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di Lia Taddei
Situata all’estremo nord della Romania, protetta dalla catena montuosa dei Carpazi, al confine con l’Ucraina, la bellissima regione di Maramures sembra appartenere ad un altro mondo fuori dal tempo.
La vita segue ancora un ritmo antichissimo di un mondo contadino ormai quasi scomparso in altri luoghi, scandito dalle stagioni e dai riti ispirati dal mistero della natura e mantiene viva l’impronta tradizionale nell’architettura, nelle tradizioni e nel modo di vivere le feste.
Non si sa quanto questo durerà, anche qua i tempi stanno lentamente cambiando, già si inizia a vedere sorgere abitazioni nuove accanto alle tradizionali case di legno; manca quasi completamente la popolazione della generazione di mezzo, tantissimi sono espatriati per lavorare all’estero, soprattutto in Italia e in Germania, e sono rimasti solo anziani e bambini e qualche famiglia che non vuole abbandonare la vita rurale.
È però ancora un popolo consapevole delle proprie tradizioni, che cerca di mantenere vivo il proprio passato, tramandando le consuetudini di generazione in generazione. Così come forte è il senso di appartenenza alla comunità ortodossa.
La Pasqua, in particolare, è la festa più importante dell’anno liturgico, la Resurrezione del Signore, che coincide con il risveglio della natura e invita a un profondo rinnovamento dello spirito umano ed è vissuta con intensità e partecipazione, soprattutto nei villaggi.
La Pasqua per gli ortodossi ha lo stesso valore religioso di quella che festeggiano i cattolici, celebrando entrambe in questo periodo la resurrezione di Gesù, ma viene solennizzata in giorni differenti. La differenza nella data non è quindi frutto di divergenze dogmatiche ma è causata dal diverso approccio nel calcolo, sul calendario, del giorno di Pasqua.
Le chiese cattoliche utilizzano il calendario gregoriano, entrato in vigore il 4 ottobre 1582, che è diventato il calendario standard per gran parte del mondo, mentre le chiese ortodosse utilizzano quello più antico, il calendario giuliano.
Inoltre la Pasqua ortodossa cade nella prima domenica dopo l’equinozio di primavera (per i cattolici invece la data è quella della domenica seguente alla prima luna piena di primavera). Di norma le due celebrazioni sono divise da una settimana, ma in alcuni anni la distanza può essere anche di un mese, qualche volta invece le due date possono coincidere.
Un paio di anni fa ho trascorso la settimana di Pasqua in Maramures, partecipando a delle particolari funzioni che si svolgono in quei giorni e che mi hanno particolarmente coinvolto.
La settimana che precede la Pasqua, detta Săptămâna mare, la Grande Settimana, è intestata al lutto e alla meditazione e durante questo periodo vengono celebrate ogni giorno delle lunghe liturgie con le quali si commemora, con particolare pathos, la passione e la morte del Signore.
Il Giovedì santo, chiamato “joia mare”, giovedì grande, per i rumeni è il giorno dei morti. È un giorno di preghiera e la gente si reca nei cimiteri per far visita ai propri defunti.
Quel pomeriggio, aggirandomi tra le semplici tombe del cimitero di Botiza, osservavo le persone che vestite di nero accudivano con amore le tombe dei loro cari; ero immersa in un’atmosfera di quiete dove bianche e semplici croci sbucavano tra l’erba e intorno a me il fiorire degli alberi preannunciava l’arrivo della primavera.
Non c’era tristezza ma si percepiva un sentimento di serenità perché qua la morte è vissuta come un atto naturale e magico, che non interrompe il rapporto con chi se n’è andato, ed è accettata nella prospettiva della resurrezione.
Nel tardo pomeriggio tutte le persone si sono riunite per assistere, dentro e fuori dalla chiesa del cimitero, ad una particolare funzione che prevede la lettura dei 12 vangeli, uno per ogni ora del giorno.
Il pomeriggio del Venerdì santo, o Venerdì nero come lo chiamano i credenti, si celebra invece la messa di requiem, una messa funebre durante la quale si cantano tre brani con riferimento alla crocifissione e alla sepoltura di Gesù.
È in pratica il suo funerale, che segue rituali precisi, come uscire e circondare la chiesa tre volte con le candele accese, ripercorrendo simbolicamente la Via Crucis, con le sue 14 stazioni. Ho assistito a questa funzione presso la caratteristica chiesa di legno del villaggio di Hoteni ed è stato un momento particolarmente emozionante.
Le chiese in legno, tipiche di questa regione, sono dei veri gioielli architettonici e rappresentano l’espressione più alta della maestria degli artisti locali. Risalgono per lo più al XVII-XVIII secolo e sono realizzate interamente in legno, senza chiodi! Tutto è eseguito ad incastro (otto di queste chiese sono state incluse nel 1999 nella lista dell’UNESCO come patrimoni dell’umanità).
ll motivo che portò allo sviluppo di questa tradizione fu il divieto imposto dalla corona d’Ungheria di costruire edifici sacri ortodossi in pietra in quei territori. Vennero perciò usati come materiali da costruzione il legno di quercia, di abete, di olmo e di faggio.
Elementi caratteristici di questi edifici sono le strette navate, i tetti coperti di scandole, piccole tegole di legno, e gli interni decorati con dipinti eseguiti sul legno che rappresentano per lo più scene tratte dall’Antico Testamento. Il legno sotto le mani degli artigiani prende un’anima, acquista una sua personalità.
Il sabato sera si celebra la suggestiva Messa della mezzanotte, la messa della Resurrezione; è usanza che le persone debbano indossare qualcosa di nuovo (simbolo del rinnovamento) e portare con sé in chiesa una candela.
A mezzanotte, a luci spente, con un rito speciale, arriva la “Luce Santa” che passa dal prete con in mano una candela accesa, a tutti i presenti, che a loro volta accenderanno le loro. Si dice “prendere la luce”. È tradizione che, con le candele accese e cantando, il prete faccia il giro della chiesa tre volte, insieme a tutti i partecipanti. Il sacerdote poi si rivolge ai fedeli dicendo “Hristos a inviat”, Cristo è risorto, mentre i fedeli rispondono “Adevarat a inviat”, è veramente risorto.
Tutta la messa viene accompagnata dai canti bizantini. I fedeli poi tornano a casa con la candela accesa, perché si dice che coloro che riescono a tenere sempre accesa la luce nel percorso dalla chiesa fino a casa, avranno un anno benedetto.
La notte è di attesa, di silenziosa preparazione, poi arriva il giorno della Pasqua e il mondo si riaccende. Si canta la resurrezione di Cristo e il risveglio della natura.
Una tradizione tipica in alcuni villaggi è quella della benedizione dei cibi pasquali la mattina di Pasqua, quando le famiglie si riuniscono fuori dalla chiesa, in un prato, ponendo ai loro piedi i cesti con all’interno il cibo che dovrà essere benedetto dal prete.
Il cibo dei cestini è il segno della chiusura della Grande Quaresima, il più lungo periodo di digiuno dell’anno e ha un valore simbolico. Troviamo, ad esempio, il pane pasquale, che rappresenta Cristo come “pane di vita”; le uova che fin da tempi antichi sono la principale immagine della rinascita; i dolci anch’essi a base di pasta all’uovo che mettono insieme il simbolismo cosmogonico dell’uovo con quello del pane della vita; cibi a base di carne (come salumi e prosciutti, o vari tipi di polpette speziate) che alludendo all’Antico Testamento rinviano ai sacrifici fatti prima del grande sacrificio di Cristo. E così via.
Anche il telo con cui si copre il cestino pasquale può avere un valore simbolico, e molte donne di casa preparano un proprio drappo finemente ricamato a mano e talvolta ornato con bande colorate, croci o icone.
William Blacker nel suo libro Lungo la via incantata, in cui descrive il suo lungo periodo trascorso nel Maramures negli anni ‘90, racconta che la mattina di Pasqua andò in chiesa con tutti gli abitanti del villaggio. «Ogni famiglia aveva un cesto pieno di focacce di Pasqua, uova decorate, acqua e gli inevitabili amuleti magici. Gli amuleti erano nascosti bene sul fondo, perché nessuno voleva turbare inutilmente il prete, ma affinché funzionassero era necessario che fossero benedetti. Quindi i cesti furono posati fuori dalla chiesa, dove il prete li benedisse e li asperse con l’acqua santa».
Non so se ancor oggi vengono nascosti degli amuleti ma la tradizione della benedizione dei pasti, la mattina di Pasqua, è ancora molto sentita e partecipata, e quella mattina, nonostante la pioggia, tutto il villaggio era presente, ognuno con i propri cesti ricolmi di cibo; le donne erano vestite a festa con gonne e foulard fioriti. Nell’aria si percepiva un sentimento collettivo di felicità.
E poi tutti nelle proprio case a mangiare il cibo benedetto e i piatti tradizionali, la cui preparazione ha tenuto impegnate le donne da parecchi giorni. Perché la Pasqua in Romania è una festa che va vissuta nell’intimità familiare.
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
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Lia Taddei, nata e vissuta a Trieste, laureata in Psicologia, ha lavorato prima come operatrice psichiatrica, poi come responsabile di segreteria studenti presso l’Università di Trieste. Le sue grandi passioni sono la fotografia e i viaggi, a cui ha potuto dedicare più tempo da quando è andata in pensione. Ama soprattutto fotografare le persone nel loro ambiente, entrare a contatto con culture diverse, vivendo questi momenti come crescita interiore e cercando di essere più viaggiatrice che turista. Adesso che la situazione non le permette di fare nuovi viaggi cerca con la fotografia di scoprire nuovi punti di vista, perché in fondo la fotografia è già di per sè un viaggio – che si fotografi luoghi lontani o vicini. Ha partecipato a vari workshop, viaggi fotografici e recentemente alcune sue foto sono state pubblicate nel contesto di un progetto editoriale collettivo.
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