L’anima avivi accussì chiara e aperta/ ma ju ci nun potti mai tràsiri dintra./ Circai n’accurzatura,/ li trazzeri,/ li passi di muntagna stritti e difficili./ Sulu pi strati larghi si juncìa/ a la to anima./ Mi priparai na scala,/ àuta, pirchì pinzava a mura àuti,/ chi tu avivi a vardiani di l’anima./ Ma la to anima era senza difisi,/ senza mura e senza sticcati./ Circai la porta stritta pi putìrici tràsiri,/ ma nun avìa porta la to anima,/ tantu era libira./ Unni principiava? E unni finìa?/ Arristai pi sempri assittatu fora,/ davanti a la curuna di luci di la to anima.
Abbiamo scelto di aprire questo essenziale excursus sulla silloge di Bia Cusumano Come la Voce al Canto (Edizioni Il filo di Arianna, La Spezia 2021) con l’adattamento in siciliano di un testo di Pedro Salinas, dal titolo L’anima avevi, perché è nostro avviso che, oltre e più che a una silloge d’amore (di malamore), ci troviamo di fronte, in queste circa cento pagine, al trasalimento di un’anima, al fiotto di sangue sgorgato da un cuore, a una laica catartica confessione.
E dunque, a meno che noi (ma non siamo propensi a crederlo), come per il protagonista del testo di Salinas appena letto, non si voglia rimanere fuori a osservarne solo i contorni sfumati, l’odierno nostro incontro con Bia Cusumano, con la sua scrittura, con la sua anima non è cosa di poco conto! Esso viene infatti a costituire l’ulteriore inderogabile tassello di un più complesso processo, quello ovvero (dopo l’autrice essersi “sgravata” dell’opera con la pubblicazione) del giro di boa, della consegna, del passaggio di testimone da lei a noi; una fase che ci investe direttamente, che ci chiama in causa profondamente, che ci addossa una responsabilità immane, perché lei così ci si affida, ci affida non – come a considerare distrattamente potrebbe parere – un libro, una risma dei fogli di carta magari pure ben stampati, ma tutta se stessa, ci promuove a suoi confidenti, ad ascoltatori e lettori privilegiati e attivi, si appella a noi a viso aperto affinché, oltre a esserne custodi, con la nostra compartecipazione, la nostra dedizione, il nostro pieno coinvolgimento emotivo e sensoriale, noi si completi e si perfezioni il processo da lei a suo tempo iniziato.
La veste certo, la forma è quella lirica, quella tipica del componimento in versi, ma la nostra tesi, la proposizione esposta in esordio di questo elaborato, non paia velleitaria! Essa trova adeguati riscontri e sostegno giusto in una citazione, mutuata da Carl Gustav Jung e altrove riportata dalla stessa Bia Cusumano, che recita: «Chi obbedisce alla sua anima può fare a meno delle ingiurie come delle lodi» ed è implicita nelle pieghe di tutta la raccolta, la quale altro non appare essere se non la ascesa alla luce dopo il descensus ad inferos, la faticosa conquista della consapevolezza di sé, il dono di tutta se stessa al lettore; beninteso al lettore avvertito, a colui che, mercé le parole che lei ha impresso su quelle facciate, abbia la capacità, l’acume, la raffinatezza di rinvenire la chiave di accesso alla poesia e perciò alla sua visione del mondo, alla sfera più intima, più recondita di lei e dunque alla sua anima.
L’amore, d’altra parte, è qui dappertutto, è pervasivo sin dalla ulteriore citazione, che in toto la pertiene e di sicuro non scelta e posta lì a caso, da Gabriele D’Annunzio premessa ai testi: “Io ho quel che ho donato / perché nella vita / ho sempre amato.
Una terza citazione, che sa di dedica e che l’autrice ha voluto incidere sul frontone della porta di ingresso del suo volume, riporta: “A Te che mi hai ricondotto / a me stessa / come la Voce al Canto”. Ecco, quest’ultima ci induce a un paio, anzi a una terna di considerazioni. La prima: “mi hai ricondotto / a me stessa”. Non vi sembra di scorgere, di cogliere in questi due scarni versi il senso di un ritorno, la circostanza di un ricongiungimento, la sopraggiunta urgenza di rincollarsi a se stessa dopo essersene, per le vie tortuose e travagliate della vita, allontanata e da lì il preludio a un nuovo capitolo dell’esistenza?
La seconda: già nel titolo dell’opera, qui nella citazione e in seguito di sovente nel corpo dei testi, utilizzando un canone non in uso nella lingua italiana ma prassi in quella tedesca e ovviamente con finalità differenti (qui per dare rilievo, enfasi a quello specifico termine e alla sua valenza nell’ambito nel quale esso si colloca; lì perché è norma che a tutti i sostantivi si attribuisca quella prerogativa), la nostra autrice scrive in maiuscolo il carattere iniziale di taluni termini. Ne sono esempi fra gli altri: Luce, Bellezza, Dolore, Verità, Madre, Neve, Amore, Destino, Lava, Cielo, Tempo, Passione, Attesa, Desiderio, Benedizione, Mondo, Natura, Morte, Distanza, Perdono. Appurata l’assenza di Armonia (tuttavia presente in minuscolo e d’altronde come avrebbe potuto essa regnare in quel contesto?), abbiamo pertanto motivo di ritenere che essi siano termini “sensibili” per lei, di particolare rilevanza, chiavi di un pensiero denso, e che a lei prema che nei riguardi degli stessi noi si ponga speciale attenzione. L’autrice afferma così, come fossero faraglioni neri in un mare d’azzurro, con il “corpo”, con il ricorso alla maiuscola dei termini dei quali si avvale, i concetti che in essi si stagliano, il pensiero che vi si snoda, il sentimento che vi emerge, l’emozione che si fa quasi masticabile in bocca e tra i denti del lettore.
La terza: “A Te”. Te… è la poesia, è l’autrice stessa che appunto si è ritrovata, è la vita che torna a rifiorire? “Ovunque voglio esserti”. Solo tre parole, come nella ben nota canzone (ma, lì, esse sono le più accordanti: sole, cuore, amore). Passiamole in rassegna una per una.
Voglio! Prorompe in modo risoluto, con un netto pronunciamento di volontà, con un imperativo la silloge di Bia Cusumano! “Voglio” non ha lo stesso peso di “desidero” o di “gradisco” o di “agogno”. “Voglio” è “pretendo”, “esigo”, “comando”; il tono, la pronuncia includono piglio, esprimono volontà ferma, non ammettono frapposizioni, ostacoli, tergiversazioni! Non credete allora che in esso, in quel “voglio”, si possa ravvisare l’odierna inconfutabile tempra della nostra autrice, insista l’indole di chi ha surclassato le vicissitudini che fuor di dubbio ne hanno segnato l’esistenza?
“Ovunque voglio esserti”; “Ovunque voglio restarti”. “Ovunque darmi e dirti”. Ovunque è palesemente anafora, verosimilmente la forma retorica fra quelle righe più diffusa (a qualche incollatura si piazza la similitudine). Ne sono altri esempi ai quali vi rimandiamo: “Torni da me” in Assoluzione; “Ancora”, in Sottopelle; “Restare” in Come la voce al canto; “Benedico” in Passione; “Nessuno” in Condanna; “Dirsi tutto” in Dirsi tutto; “Restiamo qui” in Restiamo qui; “Lasceremo che sia” in Infinita Bellezza; “Non dire” in La posa degli amanti… eccetera. Fra le similitudini, decisamente inconsueta “come le fibre ai tendini”, ma in seguito, nel testo titolato Calvario, in un solo spietato lemma se ne potrà scoprire la derivazione, ci sarà rivelato il perché delle “fibre rotte del mio corpo”, la fonte e la ragione dell’immagine “bombe nelle ossa”.
“Esserti” infine e, in prosieguo nello sviluppo del medesimo testo, “restarti, dirti, tacerti, pregarti”, sono verbi che chiaramente sottendono un tu di riferimento, alludono a un soggetto altro da sé, comprendono l’inequivoco collegamento a un partner. Ma non è necessario che noi lo si individui, lo si identifichi! Ci basti sapere che c’è… stato. D’altronde in tutto il libro non se ne fa il nome.
Le parole, asserisce Bia Cusumano, sono “fragili creature alate”. Questa felice enunciazione, questa inusitata locuzione, questa celeste figurazione, come poc’anzi per “Ovunque voglio esserti” solo tre lemmi, è superba! Non che siano difettati, dacché l’umanità l’ha avuta in dono, i singolari accostamenti, tutt’altro! Tant’è che essa è stata di volta in volta articolata in: buona parola, giochi di parole, parola d’onore, parole povere, mezza parola, parola d’ordine, storpiare le parole, sante parole, pesare le parole, parole in libertà, mancare di parola e in mille altri costrutti; ma la formulazione lirica schierata da Bia Cusumano è parimenti meritevole di essere vagliata.
Posti alla base “parola”, voce tardo latina che significa parabola, discorso, e “creatura”, da creare, e posta al vertice “poesia”, i tre termini (daccapo, come già in precedenza, la reiterazione di tre lemmi), in apparenza lontanissimi fra loro, in verità si attagliano l’un l‘altro, si riverberano, sono parenti stretti ben più di quanto si possa congetturare. A fondamento della comunicazione verbale umana e, per quanto più da vicino ci attiene, a fondamento della poesia, che fra le comunicazioni umane è forma fra le più elette, insiste da che mondo è mondo la parola. E “poesia” che (Stephane Mallarmé docet) di parole si nutre, è sostantivo di derivazione dal verbo greco poiein, il cui significato, quello di fare, creare, è giustappunto correlato all’abilità del poeta, alle sue doti di facitore, di costruttore, di creatore di parole.
“Alate”, dotate quindi di ali. “La poesia – osservò Michelangelo Buonarroti – è l’ala che Dio ci ha dato per salire sino a lui”. La creazione/poesia, così, avvicina la creatura/poeta al suo Creatore, gli restituisce un po’ della somiglianza del suo Creatore! Che altro più può pretendere l’uomo!
“Fragili”? “Ne uccide più la parola che la spada”! Ci siamo permessi di sostituire il termine “penna” con “parola”; ma il concetto quello rimane! Le parole (lo sappiamo bene) possono avere un peso e degli effetti devastanti sugli altri. “Fragili”?
Alla domanda che cos’è la poesia, Stephane Mallarmé rispose: «Magia». E aggiunse: «Il poeta è un sacerdote di riti misteriosi»; «Compito del poeta – sostenne Franco Fortini – è di trasformare in coscienza la più gran parte possibile di esperienza»; «Qualsiasi cosa – assevera Donatella Bisutti – può diventare argomento di poesia» e soggiunge: «Non dire ‘io’, ma fare parlare le cose». Dando per scontato che di poesia qui si sta trattando, assodato che nel caso in esame non ci sfiora nemmeno l’ombra del dubbio circa la simbiosi fra l’esperienza e la coscienza, tanto è lampante, in relazione agli assunti appena esposti qual è la direttiva principale della poesia di Bia Cusumano ci chiediamo. In quali cose essa si invera? E c’è la mallarmiana magia? Ebbene, per dirla con una sola parola che possa un po’ afferire a tutti e tre i quesiti, la risposta affatto celata, affatto mistificata, affatto soffocata la si può riassumere nel… Dolore (dolore che, come detto sopra, lei scrive con la “d” maiuscola).
Ma, correggendo un po’ il tiro e ampliando lo spettro di interpretazione, potremmo meglio affermare che la sofferenza sia l’alveo maestro del suo fare poesia. Perché il dolore lo si intende perlopiù come uno stadio acuto ma tutto sommato passeggero della patologia, lo stadio al quale in qualche modo, in un lasso di tempo comunque tollerabile si può porre rimedio; la sofferenza viceversa, almeno in tal guisa in questa nostra occorrenza la si deve intendere, ne è (diremmo oggi) la variante consolidata, è la patologia che si prolunga, che si radica, che si cementa, che si impadronisce di noi sino a divenire nostro amaro pane quotidiano.
E, si badi bene, non il dolore e la sofferenza per sentiti dire, non il dolore e la sofferenza altrui magari ben confezionati e riferiti, pure affettivamente e sinceramente condivisi, non il dolore e la sofferenza nella loro plurale astrattezza ma il dolore e la sofferenza sperimentati in prima persona, vissuti nella realtà sulla propria pelle, subiti in dose massiccia nelle due loro macro-aree: quella fisica più evidente: “rami / secchi… le mie ossa”, “notte e giorno… le vene e le ossa sdrucite”, “il Dolore… urla da ogni / grammo d’anima”; e quella psicologica più carsica, subdola, aggregato di mortificazioni, denigrazioni, insulti, minacce.
E l’amore? Non ci viene in questi frangenti l’amore in soccorso, non lenisce le nostre pene, non ci unge col suo balsamo salvifico? Vediamo! “Amarti fu darti in pasto / la mia anima”; “L’Amore / è calvario senza salvezza. / È sostare ai margini / della vita. Mai dentro. Mai fuori”; “L’Amore non è risposta. / È Massacro e Cura”. “Mi hai reso / donna di due vite” è inoltre dichiarazione che la dice lunga!
A riesumare peraltro l’eterno Odi et amo di catulliana memoria, i sentimenti potenti e opposti che albergano allo stesso tempo nell’individuo e di conseguenza la terribile sofferenza che lo dilania, a certificarne l’andamento talora zigzagante, non di rado lo spezzettamento, il ciclico non infrequente ritorno, giacché “il cuore [pur] livido / di dolore batte sepolto / tra le sue macerie”, ecco: “la tua voce è l’unico posto / che amo al mondo”; “l’Amore è strappo e ferita. / Luce e sangue”; “l’Amore disobbedisce / alla morte”. Un amore, di sensi e di carne, senza riserve, totalizzante: “accucciata tocco / i lembi del tuo odore. La tua pelle è il mio altare”; “baci / di cui non tenere il conto / [e] ci scorderemo di invecchiare”; “senza il tuo corpo mi sfibro, / mi consumo, / avvizzisco, muoio”.
Un amore controverso, tribolato, che fa male, che, in contrasto con la ragione e con l’evidenza dei fatti, malgrado le “promesse infrante”, “le cicatrici infette / della Distanza”, la fine conclamata dalla constatazione che “del futuro che fummo / resta un sogno”, la sua definitiva mutazione in un “lago di Non Amore”; malgrado ormai si sia ridotto a “parola distratta… sguardo fuggitivo…. bacio insapore… lieve morire ad occhi aperti… non più lo stesso passo… [non più] lo stesso sonno… [non più] lo stesso sogno”; malgrado il silenzio calato, “l’ultimo linguaggio / degli amanti”, e lui, il nostro soggetto non identificato, appaia già “sfocato… nel riflesso di un’altra”; malgrado “si [sia] sciolto il nodo. / Si [sia] pagato il conto. / Si [sia] svelato l’inganno”, l’amore non vuole mollare, non vuole piegarsi, vuole restare. Restare contro ogni logica, contro ogni assennatezza, contro ogni sano egoistico istinto di conservazione: “Restare è il solo verbo che voglio / coniugare”. Un percorso, e quello in causa non vi fa eccezione, tragicamente canonico! Da “Amore Divina Visione”, “Amore che commosse il cielo”, “Amore che capovolge il mondo” si è passati ad “Amore… treno desolato”, “Amore / senso di questo inferno”, “Amore… lama sottile [che] affonda”. In mezzo, il logorante tira e molla, l’inquietante altalena fra gli opposti, “Torni da me. / Senza motivo”. Ma… too late, trop tard, zu spät, troppo tardi, “L’Amore non replica”!
“Noi due bimbi seduti su un ponte di scalini. / Noi due ragazzi camminare sotto / gelsi incantati. / Noi due adulti e smarriti”; “Sono stata bimba senza via di casa, / madre senza grembo… fiore nell’abisso. / Sono stata ogni cosa / di questo mondo, trucidata e tradita”. Potrebbero questi sembrare atteggiamenti marchiati da bande nichilistiche indelebili, irrimediabili se non fossero esse riscattate, sopravanzate, spazzate via dalle chiuse “l’Amore / sa anche morire / per sopravvivere”, nel testo La fine, e “l’Amore / mi ha restituito / il Canto”, nel testo Lo strappo.
Prova lampante ne sia (qui autobiografia e memoria collettiva si mescidano e componimenti di questo tipo assurgono a pezzi di repertorio) il Cretto di Burri in Gibellina (TP), una monumentale opera d’arte a poca distanza da Castelvetrano, città della valle del Belice dove vive e opera la Nostra. Il Cretto ci rende manifesto che “dalle macerie si può tornare [a risplendere], che da un labirinto di dolore si può fuggire”, che da un passato sventrato dalla forza della natura può riemergere lo stupore della bellezza.
Il mio segreto
Scomporre il cuore ogni giorno.
Ricomporlo nei sogni ogni notte.
Donarlo a te, senza un preciso perché.
Sei l’unico che conosce il mio segreto.
Non so amare se non ciò che si disfa.
“Tu sei il mio segreto”; “Sei l’unico che conosce il mio segreto”; “Un patto segreto ci tiene avvinti”. Il segreto è “ovunque sia” e “ovunque sia” è un segreto. “È un posto… senza porte, / senza mura. Ma nessuno lo trova, / nessuno lo vede. Ovunque sia è un canto di dolore”, un luogo della mente, dell’anima, “Ovunque sia, sopravvive ad ogni morte. Da lì ti scrivo lunghissime / lettere come singhiozzi rotti, / come sillabe sparse che ti cercano”.
Vi rammentate in apertura il testo di Pedro Salinas? Non riscontrate una ragguardevole similarità? Registriamo en passant che “lunghissime / lettere”, appena stralciato, e parimenti “ogni / grammo d’anima” nonché “l’ultimo linguaggio / degli amanti” costituiscono tre esempi di enjambement, procedimento stilistico altrimenti denominato scavalcamento, che – come è noto – consiste nella spezzatura «di una breve frase o di un gruppo sintattico intimamente unito tra la fine di un verso e l’inizio del verso successivo».
Pulita, fresca, Bella (con l’iniziale maiuscola in ossequio all’autrice), la scrittura di Bia Cusumano si fregia “naturalmente” di suggestioni, esiti lirici, soluzioni di rara levità. Nel suo spasmo di edificazione del verso, di ricerca di figurazioni sempre nuove, inusitate, la nostra autrice concepisce e perviene ad accostamenti inediti e a invenzioni di assoluto pregio; immagini “semplici”, laddove la semplicità sottende complessità risolte, per quanto il loro rifulgere calco nero sul foglio bianco è imprevisto, efficace, esaltante: “Gemmano dalle mie pupille / parole nuove… madri amorevoli / del mio destino”. “Questo cuore dilaga / fin nella tua stanza”; “Invecchio solo se non ci sei. / Il resto del tempo è benedizione che scende sui nostri corpi”.
Ma… “giochiamo a scacchi stasera”? E il finale di partita è volta per volta aperto. Stavolta il re (si) arrocca, sacrifica la regina. “Non mi è concesso / viverti accanto. / Ma dentro, come accade / ai semi. E di morire / ogni giorno senza te”. Questo “è il solo futuro che so / plasmare tra la mia pelle / e le tue buone ragioni”. “Ti lascio i mei occhi / come sentieri di pietra”, bisbiglia lei con un fil di voce alle nostre orecchie. Perché, come le mosse di una partita a scacchi, le stagioni della vita si susseguono incessantemente, sempre le stesse e sempre altre, si alternano inesauste e le parole arrecano sì “giorni / incastonati di Bellezza, / lì dove la ruggine / del rimpianto non corrode” ma, nel loro frenetico implacabile spendersi, altresì “prosciugano / i sogni e sperdono gli incanti”.
“Mi neghi asilo tra le tue vene / e i tuoi respiri”. “Dove sono finite / le nostre parole?”, lei si interroga. E se la parola sta al poeta come il bisturi al chirurgo, la tavolozza al pittore, l’archetto al violinista, è sconvolgente il messaggio che scaturisce dalle immagini integrate nelle risposte: esse, le parole, sono state “scucite dalla lingua / scollate dai denti… bruciate vive / accecate e lapidate / seviziate [sia] di silenzio [che di] rabbia”.
Il treno
Il treno arrestò la sua corsa.
Tra dirupi e ghiacciai sconfinati.
Non vi fu urto né esplosione.
Si fermò rapito da una mano feroce.
Muti scesero i passeggeri.
Il macchinista senza volto
e la donna senza cuore.
Sopravvissuti e sventrati.
Nessuna parola tra i due.
Lei si accasciò tra i ghiacci.
Lui si smarrì tra i dirupi.
Ancora si cerca il suo cuore.
Ancora il volto di lui.
Dopo notti di gelo e stridore,
i due si guardarono inorriditi.
Il petto divelto e una valigia rossa.
Senza volto, con una poltiglia di cuore.
Muti congiunsero i corpi.
Ora lui aveva gli occhi.
Lei una fanghiglia di cuore.
Volge l’ora adesso, malgrado una miriade di cose avessero sollecitato il nostro interesse, resterebbero ancora da trattare e avremmo voluto condividere con voi, di concludere. Non prima però di avervi segnalato, benché per sommi capi e senza un ordine preciso, un campionario delle peculiarità che disseminate in quelle pagine abbiamo ravvisato:
- termine latino americano, curandero significa guaritore sciamano. Al femminile, Curandera, nell’eponimo testo, chi scrive si interroga su chi ella sia. Dapprima si adombra che “la parola che cade / nell’abisso” sia la guaritrice ma immediatamente dopo, con un colpo di scena, ecco che il soggetto acquisisce altra identità e ci costerna apprendere che lei, l’autrice stessa è “la parola che cade nell’abisso”;
- “trapassi il mio ventre”; “questo umido ventre”; “il mio ventre… squarciato”; “un gheriglio nella neve”; “aggrappato / alle sue ali di neve”; “di lava e neve sciolgo / in canto i miei occhi”, come già per “ossa” (di cui si sono dati esigui esempi) anche “ventre” e “neve” sono lemmi che ritornano, che pervadono la silloge ben più di quanto questi magri esempi lascino presumere. La loro reiterazione accusa una angoscia che persiste, scandisce un tormento straripante che sconquassa;
- un canovaccio assai prossimo a Gaio Valerio Catullo in A Lesbia: “baci / di cui non tenere il conto, / ci scorderemo di invecchiare / e ci ameremo senza mai dirlo”;
- una terna (ancora) di scenari ossimorici: opposti, apparentemente inconciliabili, come in “carezze acuminate”, o che, sfidando ogni equilibrio cosmico, come in “le nostre mani intrecciate / come agave e mandorlo”, in tutta consapevole incoerenza, qui si attraggono con le fatali inevitabili conseguenze; ovvero, in una sorta di rimpiattino alla Herbert George Wells, come in “Se sarà tardi, tu arriva presto. / Se sarà presto, fermati a lungo”, gioca col tempo, lo relativizza, lo plasma a suo piacimento;
- una allusione ai non idilliaci rapporti familiari: “Madre. Ogni figlio è freccia mortale”;
- una sua collaudata sentenza: “Al bene si giunge attraversando galassie di Dolore”;
- una invocazione: “Proteggi la donna… proteggi la figlia… la sposa orfana… proteggi l’Amore… cura l’Addio ribaltato in Ancora”;
- la constatazione che alla fine “il segreto [che sia tale, finisce con l’essere] affidato alla parola”.
E, non fossero bastati i precedenti, ulteriori e più spinosi arbusti attecchiti nella fitta foresta dell’amore: “Ho voluto vedere / se dentro i tuoi occhi / c’era posto per i miei”; “Perdersi è un Amore inverso”; “Nessuno ci revocherà la condanna / di essere diventati infelici, / lontani e smarriti”. La poesia (Juan Ramon Jimenez) deve essere come una stella, che è un astro e sembra un diamante. Per comprendere la poesia (Franco Fortini) bisogna leggerla come se essa fosse la cosa più importante del mondo, perché essa è stata tale per chi l’ha scritta. La poesia è il sorriso di Dio. Bia Cusumano lo ha raccolto e ce lo ha girato.
Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
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Marco Scalabrino, poeta in italiano e dialetto, studioso del dialetto siciliano. Ha pubblicato anche testi in prosa e le sue poesie sono state tradotte in varie lingue straniere. Ha tradotto Nat Scammacca, Duncan Glen, Nelson Hoffmann, Airo Zamoner, Stanley H. Barkan. Ha pubblicato diverse raccolte poetiche nonché studi su autori e scrittori della letteratura siciliana: Vito Mercadante, Salvo Basso, Ignazio Buttitta, Alessio Di Giovanni. È stato componente della equipe regionale del progetto L.I.R.e.S. promosso dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca – Ufficio Scolastico Regionale per la Sicilia, per lo studio del dialetto siciliano nella Scuola.
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