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Pastoralismo e pastoralità a cinquant’anni da “Padre padrone”. Una prospettiva antropologica

111di Nicolò Atzori 

Life is old there, older than the trees
younger than the mountains, growin’ like a breeze

country roads, take me home
to the place I belong 

Take me home, country roads (1971), John Denver 

Non è proprio vero che tutto, in Sardegna, parla di pastorizia. Non come si crede, almeno, e neanche nei piccoli centri essa è la forma che generalmente si impone nelle visioni del mondo locali, sebbene nell’immaginario isolano il pastore assurga a figura cardinale in grado di tradurre il quid primordiale della cosmogonia sardesca, alternativamente punto di forza o deficit a seconda dell’origine storica o istituzionale della prolusione di turno. Come altre, insomma, la nostra è una società apparentemente in imbarazzo a guardare in faccia simile figura. D’altra parte, i pastori non sono semplicemente la pastorizia, quella tradotta nelle statistiche e nei numeri dei dossier ed esternamente commentata in senso idealistico, ma qualcosa di molto simile a quanto ci ha raccontato Gavino Ledda nel romanzo autobiografico Padre padrone. L’educazione di un pastore [1], pubblicato da Feltrinelli nel 1975, con l’autore ormai trentasettenne, e pietra miliare della narrativa sarda del secondo Novecento.

Il libro è il racconto della sua infanzia mutilata, strappato da suo padre ai banchi della scuola di Siligo per vivere al suo fianco la campagna, e della sua vita fino al congedo militare, a 24 anni, quando cominciarono le prime peregrinazioni intellettuali di un ragazzo che fu analfabeta fino ai 19, frequentatore della sola lingua campestre. Il racconto di sé stesso offertoci da Ledda è insieme atto di coraggio e d’amore: perché è quello di chi, a posteriori, comprende il carico valoriale dell’esperienza vissuta e la onora, ci onora, della sua condivisione; perché dire pastore è dire persona nella sua complessa antropologia, nel potersi dire sardi, rifuggendo goffi tentennamenti e assolutismi culturali. 

È il febbraio del 1944 quando, ad appena sei anni, Gavino viene strappato ai banchi di scuola per incontrare la solitudine e l’amicizia di Baddevrustana, località in cui sorge l’ovile di suo padre Abramo, di cui i compagni di scuola ascoltarono l’«irruente e focoso discorso quasi fosse il primo fulmine ed il primo tuono del ciclone che tra breve si sarebbe abbattuto sulla loro futura esistenza vegetale». Era il momento di diventare grandi o semplicemente di diventare altro, e di farlo altrove, a Baddevrustana, immediatamente raggiunta – fra le lacrime – in groppa al somaro Pacifico che, «nel suo trotto, lasciava indietro la scuola con i compagni che mi ero impresso nella mente».

Il primo grande merito di Gavino Ledda è lapidario, di quel concreto che sembra bastarsi da sé: avere reso il pastore, figura marginale e ambigua per le interpretazioni morali della Sardegna dell’epoca, il protagonista di un’opera letteraria ad esso dedicata e dove egli emerge nella complessità umana e individuale; indipendente, per merito dell’autore, dal disegno esistenziale in cui racchiude la vicenda. Gavino Ledda incarna un dinamismo vitale che si affranca dalla morale pastorale, anzi è messa a nudo, ed è un personaggio che cresce e migliora e pensa e ripensa, rendendo vacua l’idea di quella “fossilizzazione ancestrale” ritenuta intrinseca al mondo della campagna. 

Si sprecano, sulla sua storia, e meglio sulla figura del pastore che emerge da sicura “condanna culturale”, le immagini di colui che – fra loro – ce l’ha fatta, diventando altro da sé e addirittura assistente alla cattedra di Filologia romanza presso l’Università di Cagliari (1971), ben distante dal timorato protagonista dell’opera. Eppure, l’anatomia del pastore così bene descritta e impressa nella carta da Ledda è una e tante vite assieme, con le storie che potrebbero essere di chiunque ad arricchire un viaggio che uomo e ambiente affrontano, fra alti e bassi, attraverso l’emozione decrittata dal linguaggio chiaro dell’autore. Mi è difficile, in tal senso, fare mia la perentoria corrispondenza tra patimento e pastoralità, diversamente declinata secondo la terra che si calpesta, a rammentarci che quelle che intendiamo chiamare culture un senso ce l’hanno, soprattutto nell’esistere in quanto insieme di relazioni continuamente negoziabili, e che nei modi di fare, dire e sentire umani scopriamo le corrispondenze e le difformità che danno forma al mondo; scopriamo che valori e disvalori possono valere pochi km, dopo i quali scoprirsi invalidati e capovolti.

da "Padre padrone" dei Fratelli Taviani

da “Padre padrone” dei Fratelli Taviani

Un qualche senso del tangibile e dell’intangibile, insomma, credo possa avere indotto Gavino Ledda a raccontarsi servendosi della lente d’ingrandimento della storia, decodificando per noi un percorso di vita da appuntarsi e custodire nella saccoccia didascalica della giovinezza, senza mai doverci avere a che fare. Una fuga troppo presto intrapresa, per le nostre generazioni, e che solo al traguardo ci rendiamo conto di non avere mai saputo. Per fortuna, nell’accontentarmi di poco mi è sempre stata troppo cara la campagna e i suoi significati, quelli della raccolta e dell’attesa, dei concerti sonori ed olfattivi, dei frutti acerbi ma guadagnati alla selva impervia, degli orari scomodi e della solitudine, del paese osservato da lontano e del calar del sole quale grande e onorevole nemico.

In fin dei conti, ho la sensazione di conoscerlo bene, Gavino Ledda, almeno se – come poi spesso si sente – il primo ricordo è quello che conta, quello che dopotutto cerchi di difendere e ti sforzi di preservare come anche di limitare. L’incontro con Padre padrone avvenne appena adolescente, in un’estate dei primissimi anni Duemila (sono nato nel 1992), quando l’insegnante d’italiano volle farci familiarizzare con un tema ed un portato storico e culturale che ormai, già esotizzato, vistosamente arrancava nello spirito di quel tempo, sedotto da altre e nuove avventure che tanti territori si apprestavano a intraprendere.

Nel piccolo paese da cui provengo, neanche quattromila anime, nel Campidano centrale, terra del cereale, la pastorizia non è certo maggioritaria e né lo è mai stata. Avevo forse dodici o tredici anni quando acquistai Padre padrone, e ricordo una lettura poco agevole per due motivi, certo connaturati alla mia condizione anagrafica: il primo è che quell’edizione, così eccessivamente scolastica, insaporiva di dovere un narrato già ostico, crudo nell’evidenza della realtà, che ricevevo con brusche interruzioni rappresentate dalle esercitazioni didattiche sistemate perentoriamente tra un capitolo e l’altro senza che il fluire del discorso potesse veramente coinvolgermi; il secondo è che la storia di Gavino, violentemente strappato a soli sei anni alla normalità infantile cui tutto sommato appartenevo, era in certo modo un’antitesi della mia e di quella di quasi tutti i miei coetanei. Meno qualcuno, che attraverso una sincera e amichevole complicità mi introdusse alla polisemica multiformità del pastoralismo e di una vita che, pure non appartenendomi, giunsi almeno a comprendere esternamente, lambita come l’avevo fra queste prime peregrinazioni campestri negli ovili e i racconti familiari non meglio situabili nella mente di un poco più che bambino, frequentando quei linguaggi imperscrutabili che svezzarono Gavino Ledda, introdotto dal dialogo con gli elementi ai futuri studi di glottologia: 

«Il discorso sulla matematica naturale di mio padre, ormai, era diventato una cosa normale e spontanea. Non solo avevo imparato a conoscere i nomi dei punti e dei particolari del campo come avevano fatto gli anziani. Ero andato oltre. Sulla loro scia, senza che me ne accorgessi, anch’io denominavo la natura». 

L’attribuzione di nomi di persone note ai diversi elementi del paesaggio, così umanizzati, partecipava di questa esigenza di esorcizzazione dell’ignoto. Se il governo dello spazio ambientale e poi di quello agrario e domestico che ritroviamo nella cultura contadina è una delle più eleganti vesti indossate dall’intelligenza e di cui Gavino presto si fregia, esso non tarda a farsi forma d’amore nella descrizione ch’egli offre dell’oliveto di suo padre, piantato che questi non aveva ancora trent’anni e adesso vasto e rigoglioso come il migliore di Baddevrustana. 

«Il babbo ci teneva molto. E da quando ero a Baddevrustana, il suo edificio stava venendo su bene, sensibilmente anno per anno. Io lo vedevo potare e lavorare le sue piantine con una brama incontenibile e con passione quasi gelosa. Le accarezzava tutte sui rami e sul fusto fino alle radici, quando le zappava. Cosa che non poteva fare con i figli». 
Pastore sardo

Pastore sardo (@Istituto Luce)

Allo stesso accorato modo, è struggente il triste epilogo pensato da Madre Natura per quell’oliveto, bruciato dal gelo in poche ore e ridotto a landa senza senso; il pastore appare qui doppiamente smarrito: sia per la distruzione del progetto di vita e sia, essenzialmente, per l’improvviso venir meno delle condizioni che avrebbero favorito una vita altra rispetto alle alienanti fatiche pastorali, almeno da risparmiare ai figli o ai figli dei figli e quantomeno garantire loro la sicura rendita dell’olio, necessaria per elevare il rango familiare. Appare interessante lo iato tra la premura, il controllo delle cose e la consueta scaltrezza pragmatica – nella sua economia pratica e addirittura orale – di Abramo Ledda e la forza caduca alla quale espongono i ritmi naturali, in grado di minare repentinamente l’esistenza stessa di una famiglia di pastori, nucleo umano di certa capacità.

In queste righe, a mio avviso uno dei passi in cui più intensamente emerge quella poetica dell’abitare la terra che mi sembra informare il pensiero di Gavino Ledda e già la sua arte scrittoria, è anche possibile gettare luce su quella prigionia morale (ai nostri occhi) di matrice patriarcale che appena un angusto pertugio ha potuto offrire agli uomini fino ad oggi, non meno vessati da costrizioni culturali che ne pretendono un ascetismo emozionale dai risvolti oggi ancora più invalidanti. Forse, è proprio nell’assenza della possibilità anche solo di speculare intorno ad un confronto di tipo umano che il dialogo pastorale con la natura, ora composta di amici inanimati, recita per bocca di Gavino i suoi versi più sublimi; è in questo sfondo che si staglia l’idea del pastore che ingenera, a distanza dallo spazio della produzione, nei centri abitati, dove dietro una ilarità grottesca si annidano invece articolate vicissitudini sociali e relazionali e spaziali, come dopotutto svela la trama geografica derivante dalla distribuzione degli ovili o dal rapporto tra questi e i paesi (si fornisce qualche scatto), nei cui sentieri prendono vita, anche grazie ai racconti di Padre padrone, complesse antropologie del viaggiare. Quando l’acquisto della prima fisarmonica, nel 1955, ebbe per la prima volta ragione della spigolosità di suo padre e dell’impermeabilità degli altri pastori, sciolti in una «estasi istintiva» al suono delle sue melodie, Gavino riconobbe: il luogo aveva sete di dolcezza.

Commentare e forse celebrare un’opera così composita e allo stesso tempo accessibile, racconto di una vita che a quei tempi era misura del possibile e del consentito, appare oggi scontato e certamente ridondante, ma non sarebbe corretto liquidare con una compiacente sinuosità retorica un discorso intorno al significato profondo di dirsi e sentirsi e fare i pastori. L’attualità dello sforzo descrittivo ed auto-interpretativo di Padre padrone, infatti, risiede nell’interpretabilità dei quadri di vita moderni, particolarmente vigili rispetto alle forme di violenza e prevaricazione che cominciano a risultare più nitide nella dialettica dei diritti individuali e dei contesti familiari, la cui semiotica è resa sempre meno monolitica e più articolata in ragione di più dinamici legami interpersonali; a patto che, è evidente, l’azione di ripensamento sia ponderata, senza la pretesa di operare una dannazione di residuali atteggiamenti che a ben vedere informano, prima che la profondità delle strutture sociali, la loro estetica, e così promuovere una condanna della violenza cui tanti pittoreschi personaggi attribuiscono paternità in comodato d’uso opportun(istic)amente rimosse a seconda del dibattito che un regime digitale si preoccupa di tradurre in slogan visuale. Sanza infamia e sanza lode, siamo quel che eravamo. 

Di etnologie e narrazioni della pastoralità 

«Sono molti i problemi che sorgono nel momento in cui si intende definire, fissare, rendere tangibile l’identità di un gruppo. È come voler fotografare una classe di bambini che non stanno mai fermi, che si scambiano continuamente di posto. E magari a scattare la foto è un fotografo anch’egli inquieto e continuamente in movimento». 

51tfqtlzejl-_ac_uf10001000_ql80_Così Marco Aime [2] chiarisce l’ambivalenza dietro il concetto di identità, cui la concezione moderna sembra accordare la statura di principio ispiratore della grammatica tesaurizzante e di matrice turistica che permea tanti territori e, in genere, delle possibilità di auto-rappresentazione celebrativa (in senso anche ideologico) connaturate ai contesti umani. D’altra parte, «la domanda che sorge è sempre la stessa: riduzione, significazione ad opera di chi?», nota la geografa Tiziana Banini [3]. A ben vedere, la figura del pastore sembra rivestire il ruolo di simbolo antropomorfizzato della Sardegna, a cui questa, non di rado, ha affidato le chiavi di una sua rappresentazione promozionale di orientamento più o meno commerciale [4], effettivamente supportata dalle condizioni di un settore, quello primario, che, in rapporto al PIL, si attesta al di sotto del 6%, contro un terziario dominante e al di sopra degli ottanta punti percentuali.

Nelle più becere narrazioni, si è quindi finito per riconoscere nei pastori l’incarnazione o la sublimazione di quei “valori” – genuinità, “vero sardismo”, orgoglio, scaltrezza, coraggio – che, migrati nell’idea del sardo spesso nutrita dal “continentale”, mi pare rispondano precipuamente a esigenze di auto-valorizzazione idealistica adottate in sede politica (regionale e locale) e sintomatiche di una classe dirigente che evita sistematicamente l’analisi strutturale del territorio per preservare un feticcio cosmogonico rispetto al quale è molto più semplice approntare azioni evidenti [5]. Al proposito, Giannetta Murru Corriga, che si sofferma sui modi in cui certe concezioni ritraggono il pastore come una sorta di eroe epico: 

«Se altrove l’immaginario sul mondo pastorale ha anche trovato espressione in una raffinata letteratura bucolica in Sardegna esso ha invece prodotto rappresentazioni letterarie e talvolta scientifiche in cui prevale l’intonazione epica, ed una visione della vita del pastore» [6]. 

montagna_campidani_165031Inevitabilmente, insomma, la scarsità di formulazioni descrittive precise e pertinenti ha agevolato l’attecchimento di un atteggiamento duplice (ma non unico), che Carlo Maxia scorge «nella tendenza comune a ritenere i pastori da un lato essenzialmente individualisti, opportunisti e irriducibilmente solitari, e dall’altro quella di vederli come espressione di un’armonia naturale, di un’eguaglianza assoluta o di una società senza classi»[7]; il risultato, nel bene e nel male, è l’idealizzazione di un ruolo e di una figura sociale oltreché del mondo rurale tutto, interpretato – sempre rigorosamente a distanza – come uno scenario primordiale e rigoglioso ma intrinsecamente privo di vita, dove fare il pastore è prima di tutto incrostazione di una fisiologia familiare e preistorica o coraggiosa resistenza a un cambiamento irreversibile, ad un altrove futuristico che vorrebbe prevedere, in maniera abbastanza bislacca, il medesimo livello di sicurezza culturale per chiunque. 

«Nella letteratura scientifica sul pastoralismo sardo le attenzioni si sono concentrate prevalentemente sui saperi tecnici, su alcune forme contrattuali, su aspetti ecologici ed economici in genere, a volte analizzando con la dovuta attenzione le tematiche legate in vario modo ai dislivelli di potere politico-economico e allo sfruttamento. Tale tendenza però, allo scopo di scongiurare visioni idilliache, cede generalmente alla tentazione di liquidare rapidamente gli aspetti legati alla socialità, alla solidarietà nel lavoro e alla cooperazione “tradizionale”» (Maxia: ibid.) 

i-pascoli-erranti-antropologia-del-pastore-in-sardegnaIn riferimento a questo, possiamo forse individuare in l pascoli erranti. Antropologia del pastore in Sardegna di Giulio Angioni (1989) l’opera principale in fatto di pastoralismo sardo anche nella direzione di una lucida critica del rapporto uomo-animale nelle civiltà preindustriali, costantemente presente in Angioni [8] e a mio avviso cruciale per pensare e situare l’apporto di Padre padrone in una critica della modernità. L’importanza dello studio delle ergologie cosiddette “tradizionali”, dove l’animale, domestico e non, sia il protagonista centrale delle possibilità tecniche e produttive, si rivela infatti doppiamente prezioso per ragionare e scandagliare un atteggiamento particolarmente diffuso in quelle «pratiche contemporanee dell’animalità» di cui nuovamente riferisce Maxia a proposito del fenomeno dei pet, ovvero «un animale o un uccello domestico o addomesticato allevato per compagnia o piacere», come recita la definizione dell’Oxford Dictionary (2013) [9]; un animale accessorio, addirittura “selezionato” mediante lunghi e meticolosi incroci, quale si pretende di costringere ad una umanizzazione iper-emozionale ed egoistica.

Rusigabèdra (“rosicchia-pietra”, tradotto dal sardo), il fedele cane da pastore di Abramo Ledda, è invece un esempio e indicatore formidabile di quell’antico rapporto con lo spazio ambientale e la predilezione per il fare, il dire e il sentire pratici che risiede proprio nella nomenclatura delle cose e delle persone (nei soprannomi, in questo caso), oltreché degli animali che, come il cane di Gavino o il suo asino Pacifico, vengono qualificati secondo i caratteri marcatamente etologici, siano essi fisionomici, sensorio-motori o legati all’indole. Non una rievocazione romantico-nostalgica, ma un doveroso riconoscimento della direzione intrapresa dalla gestione dell’animale è quanto si prospetta in queste righe.

Ciò che meglio riesce a Gavino Ledda, insomma, è quello di abilitare la figura del pastore a quella umanità sociale che non comincerà a derivargli scientificamente che negli anni Novanta maturi, quando Angioni avrà indicato la strada della ricerca e quella di una restituzione scientifica della fenomenologia pastorale, poi brillantemente accolta da tanti suoi allievi e non solo, che contribuiranno indelebilmente a popolare i lavori etnografici in materia di società di tipo “tradizionale” [10].

Eppure, l’immagine del pastore si fa spazio, nella storia umana, come collante che accomuna le società fino dall’alba dei tempi [11]; quella sul pastoralismo, infatti, è una bella storia del mondo umano, antica struttura che, almeno in area europea, fino dal II millennio a.C. sembra orientarsi come specializzazione produttiva riconducibile all’alveo dell’economia agricola, in funzione della quale si svilupperà una dialettica che, specificamente nel caso sardo, si declinerà in chiave del tutto peculiare, ben prima della sistemazione del pastore come perno di un immaginario colonialistico esternamente configuratosi e che gli stessi sardi hanno finito per fare proprio traducendolo in una tendenza all’auto-immedesimazione.

La Sardegna non è la sola. Per quanto riguarda il quadro peninsulare, gioverà ricordare la corrispondenza identitaria tra il pastoralismo e la cultura abruzzese, dove «la pastorizia transumante ha contribuito, con la complicità della letteratura e dell’arte, non solo a segnare di geosimboli il territorio, ma anche a costruire l’immagine dell’Abruzzo oltre i confini regionali», qui ugualmente «praticato sin dall’età dei metalli nella tipologia a breve raggio o economia dei pascoli alternati tra il piano e il monte» ed effettivamente coinvolto in un processo di territorializzazione «al quale fece seguito l’identificazione dell’intera regione con la pastorizia» [12].

Per carpire il vigore semantico, concettuale e figurato del pastore nella storia, non è necessario allontanarsi troppo: nel Vangelo di Giovanni, Gesù avrebbe asserito: «Io sono il buon pastore… e do la mia vita per le pecore» (Giovanni 10, 14-15), schema metaforico che ritroviamo costantemente nella liturgia cattolica e che risulta inscritto, in alcune aree a forte componente rurale, in una tradizione simbolica precristiana che sembra bilanciare il lirismo monoteistico; questo aspetto emerge, a mio avviso, nelle alte pagine di Carlo Levi: 

«Tutto, per i contadini, ha un doppio senso […] ogni persona, ogni albero, ogni animale, ogni oggetto, ogni parola partecipa di questa ambiguità. La ragione soltanto ha un senso univoco e, come lei, la religione e la storia. Ma il senso dell’esistenza, come quello dell’arte e del linguaggio e dell’amore, è molteplice, all’infinito. Nel mondo dei contadini non c’è posto per la ragione, per la religione e per la storia. Non c’è posto per la religione, appunto perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è, realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra. Tutto è magia naturale» [13]. 

9788873431381Non dissimile è questo rapporto in Sardegna, dove, parafrasando Gian Giacomo Ortu, non vi è alcuna attività (principalmente) economica che abbia segnato le vicende storiche sarde quanto l’allevamento del bestiame, che, nelle sue particolari modalità, estensivo e transumante, «ha conformato il paesaggio, condizionato gli insediamenti, originato e costretto la vita delle comunità, è stato luogo e fattore eminente delle dinamiche e dei conflitti sociali, ha prodotto cultura e mentalità, ispirato e figurato le ideologie» plasmando la stessa isola «come coscienza ed immagine di un’individualità storica ed etnica» [14].

Qui, a ben vedere, la struttura agropastorale si incrina vistosamente all’indomani del 1820, un secolo esatto dopo l’inizio del governo piemontese e nell’anno del cosiddetto Editto delle chiudende, che decretò la fine della proprietà collettiva dei terreni, percorsa fino a quel momento, autorizzando quindi i privati a recingere le proprie terre diventandone proprietari assoluti e, come si può immaginare, impedendone l’ingresso alle greggi che videro ridursi drasticamente la disponibilità dei pascoli; scenario, questo, certamente determinante per l’avanzare del fenomeno del banditismo sardo.

Come appare, il pastore è una figura chiave del paesaggio semantico non solo sardo; che in tal caso, però, vede la sua polisemia fronteggiare il riduzionismo esterno che ora si dimostra in grado di elevare la Sardegna a terra di instancabili uomini/donne di scaltrezza e valore e ora, per il prevalere di quella stessa pastorizia (dato quantomai errato), di stabilirne l’arretratezza. Idealizzazioni a parte, meriterà allora addentrarsi nella situazione della pastorizia sarda, oggi interpretabile, nell’opinione pubblica, alla luce dei più meno recenti fatti che hanno coinvolto il controverso MPS – Movimento dei Pastori Sardo, nato per rispondere in maniera coesa alle esigenze e agli ostacoli di un mercato sempre più famelico e spietato – soprattutto alla luce del prezzo della materia prima, il latte – e denunciare l’assenza del governo regionale e di quello centrale rispetto alle crisi che periodicamente investono il comparto (si ricordino le epidemie di lingua blu). Dal 2001, anno in cui una delegazione di pastori sardi raggiunse Genova, in occasione del G8, per tentare di procurare visibilità internazionale alla situazione isolana, tante sono state le tappe della vicenda, poi culminata nella cosiddetta Rivolta del latte del 2019 [15], quando allo slogan Meglio buttarlo via corrispose il versamento del latte sulle strade dell’isola, fra blocchi e manifestazioni: troppo basso il suo prezzo, tanto vale gettarlo o regalarlo. 

31yy82olnbl-_ac_ul600_sr600600_Pastori si nasce, pastori si vuole diventare 

Date queste sfaccettature, non desterà clamore che pastoralismo e pastoralità, ieratici frammenti nella lunga storia umana, recentissima nel secondo caso, giungano oggi a rappresentare, per la Sardegna, un’àncora di contenuto ed emozionalità nel mare magnum della valorizzazione di ciò a cui, definendo patrimonio culturale, consegniamo le chiavi di una scrittura identitaria, una scelta di caratteri materiali e immateriali in funzione dei quali pensarci insieme. D’altra parte, Gavino Ledda conosce molto bene la posta in gioco, ed effettivamente lo ritroveremo proprio in Assandira, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Giulio Angioni [16], nei panni del protagonista Costantino Saru, pastore che si rassegnerà ad accettare la proposta, giunta da suo figlio e sua nuora, di trasformare l’ovile familiare in un agriturismo. Il guanto della sfida lanciato da Angioni ma non solo, empiricamente raccolto almeno in sede scientifica e principalmente antropologica, viene rigettato dall’omissione sistematica delle articolazioni culturali locali che tanti decisori pubblici assecondano: il risultato è la considerazione (anche) della nostra pastorizia come un bacino estetico ed immaginifico a cui attingere goffi figuri in fustagno da sguinzagliare per le sagre e rendere disponibili ai selfie o ai video, secondo una forma di assoggettamento che, trincerato nel fortino dell’esperienziale, parla di sapersi vendere e fissa certe esitazioni nostalgiche in nonluoghi che anche le comunità più refrattarie predispongono, almeno una volta all’anno, per rappresentare ciò che sembra di sé stesse alla luce delle aspettative esterne. Colonialismo digitale.

Ciò che l’era della patrimonializzazione insegna, insomma, è ad aggirare certe condanne culturali con delle versioni immobili e sovrapponibili del passato preindustriale, con «“un reticolo segreto” che ha a che fare con il nuovo ordine delle cose che si è costituito nella nostra vita e del quale esso fa parte come elemento di confine; ha a che fare con l’ordine di un “altro” mondo interfacciato con il nostro, ma sempre meno chiaro e sempre più banale», citando Clemente [17]. Verrebbe da chiedermi, da cultore di una critica del patrimonio culturale: è esso, in tali forme, l’unico dei mondi possibili? Sono persuaso del contrario, e che solo nella memoria dei tanti Gavino Ledda che ancora abitano e ricordano i nostri territori possa albergarne una prova. I pastori dovrebbero essere riconosciuti come “datori del sacro”, osserva lo scrittore di Siligo in una bella intervista [18], ma forse non è nemmeno necessario scomodare il trascendentale. 

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024 
Note
[1] L’edizione da me consultata per questo commento è Ledda G., Vedovelli M. (a cura di), Padre padrone, Loescher, 1978-2003
[2] Aime M., Eccessi di culture, Einaudi, Torino, 2004: 44
[3] Banini T., Geografie culturali, Milano, FrancoAngeli, 2019: 236
[4]https://www.youtube.com/watch?v=CLo5QYn2RLk
[5] Potremmo sviluppare diverse considerazioni riguardo alla “comodità” del patrimonio culturale in quanto dimensione estetico-speculativa privilegiata del fare politico, che non di rado vi attinge per edulcorare e imbellettare la propria progettualità strutturale. 
[6] Murru Corriga G., Dalla montagna ai campidani. Famiglia e mutamento in una comunità di pastori, Edes, Cagliari, 1990: 9 in Maxia C., Sui rapporti socio-produttivi dei pastori in Sardegna. Osservazioni sul presente, memorie del passato e tracce storiche in La Ricerca Folklorica n°52, gennaio 2006: 101
[7] Maxia C., Sui rapporti socio-produttivi dei pastori in Sardegna, op. cit: 102
[8] Un ulteriore prestigioso esempio può essere rappresentato da Sa Laurera. Il lavoro contadino in Sardegna (EdeS 1976), dove l’antropologo guasilese dedica ampio spazio agli animali da lavoro.
[9] Cfr. Maxia C., Sentieri di suoni. Dialoghi ed estetiche della natura e della cultura in Lares, n° 66, 2015: 157-198
[10] Fra questi Franco Lai, di cui si segnala Il pastoralismo e la formazione dei confini comunali nella Sardegna centro-orientale in La Ricerca Folklorica n°38, ottobre 1998: 75-79
[11] Interessanti deduzioni sono contenute in Harris M., Cannibali e re. Le origini delle culture, Feltrinelli, 1979-2020
[12] Scorrano S., L’Abruzzo terra di pastori: tra realtà e immaginazione la costruzione di una identità regionale in Semestrale di Studi e Ricerche di Geografia, n°1/2020: 74
[13] Levi C., Cristo si è fermato a Eboli, Mondadori, 1979: 103
[14] Ortu G. G., L’economia pastorale della Sardegna moderna. Saggio di antropologia storica sulla «soccida», Edizioni Della Torre, Cagliari, 1981: 5
[15] https://www.repubblica.it/cronaca/2019/02/09/news/pastori_sardi_in_rivolta_contro_il_prezzo_del_latte_meglio_buttarlo_via_-218703315/. Com’è ovvio, l’eco mediatica generatasi nel corso degli anni è considerevole, e non mancano gli artisti musicali che hanno voluto manifestare la loro vicinanza alla causa dei pastori sardi, come nel caso della cantante Maria Luisa Congiu: https://www.youtube.com/watch?v=DUYbR2MUeFA
[16] Angioni G., Assandira, Sellerio, 2004. Il film, diretto e co-prodotto da Salvatore Mereu, è visionabile qui: https://www.raiplay.it/programmi/assandira
[17] Clemente P., I musei della DEA. Storie, pratiche e pensieri intorno al patrimonio demoetnoantropologico, Pàtron Editore, Bologna, 2023: 95
[18] https://www.ilreportage.eu/2024/05/i-pastori-dovrebbero-essere-riconosciuti-come-datori-del-sacro-intervista-a-gavino-ledda-di-gabriella-saba/

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Nicolò Atzori, dottorando di ricerca in antropologia sociale presso l’Università degli Studi di Sassari, è una guida museale e didattica (CoopCulture) attiva a Sardara, paese del Campidano centrale. I suoi interessi di ricerca spaziano dall’antropologia del patrimonio – con particolare riferimento all’antropologia museale – all’antropologia digitale, ma non manca di una prospettiva d’indagine incentrata sul paesaggio e sulle tradizioni popolari. Formatosi, fra le altre cose, nell’ambito delle digital humanities, tenta di coniugarne l’approccio a quello della ricerca etnografica ed etnologica in senso classico, secondo l’orientamento dell’antropologica storica. Sta frequentando il master di Antropologia Museale e dell’Arte della Bicocca.

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