalizzarsi), possono concretamente fermare, se solo volessero: i bombardamenti nella Striscia e il massacro di civili, la segregazione e la criminalizzazione dei Palestinesi nei territori occupati e nelle loro enclave, l’espansionismo insediativo dei coloni avallato direttamente o tacitamente dal governo israeliano. E non certo, è appena il caso di specificarlo, come ritorsione contro Israele, ma con l’obiettivo di creare le condizioni per un percorso che dia davvero voce anche ai Palestinesi e che non si trinceri dietro vuoti appelli al dialogo senza una seria analisi degli errori e delle ingiustizie fin qui perpetrati. Per arrivare alla pace occorre che tutte le parti in causa rinuncino a qualcosa, ma è altresì necessario estirpare le condizioni che fin qui hanno prodotto disuguaglianza, risentimento e paura per evitare che possano ripetersi in futuro.

Fatto ciò, la domanda immediatamente successiva non potrebbe che essere: con quali Palestinesi interloquire? Quelli di un’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) nuovamente credibile? Quelli di al-Fatḥ con la sua ideologia laica e progressista sfibrata da decenni di stallo e politiche fallimentari? Quelli di Hamas con il mix di resistenza anticoloniale e islamismo che suscita terrore e panico in Occidente e che, comunque la si pensi, non può non preoccupare ogni vero democratico? Quelli dei tanti leader politici e dei tanti intellettuali imprigionati da anni, insieme a migliaia di persone comuni, nelle carceri israeliane? Rispondere a questi interrogativi è ovviamente impossibile allo stato attuale, ma un punto fermo c’è: la società civile palestinese deve essere messa nelle condizioni di poter parlare ed esprimersi, pena l’impossibilità di scorgere una vera via d’uscita.

Nel frattempo, compito di chi fa ricerca dovrà essere quello di approntare griglie interpretative profonde e sottili, utili non solo a scovare connessioni, ma anche a non avallare direttamente o indirettamente visioni del mondo frammentarie e sorde le une alle altre. Clifford Geertz, autore non certo sospettabile di simpatie rivoluzionarie, l’aveva scritto con grande chiarezza: «forse non è possibile riportare l’equilibrio nel mondo con il solo pensiero […] ma mettere le cose in ordine, o comunque più in ordine, può aiutare a impedire che accada il peggio» (Geertz 1999: 9).

E il peggio sta accadendo. Di nuovo. Adesso. Proprio sotto i nostri occhi. 

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024 
Note
[1] https://www.rainews.it/articoli/2023/10/scontro–allonu-guterres-attacchi-di-hamas-non-nascono-dal-nulla-israele-si-dimetta-8b5582e8-ca66-4949-8911-2f25fa6a3d43.html
[2] È curioso osservare come, nonostante le migliaia di vittime nella Striscia, i soli veri leader di Hamas siano stati scovati e uccisi da Israele a Beirut e a Teheran attraverso mirate azioni di intelligence.
[3] https://unric.org/it/corte-internazionale-di-giustizia-la-denuncia-del-sudafrica-contro-israele-per-genocidio-a-gaza/
[4] Ne è stato vittima, a causa delle dichiarazioni sopra riportate e di una visita al valico di Rafah prima dell’attacco nell’area, anche Guterres, accusato dal Ministro degli Esteri di Tel Aviv di aver portato le Nazioni Unite su posizioni antisemite e antisraeliane: https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2024/03/23/israele-con-guterres-lonu-e-antisemita-e-anti-israeliana_f62e5304-f908-42c7-a3c4-8124d1063244.html
[5] Ha fatto scalpore, tra gli altri, il caso della filosofa americana Nancy Fraser, che si è vista annullare un ciclo di conferenze programmate a Berlino per il suo sostegno alla causa palestinese e la sua condanna dell’azione israeliana a Gaza. In antropologia, invece, si segnala il licenziamento di Ghassan Hage dal Max Plack Institute di Berlino per motivazioni analoghe.
[6] https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2024/01/28/israele-12-ministri-a-conferenza-su-colonizzazione-gaza_a6c39d00-453d-4348-a8db-81f19a082842.html
[7] Per una interessante sintesi del dibattito tuttora in corso, rinvio al dossier Antropologia, diritto internazionale e dibattito pubblico sul ‘possibile’ genocidio in Palestina redatto da ANPIA nel febbraio 2024 e consultabile al seguente indirizzo: https://www.rifestival.it/wp-content/uploads/2024/03/dossier-ultimo-17-feb-24-marzo.pdf
[8] Va segnalato che Bateson era perfettamente conscio che la schismogenesi non è un processo necessario e che non può essere ridotta a una dinamica tutta interna alle culture. Egli stesso, lavorando per l’OSS durante e dopo la Seconda guerra mondiale, ebbe modo di mettere alla prova i suoi modelli in controversi esperimenti di antropologia applicata a fini di intelligence nel sud-est asiatico. Qui si distinse per la promozione di azioni di “black propaganda”, ovvero per la diffusione di messaggi contraddittori creati ad arte per attivare “doppi vincoli” e seminare il caos presso i nemici imitandone codici comunicativi e pattern culturali (Price, 1998). 
[9] https://www.aljazeera.com/news/2024/8/15/israel-kills-more-than-40000-palestinians-in-gaza-16456-of-them-children
[10] https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2024/08/16/a-gaza-primo-caso-di-poliomielite-dopo-25-anni_0e131a63-e392-4715-a188-7fe2044ebaf0.html
[11] https://ilmanifesto.it/pogrom-dei-coloni-a-jit-case-e-auto-in-fiamme-un-palestinese-ucciso
[12] https://metronews.it/2024/05/21/dalle-universita-antropolog%C9%99-per-la-palestina-van-aken-decolonizzare-i-saperi/  
Riferimenti bibliografici
Aime M., 2023, Il feroce scontro tra Hamas e Israele riconferma i terribili danni del nazionalismo, in “Il Fatto Quotidiano”, 23 ottobre 2023. 
Amselle J. L., 2024, A ciascuno il suo Marx. Le disavventure della dialettica, Meltemi, Roma. 
Appadurai A., 2005, Sicuri da morire. La violenza nell’epoca della globalizzazione, Meltemi, Roma. 
Azem Ibtizam, 2021, Il libro della scomparsa, hopefulmonster editore, Torino. 
Bateson G., 2022, Naven. Un rituale di travestimento in Nuova Guinea, Raffaello Cortina Editore, Milano; ed. or. 1936. 
Ciccozzi A., 2024, Narrative del conflitto e conflitto di narrative intorno al pogrom di Hamas e al massacro di Gaza, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 68: 187-202. 
Cocchiara G., 2000, L’eterno selvaggio, Sellerio, Palermo; ed. or. 1961. 
Dei F., 2005, Antropologia e genocidio, in Pasquinelli C. (a cura di), Occidentalismi, Carocci, Roma: 185-204 
Dei F., 2017, Di Stato si muore? Per una critica dell’antropologia critica, in Dei F., Di Pasquale C. (a cura di), Stato, violenza, libertà. La «critica del potere» e l’antropologia contemporanea, Donzelli Editore, Roma: 9-49. 
Fabietti U., 2004, Da idoli della tribù a idolo del foro: riflessioni sul concetto di cultura, in “Achab”, n. III: 9-13. 
Geertz C., 1999, Mondi locali mondi globali, Il Mulino, Bologna. 
Geertz C. 2000, Gli usi della diversità, in Borofsky R. (a cura di), 2000, L’antropologia culturale oggi, Meltemi, Roma: 546-560. 
Pappé I., 2022, La prigione più grande del mondo, Fazi Editore, Roma. 
Prato A., 2024, Una pagina nera del giornalismo italiano: il caso emblematico di Gaza, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 68: 208-218. 
Price D., 1998, Gregory Bateson and the OSS: World War II and Bateson’s Assessment of Applied Anthropology, in “Human Organization”, vol. 57, n. 4: 379-384. 
Sahlins M., 2023, Nonostante Tucidide. La storia come cultura, Milano, Eleuthera. 
Taliani S., 2024, All’ombra del laboratorio perfetto. Avanguardie antropologiche nel panorama italiano, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 68: 225-234. 
Traverso E., 2024, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, Bari-Roma.
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Dario Inglese, ha conseguito la laurea triennale in Beni Demo-etnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e la laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Si è occupato di folklore siciliano, cultura materiale e cicli festivi. A Milano, dove insegna in un istituto superiore, si è interessato di antropologia delle migrazioni e ha discusso una tesi sull’esperimento di etnografia bellica Human Terrain System. Ha recentemente pubblicato presso le Edizioni del Museo Pasqualino nella collana “Dialoghi” il volume Antropologia a tutto campo. Discorsi sulla contemporaneità.

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