Nella musica abbiamo le vere parole della poesia
Pier Paolo Pasolini
La letteratura critica sull’opera pasoliniana è vastissima ma non sempre di grande qualità. Su Pasolini è stato scritto davvero tanto ma, spesso, in modo ripetitivo e superficiale. Pochi sono riusciti ad entrare nel cuore del suo pensiero. Gli stereotipi e i pregiudizi hanno avuto tante volte la meglio sullo studio serio ed attento di uno dei più complessi e problematici autori del 900. Guido Santato [1], attraverso l’esemplare analisi testuale della sua immensa opera, è stato uno dei primi a liberare Pasolini dalla presenza ingombrante del suo personaggio (costruito ad arte anche dai suoi numerosi denigratori) che, più di una volta, ha finito per oscurare il valore reale dell’uomo e della sua opera. Peraltro la recente riedizione di tutti i suoi scritti nella collana Meridiani della Mondadori [2], ha fatto toccare con mano l’ampiezza e profondità di un’ opera che non può essere rinchiusa nei tradizionali confini disciplinari.
Durante la sua breve vita Pasolini è riuscito ad occuparsi di tutto – poesia, musica, linguistica, antropologia, cinema, teatro, critica letteraria, filosofia e politica – riuscendo a lasciare la sua impronta originale su tutto quello che toccava. Già solo questo dato potrebbe spiegare la ragione per cui la sua opera è stata in gran parte incompresa. Era inevitabile, infatti, che, in un tempo, come il nostro, dominato dallo specialismo e dalla frammentazione dei saperi, Pasolini apparisse un dilettante, e come tale trattato, spesso, da tanti critici [3].
Il libro di Claudia Calabrese, Pasolini e la musica, la musica e Pasolini. Correspondances (Diastema Editrice, 2019), scaturisce dalla rielaborazione della tesi dottorale discussa dall’autrice nel 2018 presso l’Università La Sapienza di Roma. Basta dare un’occhiata all’Indice e alla bibliografia del volume per cogliere immediatamente la serietà del lavoro compiuto. Se lo si legge poi con l’attenzione che merita non si tarda a capire che il libro segnerà una svolta e lascerà un segno durevole nella storia della critica pasoliniana per la sua originalità, per il suo rigore argomentativo nonché per la scioltezza e la felicità espressiva dell’autrice che riesce a coinvolgere, anche emotivamente, il lettore attento.
Claudia Calabrese ha sempre amato sia la musica che la poesia. Questa doppia passione l’ha sostenuta nel corso della sua non facile ricerca per superare i dubbi e gli ostacoli che ha incontrato. Risolutiva è stata la lettura di quella sorta di autobiografia in versi di Pasolini, intitolata Il poeta delle ceneri, risalente agli anni sessanta ma rimasta inedita fino al 1980 [4]. È in questo testo che il poeta afferma di aver desiderato di essere soprattutto uno scrittore di musica:
«[…] vorrei essere scrittore di musica, / vivere con degli strumenti/ dentro la torre di Viterbo […] / e lì comporre musica / l’unica azione espressiva / forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà» [5].
Partendo proprio da questo testo, Calabrese riesce a penetrare nel «pensiero musicale» del poeta bolognese-friulano fino a comprenderne il senso profondo. Musica, infatti, per Pasolini non è soltanto la grande arte di Bach e Mozart (i suoi musicisti preferiti), ma anche «tutto ciò che risuona nel mondo»: i suoni naturali, il canto degli uccelli, le foglie, le acque, i canti del popolo. Pasolini, fin da giovane, intuisce che musica e suoni oltrepassano i confini visibili del reale e ne evocano il mistero. Da qui deriva «l’in-canto per l’arcaica parola poetica», l’entusiasmo con cui ascolta tutti i suoni della vita, dal «grembo sonoro del Friuli» alle borgate romane. Le correspondances tra musica e poesia, che l’autrice ha voluto indicare già nel titolo del suo lavoro, vengono ben spiegate nella sua Introduzione:
«Musica e poesia, suono e parola arcana e arcaica sono strettamente connessi e dalla riflessione razionale transitano all’opera artistica la cui costruzione, attraverso lo stile, porta il poeta all’intuizione consapevole che, come accade nella scrittura musicale, l’espressione del senso più profondo, nella poesia, nella letteratura e poi nel cinema, passa per la composizione di un’architettura che presenta analogie con la scrittura musicale, evocativa e, in ultima analisi, sospesa».
Altri studiosi, prima della Calabrese, si sono occupati del rapporto tra Pasolini e la musica, con particolare riferimento al suo cinema. Ma, come nota Stefano La Via nella Prefazione, nessuno prima era riuscito a mostrare in modo altrettanto ampio, sistematico e convincente come, nella dimensione poliedrica della musica, trovi la sua prima radice la poesia, e come essa accompagni Pasolini non solo nella sua opera letteraria e cinematografica, ma anche nelle sue riflessioni estetiche e filosofiche.
C’è voluto tanto coraggio per scrivere un libro come questo. E di questo coraggio parla la stessa autrice in una nota del libro quando afferma:
«È […] il coraggio il segno distintivo di ogni soggetto che compie una ricerca e in qualche modo innova, in barba ad ogni ‘autorità’ più o meno costituita, più o meno incorporata. Nel mondo arcaico greco, è il coraggio dell’eroe. Per scrivere ci vuole coraggio, per pensare nuovi versi o un nuovo film o un romanzo, un articolo per un giornale e darli in pasto alla barbarie della cosiddetta civiltà, tutta intrisa e guidata dallo ‘sviluppo’ e spesso incapace di pensare un pensiero originale. Ci vuole coraggio intellettuale a guardare in faccia la realtà e cercare sempre la verità e il linguaggio migliore per esprimerla. Ci vuole coraggio a mantenere in vita, ricreandola man mano, la fiammella della meraviglia, della stupefazione e della curiosità infantili di fronte alle manifestazioni del mondo, anche di quello interiore, sentendola come la culla sia della poesia, sia del pensiero razionale, senza farsi sommergere da qualsiasi ‘autorità’ che ti voglia addomesticabile, o addirittura già addomesticato crescendo. E questo coraggio appartiene a Pasolini e sin dall’inizio ha un suono» [6].
Gli Studi su Bach del giovane Pasolini
Il libro di Calabrese ha una struttura simile a quella di un’opera musicale e si sviluppa attraverso due movimenti e un intermezzo con frequenti ritorni e variazioni sullo stesso tema. Nel primo movimento l’autrice prende le mosse dall’analisi di un testo giovanile del poeta intitolato Studi sullo stile di Bach. Il saggio risale al biennio 1944-1945, inedito fino al 1999, anno in cui viene pubblicato nel primo tomo dei Saggi sulla letteratura e sull’arte dei Meridiani Mondadori. La Calabrese, avendo consultato il manoscritto custodito, insieme ad altri, nel “Fondo Pasolini” presso l’Archivio Contemporaneo A. Bonsanti del Gabinetto Vieusseux di Firenze, non manca di notare alcuni errori di trascrizione compiuti dai curatori dell’Edizione meridiana.
Il saggio del giovane Pasolini viene analizzato dalla Calabrese con acribia, seguendo costantemente il suo rigoroso metodo che la conduce a non isolare mai il testo dal suo contesto linguistico e storico.
Bach è stato il musicista prediletto di Pasolini. A iniziarlo a Bach fu la violinista slovena Pina Kalc, conosciuta a Casarsa, in Friuli, nel febbraio del ’43: «Bach rappresentò per me in quei mesi la più forte e completa distrazione: rivedo ogni rigo, ogni nota di quella musica; risento la leggera emicrania che mi prendeva subito dopo le prime note, per lo sforzo che mi costava quell’ostinata attenzione del cuore e della mente», ricorda il poeta nei suoi Quaderni rossi. La Kalc, addirittura, tentò di dare al giovane Pasolini lezioni di violino. Ma non ebbe successo, come ha raccontato la violinista: «Non studiava. Mi diceva: Ma no, Pina, mi suoni lei, e mi suoni Bach. Sempre finiva così. Metteva il violino nell’astuccio, si metteva a sedere: Mi suoni Bach». Quelle audizioni però, folgorarono Pasolini tanto che, nei suoi Scritti corsari nota: «Mi sento ancora fortemente commuovere dalla sua immagine che suona Bach; lei ha costruito un edificio saldissimo nella mia vita».
Ed è vero: la musica e Bach, per Pasolini, hanno costituito un edificio saldissimo. Eppure lo stesso Pasolini coglie una contraddizione nella musica di Bach, una oscillazione continua tra una forma di serenità celeste e una sensualità profonda. Insomma il giovane Pasolini, in questo saggio, intravede una prima espressione del conflitto tra carne e cielo che, secondo Calabrese, è uno dei principali leit motiv della sua vita e della sua opera:
« ‘Carne e Cielo’, due tensioni opposte e inconciliabili, ma coesistenti, che egli sente nella musica di Bach di cui tento, collegandole al vissuto, di individuare la genesi nell’animo del poeta. Vanno naturalmente interpretate per comprendere come poi s’innestino ‘nel pensiero musicale’, che ruolo abbiano nella ricerca della sorgente della parola poetica nella quale più si condensa la sostanza sonora, e come il poeta le collochi nell’opera. E gran parte delle declinazioni del suo pensiero – la tensione verso l’infinito, la necessità di fare ordine nel caos della passione, il problema del rapporto fra contenuto ed espressione, inesprimibile ed espresso, il mistero della musica, delle parole poetiche arcane e ‘universali’, il tema della significazione musicale e poetica – mi sembra rimandino a ‘Carne e Cielo’, che è anche contrasto tra imperfezione e perfezione, che dalla vita si trasferisce all’opera».
La stessa Calabrese più avanti, seguendo puntualmente persino lo spartito della Siciliana bachiana, osserva:
«C’è nella Siciliana, nella visione di Pasolini, una tensione reciproca all’incontro fra la dolcezza carnale e il canto liturgico, nei quali si possono intravedere gli opposti: ‘Carne e Cielo’ che spezzano e si avvicinano. La voce umana e quella sacra. Simbolicamente, con i termini ricadute e liberazioni Pasolini indica l’inutile tentativo dell’uomo di superare il dramma, di accordare gli opposti ‘Carne e cielo’, riducendoli a uno. Ma la (ri)composizione dell’unità non coincide con l’annullamento, o la fusione, delle forze contrastanti in gioco, e si attua nella permanenza del contrasto, che per Pasolini sembra avvenire attraverso la compresenza drammatica, e il dialogo, di queste forze dentro una dimensione spazio/temporale che rimanda a ciò che egli chiama ‘sacro’: anche nell’opera, come nella vita, la lotta rimane, e le forze non si annullano».
L’autrice si mostra sempre problematica, consapevole com’è della complessità e delle contraddizioni che attraversano la vita e l’opera di Pasolini. L’unica certezza che mostra di avere è solo quella di sapere che c’è ancora tanto da esplorare. Attraverso l’analisi attenta del saggio bachiano Calabrese riesce a cogliere, non solo il «pensiero musicale» del poeta, ma anche la sua stessa poetica. Un passo del saggio le appare illuminante al riguardo:
«Prima il silenzio, poi il suono o la parola. Ma un suono o una parola che siano gli unici, che ci portino subito nel cuore del discorso. Discorso, dico. Se c’è un rapporto tra musica e poesia questo è nell’analogia, del resto umana, di tramutare il sentimento in discorso, con quel risparmio, quella misura, quell’accoratezza che sono semplicemente comuni ad ogni opera d’arte. Basta rievocarsi il Partenone, un San Pietro di Masaccio, i Sepolcri, la Quinta Sinfonia; da per tutto il medesimo inizio perfetto, cioè passaggio perfetto dal nulla alla realtà dell’opera; la stessa conclusione perfetta, lo stesso svolgimento perfetto. E in fondo a tutto, un sentimento, una passione, un’esperienza umana che divengono figure concrete. Tali somiglianze si fanno più sensibili tra l’arte musicale e l’arte poetica. […]» [7].
Le parole per Pasolini somigliano alle nuvole e il silenzio, spesso, le mantiene vive. Come scriverà più tardi, «alcune cose si vivono soltanto o, se si dicono, si dicono solo in poesia» [8].
Musica, poesia e politica in Pasolini
Pasolini è riuscito a tenere sempre unite tra loro la sua straordinaria sensibilità musicale e poetica all’impegno pedagogico e politico. Calabrese nel suo lavoro ne parla diffusamente. Sorvolo su quanto al riguardo ne scrive l’autrice; anche se penso che il suo punto di vista andrebbe confrontato con quanto è stato scritto da altri. Qui mi limito a rinviare a due miei precedenti studi [9].
Il trasferimento di Pasolini a Roma, nel 1950, avviene nel momento in cui è ancora in corso la stampa della prima edizione tematica dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. La lettura di Gramsci ha avuto un peso notevole nella formazione di Pasolini e se ne ha una prima conferma nei lavori che impegnano il poeta nei primi anni cinquanta: La poesia dialettale del Novecento (1952), curata insieme a Mario Dell’Arco, Il canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare (1955) e, soprattutto, nei versi raccolti in Le ceneri di Gramsci (1957), concepiti negli anni precedenti.
Calabrese dedica alcune delle sue più belle pagine nel mettere a fuoco questa fase cruciale della vita e dell’opera di Pasolini. Proviamo a seguirne il percorso che, come spesso accade, assume una forma a spirale piuttosto che lineare. Nel farlo riprendo anche testualmente il suo racconto
Il canto popolare, uno dei testi chiave de Le ceneri di Gramsci, è «un inno critico di Pasolini all’espressività popolare che svuota di significato il canto, per secoli tramandato di padre in figlio». Nella visione di Pasolini, l’assenza di una dimensione storica della coscienza popolare porta il singolo «a ripetere ingenuo quello che fu». Le classi dirigenti, bene o male, seguendo i loro interessi, fanno la storia. Il popolo la subisce incosciente, e canta supino:
«Ragazzo del popolo che canti,
qui a Rebibbia sulla misera riva
dell’Aniene la nuova canzonetta, vanti
è vero, cantando, l’antica, la festiva
leggerezza dei semplici. Ma quale
dura certezza tu sollevi insieme
d’imminente riscossa, in mezzo a ignari
tuguri e grattacieli, allegro seme
in cuore al triste mondo popolare? [10]
E Calabrese, opportunamente, a questo punto accosta i versi sopra citati a quelli scritti qualche anno prima dallo stesso Pasolini:
Nella tua incoscienza è la coscienza
che in te la Storia vuole, questa storia
il cui Uomo non ha più che la violenza
delle memorie, non la libera memoria…
E ormai, forse, altra scelta non ha
che dare alla sua ansia di giustizia
la forza della felicità,
e alla luce di un tempo che inizia
la luce di chi è ciò che non sa. [11]
Per spiegare questi versi Calabrese riporta le stesse parole scritte dal poeta a Franco Fortini nel 1955: «Il popolo che canta del Canto popolare è il popolo com’era prima della civiltà industriale: mentre il canto finale (la canzonetta) di chi ‘è ciò che non sa’ si riferisce appunto al sottoproletariato sulle soglie della coscienza di classe, che vive dall’Aniene a Eboli…» [12].
Se i richiami alla musica del tempo hanno contribuito nei romanzi a definire situazioni e contesti, riflesso delle trasformazioni sociali, quei ‘ragazzi di vita’ che cantavano canzonette tuttavia, negli anni Cinquanta, esprimevano ancora una loro umanità [13]: perciò, forse, Pasolini si esprime contraddittoriamente sulla canzonetta di consumo, avvertendone la capacità, da una parte, di porsi come segnaletica della storia sociale – e, in questo senso assume la funzione di strumento ‘narcotizzante’ che favorisce la «diffusione ideologica della classe dominante sulla classe dominata»[14] – dall’altra, di intrecciarsi alla vita individuale registrandone le tappe più significative. L’allegria, il sentimentalismo, la banalità dei testi delle canzonette si contrappongono al ricordo del canto popolare che si va svuotando di significato perché il popolo, oramai in quel mondo nuovo, «è diverso da quello che è sempre stato per secoli»[15]. E neppure lo sa.
Nel 1956, alla rivista «Avanguardia» che avvia un dibattito sulla canzone italiana coinvolgendo scrittori e intellettuali, così risponde Pasolini:
«[…] non vedo perché sia la musica che le parole delle canzonette non dovrebbero essere più belle. Un intervento di un poeta colto e magari raffinato non avrebbe niente di illecito. Anzi, la sua opera sarebbe sollecitabile e raccomandabile. Personalmente non mi è mai capitato di scrivere versi per canzoni: ossia, come alla maggior parte dei miei amici, non mi si è presentata l’occasione. Musicisti e parolieri si sono stretti in un impenetrabile clan, si sono ben protetti dalla concorrenza (e si capisce, i diritti di autore fruttano talvolta milioni). Quanto a me, credo che mi interesserebbe e mi divertirebbe applicare dei versi ad una bella musica, tango o samba che sia»[16].
E ancora, nel 1964:
«Sulle ‘canzonette’ potrei dare due tipi di risposte del tutto contrari. Niente meglio delle canzonette ha il potere magico, abiettamente poetico, di rievocare un ‘tempo perduto’. Io sfido chiunque a rievocare il dopoguerra meglio di quel che possa fare il ‘boogie-woogie’, o l’estate del ‘63 meglio di quel che possa fare ‘Stessa spiaggia stesso mare’. Le ‘Intermittences du coeur’ più violente, cieche, irrefrenabili sono quelle che si provano ascoltando una canzonetta. (Chissà perché i ricordi delle sere o dei pomeriggi o dei mattini della vita, si legano così profondamente alle note che fila, nell’aria una stupida radiolina o una volgare orchestra. E anche la parte odiosa, repellente di un’epoca aderisce per sempre alle note di una canzonetta: pensate a ‘Pippo non lo sa’… ). Il modo immediato che io ho di mettermi in rapporto con le canzonette è dunque particolare, e non so prescinderne. Non sono un buon giudice. Soffro inoltre di antipatie e simpatie profonde per i cantanti e le melodie (il massimo dell’antipatia è per la canzonetta “crepuscolare” di cui potrei dare come paradigma ‘Signorinella pallida’). Aggiungo infine che non mi dispiace il timbro orgiastico che hanno le musiche trasmesse dai juke-boxes. Tutto ciò è vergognoso, lo so: e, quindi contemporaneamente devo dire che il mondo delle canzonette è oggi un mondo sciocco e degenerato. Non è popolare ma piccolo-borghese. E, come tale, profondamente corruttore. La Rai-Tv è colpevole della diseducazione dei suoi ascoltatori anche per questo. I fanatismi per i cantanti sono peggio dei giochi del Circo» [17].
Intravediamo già le bellissime poesie per musica di Pasolini degli anni Sessanta-Settanta che, una volta musicate, diventano canzoni dallo stile molto diverso rispetto a ciò che il mercato musicale diffondeva in quegli anni. Ricordiamo qui, per tutte, La recessione, cantata da Alice, che riprende alcuni versi friulani dell’ultimo Pasolini che Calabrese avrebbe potuto citare e commentare meglio di noi [18].
Gli anni sessanta e i primi anni settanta del Novecento sono stati anni fervidi di dibattiti. Pasolini e gli intellettuali del tempo da un lato avvertono la necessità di individuare un approccio teorico e metodologico che guidi le loro indagini, in linea con la tradizione storicista – Gramsci soprattutto, ma anche De Sanctis e Croce – al fine di evitare il rischio di una sterile raccolta di dati, e dall’altro si interrogano sul loro ruolo nella società del tempo. Sono questi i temi sui quali Pasolini si confronta con gli intellettuali italiani del tempo, anche di stampo progressista, con i quali collabora e pure, a causa della radicalità delle sue posizioni sulle trasformazioni della società e della cultura italiane, entra in conflitto [19].
Le polemiche riguardano più che altro la posizione dell’intellettuale nella società del tempo. Alcuni di loro, più orientati alla creatività poetica e letteraria (Pasolini, Calvino, Fortini, Jona) scrivono testi di canzoni destinati a interpretare un sentimento popolare che scaturisce dalla dura cronaca quotidiana [20]. Da Milano, Gianni Bosio e Roberto Leydi orientano la ricerca scientifica soprattutto nel campo dell’etno-musicologia, assumendo a punto di riferimento gli studi di De Martino. Questi, partendo dall’esperienza della civiltà contemporanea, aveva avviato una riflessione sul folklore ponendosi il problema di quale fosse la prospettiva giusta da cui guardare alle culture ‘altre’ [21] in uno sforzo di comprensione storica universale. è sullo sfondo di questi fermenti che nel 1958 a Torino nasce Cantacronache, per iniziativa di Michele L. Straniero e Sergio Liberovici [22].
Negli stessi anni, in Italia, accanto alla canzone impegnata a sfondo politico, si diffonde la canzonetta di consumo che ha la sua più prestigiosa vetrina nel Festival di Sanremo. A partire dal 1955, il Festival della Canzone Italiana diventa un evento televisivo trasmesso in Eurovisione dalla Rai. Anche Cantacronache si pone come alternativa a Sanremo [23] e produce dischi con ‘Italia Canta’, società di proprietà del Partito Comunista che già da qualche anno stimolava una cultura attenta alle classi popolari, sull’onda dell’edizione dei Quaderni del carcere gramsciani. Gli intellettuali del tempo, impegnati nel movimento di riscoperta del canto popolare e sociale, si confrontano tutti, e tra loro Pasolini, con il pensiero di Gramsci sui rapporti tra espressione artistica popolare e società e tra intellettuali e popolo [24].
Come poteva il popolo, in questo quadro, farsi portatore di una nuova cultura, indipendente e alternativa rispetto a quella delle classi dominanti? Cosa potevano fare gli intellettuali per favorire questi processi? Questi sono i temi sui quali si interrogano gli intellettuali. Il passo dalla cultura all’impegno politico è breve, la ricerca è essa stessa azione politica. Anche Pasolini avverte il ‘pericolo’ di una trasformazione orientata dalla classe egemone e subìta dai ceti popolari che non ne possono cogliere significato e dinamica. È d’accordo con Gramsci sulla necessità di riavvicinare intellettuali e popolo per mettere quest’ultimo in condizione di avere una visione storica della realtà e elaborare una nuova cultura che abbia identità e forza. Ma mentre Gramsci ha una visione tutta politica del processo storico e pensa che lo strumento del cambiamento e anche della formazione unitaria del popolo debba essere il ‘moderno Principe’ (dal Machiavelli), cioè il Partito, guidato anche da esponenti della ‘classe operaia’ con la partecipazione ‘organica’ degli intellettuali più avveduti, Pasolini pratica un rapporto diretto e non mediato con le diverse espressioni popolari, in virtù di un amore viscerale verso il popolo, del quale vorrebbe far parte. A ciò si aggiunga che, mentre il pensiero di Gramsci espresso nei Quaderni è molto razionale e procede per concetti, quello di Pasolini è fatto di immagini, poesia, suoni e musica e non è esente da contraddizioni, che peraltro lui stesso mette in evidenza: il suo è un sentimento che, passando attraverso il corpo, diventa estetica, stile personale, ed è refrattario a seguire qualsiasi direttiva politica. Ne è testimonianza poetica una strofa de Le Ceneri di Gramsci (1957), laddove scrive:
Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro di te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere [25].
Per Pasolini l’uomo non è solo un prodotto della storia che deve essere messo in condizione di fare la storia. Anche chi appartiene alle classi subalterne ha una propria identità, sia pure frammentata, tendenzialmente conservatrice se non involutiva, ma pure originale [26], che si esprime qui e ora nel confronto quotidiano con l’esperienza concreta e, seppure non abbia profondità né capacità di delineare prospettive, tuttavia è. Il popolo di Pasolini, frammentato, stratificato, s’esprime con le sonorità della propria lingua e anche con il canto; ma, tra gli «incantati rumori» che risuonano a Roma, a evocare il dolore delle trasformazioni in atto, v’è pure l’urlo di una scavatrice che, solo, raschia il silenzio [27]:
quasi non avesse meta,
un urlo improvviso, umano,
nasce, e a tratti si ripete,
così pazzo di dolore che, umano,
subito non sembra più, e diventa
morto stridore. Poi piano,
rinasce, nella luce violenta,
tra i palazzi accecati, nuovo, uguale,
urlo che solo chi è morente,
nell’ultimo istante, può gettare
in questo sole che crudele ancora splende
già addolcito da un po’ di aria di mare…[28]
Il dibattito culturale di quegli anni è ben ricostruito da Calabrese. Ma, per quanto riguarda il rapporto tra Gramsci e Pasolini, penso che ci sia ancora tant’altro da dire. Qui mi limito ad osservare che andava sicuramente ricordato uno degli ultimi scritti del poeta che, per me, ha un valore testamentario. Si tratta di un testo di fondamentale importanza, spesso ignorato dalla critica, in cui Pasolini afferma chiaramente che occorre «un nuovo modo di essere gramsciani» [29].
Immerso in questo clima culturale, Pasolini approda al cinema e realizza i primi film, da Accattone a Edipo Re, in modo che corrispondano all’idea gramsciana di opera nazional-popolare: «abbastanza oggettivi, con personaggi a tutto tondo ed un andamento epico abbastanza solenne» [30]. Esprimere attraverso il cinema «la realtà con la realtà» per Pasolini significa registrarla ponendosi dentro il campo della realtà, accanto a ciò che egli osserva e vede con quello sguardo mistico-sensuale-religioso che richiede uno stile e una tecnica in grado di mantenere la realtà carica della sua sacralità. Ed è proprio la musica che, intervenendo nello stile, rende esplicita la sacralità dei fatti. L’io, che nei romanzi aveva cercato faticosamente di proiettarsi/escludersi (attraverso l’uso del discorso libero indiretto) nella/dalla realtà oggettiva, ora più che mai, in coincidenza con un presente sempre più desolato, ritorna al bisogno di affermare quell’«infinità che noi sentiamo da ogni parte, ma più ancora in noi stessi» che era stata prerogativa della soggettiva e sonora parola poetica e della narrativa friulana.
Che cosa sono le nuvole? Ossia che cosa è la verità
Nelle pagine centrali del libro l’autrice – analizzando il cortometraggio di Pasolini del 1967, Che cosa sono le nuvole? – ci offre un ulteriore saggio del suo acume critico. In questo piccolo capolavoro, Pasolini intreccia i diversi codici e linguaggi delle diverse arti (teatro, cinema, poesia, musica, pittura), padroneggiati in modo singolare, per far riflettere il pubblico.
Al centro della narrazione è la messa in scena dell’Otello di Shakespeare, ridotto a commedia «ad usum populi»; il testo viene modificato nel suo significato originario e interpretato da burattini in un teatro popolare. Ciascun personaggio-burattino recita la propria parte, fino a quando, al punto della narrazione in cui Otello sta per uccidere Desdemona, gli spettatori, che non accettano l’epilogo shakespeariano, interrompono lo spettacolo [31]. Nella colluttazione che segue Jago e Otello vengono uccisi dagli spettatori e gettati in una discarica di rifiuti. Scrive la Calabrese:
«Nel film ogni elemento sostiene un gioco di rispecchiamenti che capovolge la prospettiva narratologica: la finzione teatrale dentro la finzione del cinema, rappresentata da attori-burattini, ora di legno ora in carne e ossa, che si trovano come in un sogno dentro un sogno, mira a un’interlocuzione continua con lo sguardo dello spettatore cui Pasolini sembra affidare il ruolo di disvelamento di ciò che veramente è, oltre la finzione. Il film inizia infatti con un avviso ai naviganti: un quadro di Diego de Silva y Velàzquez, Las Meninas, rappresenta la locandina dello spettacolo che sta per iniziare. Descritto con minuzia di particolari e con grande intelligenza in quegli anni da Michel Foucault, Las Meninas è un vertiginoso gioco di specchi. Un’opera che rappresenta l’atto di ritrarre il potere che non si vede, se non attraverso uno specchio, e che mette in primo piano coloro che in qualche modo del potere sono sudditi. Pasolini con il pennello di Velàzquez forse ci sta dicendo che il suo cortometraggio usa le stesse logiche speculari e paradossali, perché ciò che sta per rappresentare riguarda direttamente chi osserva, e ascolta, contemporaneamente fuori e dentro il film Due mondi si mescolano in perfetta simmetria: gli spettatori esterni al film – che non vediamo e tuttavia siamo noi, riflessi nello specchio del cinema – e gli spettatori interni, ovvero il popolino che assiste alla rappresentazione teatrale» [32].
Ecco perché Pasolini mette in bocca del burattinaio (Leonetti?) queste parole:
Questa non è solo la commedia che si vede e che si sente;
ma anche la commedia che non si vede e non si sente.
Questa non è solo la commedia di ciò che si sa,
ma anche di ciò che non si sa.
Questa non è soltanto la commedia delle bugie che si dicono,
ma anche della verità che non si dice’ [33].
Ma la vera chiave di lettura del film, nota acutamente Calabrese, si trova in un dialogo dietro le quinte che avviene tra Otello e Jago
OTELLO Ma allora qual è la verità? Quello che penso io di me, quello che pensa la gente o quello che pensa quello là dentro…
JAGO Mah… qualcuno dice che la verità non c’è …qualcuno dice che la verità è ‘na media de tutte le verità diverse che ce stanno…ma tu non dà retta a nessuno de questi…Perché c’è la verità.
OTELLO E qual’è?
JAGO Senti qualcosa dentro dite? Concentrati bene! Senti qualcosa? Eh?
OTELLO (dopo essersi ben concentrato) Sì…Sì…sento qualcosa…che c’è…
JAGO Beh…quella è la verità…ma ssssst, non bisogna nominarla, perché appena la nomini non c’è più… [34]
Questo dialogo mostra il grande interesse mostrato da Pasolini per la maieutica socratica. Interesse confermato anche da una sua dichiarazione rilasciata a proposito del cortometraggio in questione:
«Non ho voluto imporre un significato allo spettatore. Ho posto delle domande. Cioè è quello che Barthes, di Brecht, avrebbe detto “un’opera a canone sospeso”» [35].
I critici cinematografici dell’epoca mostrarono scarsa attenzione a questo cortometraggio di Pasolini, convinti di trovarsi di fronte ad un’opera minore di scarso valore. Calabrese è riuscita brillantemente a dimostrare il contrario.
Il canone sospeso
A questo punto la Calabrese coglie l’occasione per dare la sua interpretazione al significato dato da Pasolini al concetto di “Canone sospeso”, considerandolo fondamentale per la comprensione dell’intera opera pasoliniana, oltre che per la piena intelligenza del film esaminato nel punto precedente. Per farlo cita un brano del saggio pasoliniano La fine dell’avanguardia (1966), raccolto successivamente nel suo Empirismo eretico (1972):
«Il segno dominante di ogni arte metonimica – e quindi sintagmatica – è la volontà dell’autore a esprimere un senso piuttosto che dei significati. Quindi a far succedere sempre qualcosa nella sua opera. Quindi a evocare sempre direttamente la realtà, che è la sede del senso trascendente i significati […] “Sospendere il senso”: ecco una stupenda epigrafe per quella che potrebbe essere una nuova descrizione dell’impegno, del mandato dello scrittore. […] “C’è senz’altro nel teatro di Brecht un senso, un senso fortissimo, ma questo senso è sempre una domanda”»[36].
E questo è il commento che ne fa la nostra autrice:
«Evocare direttamente la realtà e sospendere il senso: certo, Pasolini sa che la realtà, come la verità, è inconoscibile nella sua totalità e all’artista non rimane che una parziale rappresentazione. Perciò è con una domanda che il regista dà forma al titolo di Che cosa sono le nuvole? e all’omonima canzone che apre e chiude il film, assegnando sin dall’inizio a noi spettatori il compito di cercare il senso. Ma perché, nel già complesso rapporto tra realtà e finzione, Pasolini introduce la metafora dello specchio? A cosa rimandano nella serietà del gioco narrativo il rapporto fra uomo e burattino (e burattinaio), i temi della ricerca dell’identità, dell’inconsapevolezza e della colpa? Qual è la realtà, collocata sempre dietro le quinte – è infatti quello il ‘luogo’ in cui i burattini si fanno le domande – che si vuole evocare in Che cosa sono le nuvole? Come interpretare quell’‘altro mondo’, esterno al teatrino, dove si va quando si muore, che si percepisce solo con l’udito – il brusio, i suoni, gli echi, le voci – e la figura dell’immondezzaro Modugno che canta e mette in comunicazione i due mondi, assegnando alla musica l’importante funzione di sostegno di questo doppio livello narrativo? Tutta la musica – dal sublime Adagio dal Quintetto per archi in Sol minore n. 3 K 516 di Mozart, alle toccanti note soffiate dal cielo e interpretate da Modugno, allo sfrenato Can-can di Offenbach, alla leggerezza cristallina del mandolino che accompagna la messa in scena teatrale nel film – entra in scena con una funzione molto importante: da una parte sostiene la narrazione orizzontale, dall’altra simbolicamente evoca il doppio livello narrativo e si fa trait d’union tra ciò che viene rappresentato e ciò che sta dietro le quinte della finzione».
Non c’è alcun dubbio sul fatto che l’interpretazione data da Calabrese al film Che cosa sono le nuvole?, oltre ad essere molto suggestiva, coglie diversi elementi di verità. Ma si può estendere a tutta l’opera pasoliniana l’ipotesi sostenuta dall’autrice di questo bellissimo libro? In altri termini, il Canone Sospeso, teorizzato da Roland Barthes negli anni sessanta, ripreso da Pasolini nel 1968 anche per indicare la difficoltà di comprendere la realtà e di dire tutta la verità sulle cose, può considerarsi davvero l’ultima parola di Pasolini?
La sospensione del giudizio, in quegli anni convulsi e confusi, non dura tanto a lungo. Qualche anno dopo, infatti, Pasolini riprende, con rinnovata energia, sui giornali e sui periodici del tempo, la battaglia culturale intrapresa nei primi anni sessanta sul settimanale comunista Vie Nuove. I testi di questo suo nuovo impegno verranno raccolti nei suoi celebri Scritti corsari e nelle sue famose Lettere luterane. E non mi pare che in questi suoi ultimi libri, così come nelle sue ultime poesie italo-friulane del biennio 1973-1974, Pasolini abbia sospeso il suo giudizio.
Per concludere non possiamo non ricordare la bella intervista a Dacia Maraini, condotta dalla stessa Calabrese, insieme alla conversazione con la cantautrice Giovanna Marini, che si trovano nel capitolo finale del libro. Della prima appare particolarmente interessante la parte finale dell’intervista:
«Pier Paolo aveva molto rispetto per le donne. Ma le voleva madri più che compagne. Infatti, in ciascuna delle donne che ha amato, ha cercato la madre. Anche con me, e l’ho sentito soprattutto in quel famoso momento del “tienimi, tienimi”, ho sentito allora che per lui ero soprattutto una madre, anche se ero più giovane di lui […] Di Pasolini mi manca la sua compagnia, quasi sempre silenziosa, ma intensa e affettuosa. Come compagno di viaggio poi era perfetto. Si adattava a tutto. Aveva uno sguardo intelligente e profondo delle cose. Era un piacere stargli accanto».
Della conversazione con Giovanna Marini mi ha colpito soprattutto un passaggio che mi sembra una indiretta conferma dell’idea che ci siamo fatti di Pasolini e del suo costante rapporto critico rispetto a tutte le tradizioni, ben consapevole com’era della verità contenuta nella celebre affermazione di Mahler: «La tradizione è la custodia del fuoco, non l’adorazione della cenere». Ad una domanda della Calabrese circa i rapporti di Pasolini con Fortini, Calvino ed altri, G. Marini risponde: «Pasolini era sempre critico […] Era un gruppo: c’era Franco Fortini, profondamente comunista e marxista, come Gianni Bosio d’altra parte; Calvino non lo era affatto, era socialista piuttosto […]. Pasolini era critico con tutti, come un riccio di castagna, con tutti gli aghi. Non riuscivi a prenderlo mai da nessuna parte».
Rimandiamo ad un’altra occasione, infine, l’analisi del gran lavoro compiuto dall’autrice, nel II Movimento del suo libro, per ricostruire La memoria con voci e orchestre di Sylvano Bussotti, per i versi che Pasolini ha dedicato Alla bandiera rossa [37], e del Notturno dello stesso poeta per le Danze della sera di Ettore De Carolis [38].
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] Guido Santato, Pier Paolo Pasolini. L’opera poetica, narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Ricostruzione critica, Roma, Carocci 2012
[2] L’opera di Pasolini, pubblicata nel tempo da editori diversi, è stata raccolta circa venti anni fa da Mondadori, nella collana dei Meridiani, in dieci volumi, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude. Questa edizione non ha ottenuto consensi unanimi. Particolarmente dure le osservazioni critiche di Carla Benedetti, pubblicate su L’Unità del 29 aprile 2003, che prende le mosse dalla discutibile Postfazione con cui Siti ha chiuso l’ultimo tomo dell’opera. Personalmente, mi sembra contestabile, soprattutto, la separazione dei saggi letterari da quelli socio-politici ed antropologici. Forse, rispettando l’ordine cronologico in cui sono state concepite tutte le opere di Pasolini, a prescindere dal loro genere, sarebbe stato più agevole cogliere il ritmo e il naturale sviluppo del pensiero di un autore che non amava i confini disciplinari.
[3] Vedi, ad esempio, il modo sbrigativo con cui vennero valutate, negli anni 60, le sue riflessioni linguistiche. Soltanto Tullio De Mauro ne colse immediatamente il valore.
[4] È stato Enzo Siciliano a pubblicare per la prima volta l’inedito pasoliniano nella rivista Nuovi Argomenti, luglio-dicembre, 1980. Successivamente il testo è stato raccolto in PASOLINI, Tutte le poesie, a cura di Walter Siti, due tomi indivisibili, Meridiani Mondadori, 2003.
[5] Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, vol. I, op. cit.: 1288.
[6] Claudia Calabrese: 87, nota 77.
[7]Pier Paolo Pasolini, Studi sullo stile di Bach, in SLA I: 79.
[8] Pier Paolo Pasolini, Il sogno del centauro, a cura di Jean Duflot, Editori Riuniti, Roma 1993: 5.
[9] Francesco Virga, Poesia e mondo contadino nel giovane Pasolini, in Nuova Busambra n. 6, 2014 e Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini, Quaderns d’Italià, n.16, 2011. Quest’ultimo articolo è reperibile anche in rete: https://doi.org/10.5565/rev/qdi.304
[10] Il canto popolare [Le ceneri di Gramsci], in Tutte le poesie, op. cit., vol. I: 784, vv.73-81
[11] Trascrivo di seguito l’illuminante nota della Calabrese che si trova a pag. 127: «scritta a cavallo tra il 1952 e il 1953, nel periodo in cui inizia a intravedersi la grande ‘mutazione antropologica’ che trasforma l’Italia in paese industriale, con riflessi mediatici dirompenti, grazie alle trasmissioni televisive che dal 1954 potenziano quanto già da decenni andava facendo la radio, Il canto popolare aiuta meglio a collocare le scelte politiche di Pasolini in rapporto alla sua attenzione verso l’espressività popolare. Pier Paolo Pasolini, Il canto popolare [Le ceneri di Gramsci], in TP I: 784-786, i versi riportati (82-90) sono a p. 786. Cfr. anche Roberto Calabretto, Pasolini e la musica, Pordenone, Cinemazero 1999: 179-180.
[12] Ivi: 180. L’impegno di Pasolini, orientato a educare i giovani, si manifesta anche con la sua disponibilità a scrivere testi per canzoni più belle di quelli che l’industria discografica andava diffondendo in quegli anni. Su questo terreno avviene l’incontro con la ricerca intellettuale di Ettore De Carolis e con Danze della sera le cui parole, nelle intenzioni del compositore, sono un invito ai giovani del tempo a darsi una coscienza politica. Argomento che Calabrese riprende nel capitolo IV del suo libro.
[13] Come osserva Filippo La Porta, i ‘ragazzi di vita’ «ci appaiono feroci e innocenti, sentimentali […] e senza scrupoli […] in ogni caso non soggetti da redimere o da correggere, ma figure di una religiosità immanente, arcaica, paganeggiante, e che insomma attestano, sia pure diversamente dai contadini friulani, il sacro perduto nella modernità». Filippo La Porta, Pasolini, Bologna, Il Mulino 2012: 29.
[14] Pier Paolo Pasolini, Rinnoviamo i canzonieri!, Le parole dei poeti. Una proposta di “Avanguardia” per la maggiore dignità della canzone italiana. – Il parere di Pier Paolo Pasolini, Mario Socrate, Nino Oliviero, «Avanguardia», a. IV, n. 14, 1 aprile 1956 ora in SLA, II: 2725-2726.
[15] La lettera di Pasolini a Leonetti, datata 20 gennaio 1958, è riportata in Roberto Calabretto, Pasolini e la musica, cit.: 180.
[16] Pier Paolo Pasolini, «Mi interesserebbe e mi divertirebbe applicare versi ad una bella canzone», Rinnoviamo i canzonieri!, Le parole dei poeti, cit., ora in SLA II: 2725-2726.
[17] Pier Paolo Pasolini, Il fascino del juke-boxes, a cura di G. Calligarich (a cura di), Cultura e Ye’-ye’. Quel che penso della canzone, in «Vie Nuove», 8 ottobre 1964. Ho voluto riprendere per esteso i passi citati dalla Calabrese perché lo stesso concetto espresso con parole diverse perde tutta la sua forza.
[18] Pier Paolo Pasolini, La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Torino, Einaudi 1975: 242-244.
[19] Quest’aspetto si coglie bene in un pamphlet di Carla Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Torino, Bollati Boringhieri 1998.
[20] Calvino, che in quegli anni lavora alla raccolta delle fiabe popolari italiane compiendo un’operazione analoga a quella di Pasolini con i canti popolari del Canzoniere (la prima edizione, Einaudi, delle Fiabe italiane documentate da Calvino è del 1956), scrive cinque bellissime canzoni: Dove vola l’avvoltoio, Oltre il ponte, Canzone triste, Il sentiero e Il padrone del mondo tutte musicate da Liberovici. Fortini è autore di dieci canzoni, tra le quali ricordiamo: Quella cosa in Lombardia, un inno nazionale (parodia dell’inno di Mameli) e Tutti amori. Altre canzoni importanti sono: Cantata della donna nubile e Valzer della credulità (di Jona-Liberovici) e Un paese vuol dire non essere soli di Cesare Pavese.
[21] Bisogna tenere presente che si tratta di intellettuali ‘di sinistra’ – pur non essendo organici ai partiti della sinistra, nei confronti dei quali assumono posizioni critiche (ma sempre fraterne) – cresciuti nel seno della società borghese e colta. L’incontro con le culture ‘altre’ spesso diventa uno scontro e sul piano psicologico e su quello culturale. Mentre De Martino approda a una posizione definita di ‘etnocentrismo critico’ e sostiene la necessità per lo studioso di allargare la propria coscienza culturale di fronte a ogni cultura ‘altra’, avviando un sofferto processo di consapevolezza critica dei propri limiti, Pasolini, intellettuale borghese come i suoi colleghi, col cuore aderisce in toto al suo popolo.
[22] «È la Torino della Fiat e degli operai, degli impiegati che arrivano da tutte le parti d’Italia, soprattutto dal Sud, abbandonando spesso un lavoro contadino e bracciantile e le comunità delle quali facevano parte, nelle quali avevano radici antiche, che vengono via via sgretolate. È la Torino resistenziale, quella della casa editrice Einaudi, di Pavese e di Italo Calvino in particolare. È interessante constatare che, nello stesso periodo, molte delle opere di Pasolini, dalle poesie ai romanzi, hanno come riferimento le borgate romane. È naturale che tra gli intellettuali di riferimento di Cantacronache ci siano Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino e Franco Fortini» (Calabrese: 130).
[23] Bisognerà attendere gli anni Sessanta e Settanta perché anche all’interno del Festival di Sanremo si manifestino alcuni sussulti resistenziali nei confronti della canzonetta che ‘istupidisce’. Basti pensare ad Adriano Celentano che con Il ragazzo della via Gluck (1966) critica l’esasperata urbanizzazione e la cementificazione delle periferie e, soprattutto, alla storia travagliata del testo di Ciao amore, ciao (1967) di Luigi Tenco il cui suicidio matura proprio in quell’ambiente che lo costringe a modificare la sua canzone in modo da stravolgerne il significato. Così scrive in un biglietto il cantante prima di darsi la morte: «Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale, e una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi». È importante la testimonianza di Tenco, perché nel 1971 proprio a Sanremo nasce un Contro-Festival – Il Club Tenco, ancora oggi attivo – che si pone l’obiettivo di cambiare dall’interno l’industria culturale sostenendo una canzone più impegnata culturalmente: in questo quadro si inserisce e consolida il fenomeno dei cantautori Cfr. http://clubtenco.it/storia/ (Calabrese: 131).
[24] Sia Gramsci, sia Pasolini, si pongono dentro la tradizione marxista e hanno la medesima visione del processo storico, secondo Calabrese: «Per entrambi è ‘popolare’ tutto ciò che non appartiene alla classe dominante e al ceto degli intellettuali, sinonimo di ‘diretto’, che si collega ad una cultura subalterna. ‘Popolare’ nel pensiero di Pasolini veicola memorie non prive di una certa idealizzazione per i valori che trasmettono (purezza, semplicità) ma allo stesso tempo è il terreno sul quale si innesta l’elemento pedagogico che vorrebbe ‘educare’ proprio gli strati popolari, asserviti al potere distruttivo delle classi dirigenti. Secondo Gramsci, il cui pensiero si distacca da quello degli studiosi coevi, a partire dal Cinquecento, in Italia era avvenuto un progressivo distacco degli intellettuali dalle classi subalterne e la cultura popolare nazionale non era stata in grado di intervenire efficacemente nel processo storico. Il popolo era un coacervo di diversità linguistico-culturali e di stratificazioni sociali senza un baricentro e la sua cultura, che pure aveva assimilato i cascami della cultura dominante, dal Cinquecento al Novecento era rimasta legata all’immediatezza dell’esistenza quotidiana, senza visione storica, capacità di immaginare un futuro, né tantomeno di costruirlo» (Calabrese: 132)
[25] Sono i versi di apertura della IV parte de Le ceneri di Gramsci. Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, in TP I: 820.
[26] Cfr. Canzoniere Italiano, Antologia della poesia popolare. Introduzione di Pier Paolo Pasolini, in SLA I: 886-887.
[27] Il riferimento è a Pier Paolo Pasolini, Il pianto della scavatrice, in TP I: 833.
[28] Ivi: 847-848.
[29] Pier Paolo Pasolini, Volgar’eloquio, ora nell’edizione meridiana di tutte le opere di PPP, Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. II: 2845-2862.
[30] Pier Paolo Pasolini, Incontro con Pasolini, in Per il cinema, Meridiani Mondadori, vol. II: 2962.
[31] A livello della narrazione più superficiale, gli spettatori, ingenui e moralisti, assaltano il palcoscenico per impedire la morte di Desdemona e uccidere i colpevoli. Ma a un livello più profondo, qual è il significato di questa scena? E se qui, oltre all’Otello, ci fosse anche l’influsso dell’Amleto? Pasolini, che nell’adolescenza ha letto tutto Shakespeare, conosce sicuramente la funzione della rappresentazione teatrale nell’Amleto, cui l’autore inglese attribuisce il compito di svelare la verità. D’altra parte, l’influenza shakespeariana è anche nella massima che Jago, rivolgendosi a Otello, pronuncia nella scena 12: «Eh, figlio mio, noi siamo IN UN SOGNO DENTRO UN SOGNO». Nell’Amleto di Shakespeare, com’è noto, il teatro nel teatro è strumento di finzione dal quale emerge la verità. Basti pensare agli effetti che produce la rappresentazione teatrale che mette in scena l’omicidio del padre di Amleto. Come in Shakespeare, anche nel teatrino di Che cosa sono le nuvole? la finzione teatrale è destinata a far emergere la verità, che provoca l’interruzione dello spettacolo. Due rappresentazioni teatrali dunque che si servono della finzione per rivelare la verità. Gli spettatori shakespeariani (il re zio, in primo luogo, e la regina madre dello stesso Amleto) identificandosi reagiscono immediatamente, gli spettatori pasoliniani, pur ingenuamente e senza vera consapevolezza, reagiscono distruggendo. È solo un astratto amore per la giustizia che spinge il popolino a irrompere sulla scena? o, giacché quell’irruzione produce distruzione, Pasolini, ricorre alla finzione teatrale per rivelare, tentando di distruggere, la rocciosa realtà della cosiddetta ‘rivoluzione antropologica’? Cfr. Pier Paolo Pasolini, Che cosa sono le nuvole? in PC I: 959, e William Shakespeare, Amleto, Milano, Mondadori 1993.
[32] Claudia Calabrese, op. cit.: 260-261.
[33] L’introduzione del burattinaio (alter ego di Pasolini) viene eliminata nel film ma rimane nella sceneggiatura. Cfr. Pasolini, Che cosa sono le nuvole? Scena 5, in PC 1: 939-940.
[34] Ivi, p. 959.
[35] Cfr. Luciano De Giusti, I film di Pier Paolo Pasolini, Roma, Gremese editore 1983: 91
[36] Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti 1972: 138-139
[37] Pasolini scrisse i versi intitolati Alla bandiera rossa tra il 1958 e il 1959. Questi versi vennero raccolti, insieme ad altri, nel volume La religione del mio tempo pubblicato da Garzanti nel 1961. Il musicista Sylvano Bussotti cominciò a scrivere la musica per il testo di Pasolini, col consenso del poeta, in vista della Settimana Internazionale Nuova Musica svoltasi a Palermo nel 1962. Claudia Calabrese dedica un intero capitolo del suo libro all’analisi testuale dei versi del poeta e allo spartito musicale di Bussotti (Cfr: 181-220).
[38] L’analisi testuale del Notturno di Pasolini, insieme alla sua collocazione nel contesto storico-culturale del tempo in cui venne concepito, oltre all’analisi della versione musicale compiuta da Ettore De Carolis, occupa l’intero IV capitolo del II Movimento del libro di Calabrese (Cfr: 221-258).
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Francesco Virga, laureato in storia e filosofia con una tesi su Antonio Gramsci nel 1975, fino al 1977 lavora con Danilo Dolci nel Centro Studi e Iniziative di Partinico. Successivamente insegna Italiano nelle scuole medie della provincia di Palermo. Nel 1978 crea il Centro Studi e Iniziative di Marineo che continua ad animare anche attraverso un blog. È stato redattore delle riviste «Città Nuove», «Segno» e «Nuova Busambra». Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Il concetto di egemonia in Gramsci (1979); I beni culturali a Marineo (1981); I mafiosi come mediatori politici (1986); Cosa è poesia? (1995); Leonardo Sciascia è ancora vivo (1999); Pier Paolo Pasolini corsaro (2004); Giacomo Giardina, bosco e versi (2006); Poesia e storia in Tutti dicono Germania Germania di Stefano Vilardo (2010); Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini (2011); Danilo Dolci quando giocava solo. Il sistema di potere clientelare-mafioso dagli anni cinquanta ai nostri giorni (2012).
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