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Pastoralismo, progetti locali, ecomusei, sullo sfondo del Covid e della guerra

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il centro in periferia

di Pietro Clemente

La curva che discende

In questi anni di COVID siamo stati invasi dalle statistiche, usate per lo più per discorsi pubblici finalizzati ad informare, a rassicurare o a giustificare scelte negative e difficili per le persone. Pur non essendo un esperto, devo dire che, nella loro mediazione giornalistica, le statistiche perdono la forza della ricerca oggettiva per mostrarsi nella loro nudità nel sostituire analisi approfondite, risposte adeguate e nel colmare lacune per cui finiscono per avere una funzione rassicurante o giustificativa. Solo a piccoli tratti abbiamo potuto avere idea della potenza analitica del lavoro sui grandi numeri e sui processi collettivi.

In qualche caso ci sono stati studi che hanno mostrato sguardi più ampi rispetto a quello nazionale mettendo in dubbio ciò che veniva quotidianamente comunicato ai lettori e ai telespettatori. Insomma vi è un cattivo uso della statistica: i professionisti del settore dovrebbero ribellarsi. Per parte mia continuo a sentirmi parte di una delle voci che quotidianamente compaiono nelle statistiche sulla pandemia. Mi sento parte potenziale del gruppo dei morti che sono per lo più miei coetanei, vaccinati e non.

É da diversi giorni che viene annunciato che i contagi scendono e che a breve saremo fuori della pandemia. Ma ci sono quei 200-400 morti al giorno (ma anche 50–100 sarebbero tanti) sui quali i giornalisti sorvolano. Viene detto che il numero dei morti è l’ultimo a calare, che il numero è diminuito rispetto al giorno prima, che c’è stato un ricalcolo, o addirittura viene sostenuto che non si può dire che sono morti per COVID ma per altre malattie a questo associate. Come dire: se c’è una cifra che non cala è colpa della cifra e non dei dati di fatto. Ogni tanto si sente dire che l’Italia ha l’indice di mortalità più alto d’Europa e che la ‘speranza di vita’ è già calata di vari punti. Noi e i giapponesi non eravamo i più longevi della terra? Una volta ce ne vantavamo, ora ci imbarazza. Mi auguro che, quando tutto sarà finito, qualcuno indaghi sulla strage di anziani che c’è stata negli ultimi due anni. Una delle stragi più pesanti della storia degli ultimi due secoli. Ne attribuisco la responsabilità alle generazioni di mezzo portatrici di una cultura opportunista e crudele, incapace di vedere negli anziani e nella loro tutela un futuro di ricchezza vitale. Una cultura meschina e miope.

Come antropologo, ho cercato di capire giorno per giorno quali potessero essere le ragioni culturali dell’altro nel tempo del COVID. L’altro sarebbero le persone ostili al vaccino, quelle che lo rifiutano, quelle che sentono come forme di controllo autoritario gli strumenti messi in atto per evitare il contagio. In tutta questa variegata alterità non ho percepito una cultura comune. Per alcuni si tratta di quel che gli illuministi chiamavano superstizione, credenze diffuse senza un vero fondamento. Per altri si tratta di frammenti di cultura connessi alla figura di Ivan Illich, al tema della descolarizzazione e del ritrovamento di un mondo di pratiche dirette e non mediate e di una critica alla civiltà, forse erede di Rousseau. Questa critica del nostro tempo è una forma interessante e tutt’altro che banale ma contraddice l’esigenza di una nuova medicina territoriale dove si capisce che sono necessarie istituzioni più articolate e sensibili ai bisogni delle comunità e non da istituzionalizzare; questa critica si accompagna spesso alla convinzione che, vivendo meglio e in modo meno istituzionalizzato, il virus non ci sarebbe e non si diffonderebbe. C’è poi una componente religiosa, assai rispettabile, ma per lo più non riconosciuta dagli stessi protagonisti, che riguarda il carattere “sacro” del corpo, e che richiama è il caso dei testimoni di Geova.

L’unica cosa che accomuna queste diverse forme è la rivendicazione della ‘libertà’ di non vaccinarsi. Che non è libertà di espressione, di giudizio, di movimento. La libertà di non obbligare nessuno a vaccinarsi sostanzialmente difende la libertà del virus e non quella degli esseri umani. La Costituzione non difende la libertà del virus ma dei cittadini. E quindi o si negano le malattie virali o si afferma che la libertà individuale in campo sanitario può comportare un diritto inedito, quello di contagiare. Vi è inoltre un filone di critica dello Stato e del potere, che nasce da una cultura radicale di sinistra, ma che usa argomenti che sono o del tutto anarchici (l’individuo contro lo Stato) o pregiudiziali, in modo perfino banale per cui se il sistema vaccinale è diretto da un militare allora le ASL sono militarizzate.

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Quando mi sono vaccinato ero consapevole del tasso di rischio, basso ma possibile, che correvo, ma sentivo di doverlo correre proprio in quanto membro di una grande comunità in cui – davanti a un rischio comune – il singolo individuo ha una importanza secondaria. É stato come anteporre gli altri, in forma di collettività umana, al singolo. I critici del Green pass sostengono un individualismo radicale di comportamenti, contrario alla idea di un bene comune come la salute. Quando ho letto le prime interpretazioni di Agamben sul Covid, mi sono ricordato di certi estremismi giovanili degli anni ’60 quando tutto era intriso dalla volontà del potere e dall’inganno consumista: tutto era illusione che nascondeva potere. Per fortuna le analisi radicali e insieme elitarie di quegli anni furono temperate e aperte nella cultura della sinistra dalla lettura di Gramsci, dalla consapevolezza delle articolazioni della vita, dalla complessità del potere, dalla polifonia della società civile e dello stesso Stato.

Come è stato detto da molti: perché prendersela con il green pass e non con le carte di identità, la geolocalizzazione degli smartphone, le videocamere davanti ai negozi, Facebook, ed un mondo di tecnologie ambigue e potenzialmente usabili da poteri illegittimi? Quindi, se questo insieme di posizioni contro vaccino e green pass non ha un chiaro senso visibile e comprensibile forse nasconde un significato ulteriore. Ernesto De Martino ne La fine del mondo si chiede di fronte al magico, quale razionalità nascosta sta dietro la coscienza ignara, l’incoerenza, la evidente non corrispondenza col mondo della vita? Trasponendo il concetto di magico di De Martino all’antivaccino, si può fare l’ipotesi che queste rappresentazioni nascano da una crisi della presenza che ha ragione di essere ed è assai diffusa. É un sentimento di disagio e di vuoto che proviene dalla mancanza di progetti condivisi per una società futura, di processi di cambiamento visibile di una realtà dove l’ingiustizia e il conflitto sono sempre più drammatici e dove la mancanza di una opposizione significativa sui temi delle disuguaglianze è molto forte.

In questo momento la sinistra, ‘realisticamente’ avvinghiata a Draghi per paura di perdersi, offre un panorama sconfortante e forse è così anche in Europa. Il fatto che l’Europa abbia perso centralità come riferimento della cultura e dei diritti fa parte di una crisi epocale di valori e di progetti di cui siamo parte. Così il tema del vaccino diventa occasione per costruire una conflittualità radicale, per mettere in atto conflitti che bruciano una domanda collettiva di cambiamento in ideologie e battaglie, che la riducono a un estremismo senza orizzonte. Sarebbe utile invece che la ricerca sociale facesse una analisi fine ed aggiornata delle trasformazioni, dei mutamenti della vita, degli stili e delle idee, delle possibilità collettive di misurarsi con la solidarietà e col cambiamento che sono stati al centro in modi e momenti diversi della pandemia. La solidarietà in questi due anni è stata praticata a livello di massa da chi ha scelto di vaccinarsi, ed è da qui che si può configurare una prospettiva, un segno, un progetto ulteriore di società ricca di beni comuni, di accoglienza e di uguaglianza. Non si tratta di qualcosa di vicino, ma di una utopia praticabile della quale riconoscere e potenziare le tracce. Temi che sono al centro della nostra riflessione in Il centro in periferia.

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Dopo il dibattito di qualche anno fa su Dialoghi Mediterranei (n.41- 44) sul rapporto tra musei e aree interne [1] mi sembra importante aprire Il centro in periferia a una riflessione sugli ecomusei [2]. Questi ultimi, pur in un quadro definitorio complesso, e entro leggi regionali diverse e non presenti ovunque, sono programmaticamente legati alla specificità dei territori sui quali insistono e quindi essi hanno come missione intrinseca quella di porre il centro in periferia. Il che significa attivare comunità, reti, partnership, connettere attività produttive e culturali, turismo e protagonismo dei residenti. Gli ecomusei hanno incorporato nel loro stesso nascere il tema del ‘Riabitare l’Italia’, anzi ne sono una possibile coniugazione.

Con la Rete Ecomusei Piemonte si è convenuto, a partire da questo numero, di avviare un’autopresentazione dei vari ecomusei che ne fanno parte in un quadro generale della missione e della legislazione di riferimento piemontese. Quasi per caso nel numero è presente anche il racconto della vita dell’Ecomuseo delle Acque di Gemona, e i due testi è come se si rinforzassero a vicenda sui principi e sulle pratiche. Ho detto ‘quasi per caso’ perché l’Ecomuseo delle acque è anche l’editore della pubblicazione del volume di De Varine L’ecomuseo singolare e plurale. Una testimonianza su cinquant’anni di museologia comunitaria nel mondo, che fa un bilancio dell’esperienza ecomuseale dalla sua nascita. Qui nel Centro in periferia, ne viene proposta una recensione densa e critica che dialoga benissimo con gli altri testi. Avendone l’occasione, mi è parso importante dare spazio e conoscenza all’Ecomuseo “I luoghi del lavoro contadino e dell’artigianato” legato a Buscemi e all’area degli Iblei, e avvicinare queste esperienze a quella del Parco Archeologico di Himera, Solunto e Iato, e al progetto di rigenerazione, nel quadro di uso comunitario del territorio. della grande area ex manicomiale di San Salvi a Firenze, Sono sei testi che, con qualche intersezione relativa a principi generali e indirizzi internazionali [3] mettono in campo esperienze e progetti il cui tratto comune è quello della valorizzazione delle diversità dei territori storici, la creazione di reti per attivare processi locali in cui i cittadini residenti siano coinvolti e protagonisti. Con le ambiguità del termine e del dibattito che li caratterizza le ‘comunità’ e i territori sono il cuore dell’esistenza di queste realtà. 

cantastorie-rivista-tradizioni-popolari-56263f8d-7605-42d9-90e8-5d618099727cAlme d’eroi 

Dai ricordi del liceo mi torna spesso alla mente un verso dell’apertura dell’Iliade dedicato alla guerra che: «molte anzitempo all’Orco/generose travolse alme d’eroi». Questo verso mi fa pensare ad amici, a maestri, che nella mia vicenda hanno avuto un ruolo che mi sento di considerare ‘epico’. Ed ora quel verso mi viene alla mente per Giorgio Vezzani, che in queste pagine viene ricordato per il suo tenace lavoro di rete verso la cultura dei cantastorie della musica e delle tradizioni popolari. Sempre dietro il sipario, Vezzani, uno studioso e cultore appassionato, ha cucito esperienze, storie, eventi nella sua rivista Il cantastorie e ha incontrato con bonomia e burbera timidezza artisti di strada e professori che non hanno mai smesso di apprezzarlo. É uno degli eroi del nostro mondo che nasce tra cultura popolare e culture subalterne, che oscilla tra localismo e universalismo, tra mondo e campanile, che – per il Ministero dei beni culturali prima e della Cultura poi – sta sempre in periferia e al margine.

Eroi della diversità, della località, del mondo che cambia palmo a palmo sotto l’universo della globalizzazione e dell’urbanesimo come forma di vita alla deriva, eroe anche della cultura del ritorno alle aree interne come forma di ribellione e di rinascita. L’Orco o l’Ade accoglieranno insieme Giorgio Vezzani e Gian Luigi Bravo, che in altra parte della rivista viene ricordato in un’intervista fattagli da Piercarlo Grimaldi. Bravo, docente di Antropologia a Torino, si racconta astigiano, legato al mondo del folk come alla musica di Paolo Conte, come uomo che ha coniugato insieme jazz, judo, folk. Si troverà facilmente al tavolo dell’Osteria dell’Ade a chiacchierare con Vezzani sulle culture legate ai mondi locali, dai vini, ai canti, ai cibi. 

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Davanti a questi mondi di culture locali mi pare molto interessante il racconto in queste pagine del Festival delle periferie di Roma, promosso dal RIF – Museo delle Periferie (Azienda Speciale Palaexpo nell’ambito di Roma Culture). Qui si parla dell’evento “Periferie. biografie, teorie e politiche dei mutamenti globali al tempo della pandemia” che ha messo insieme quattro testimonianze sulla perifericità nate nelle periferie romane, in quelle insulari della Sardegna, in Norvegia e nell’India/Stati Uniti. Un modo davvero denso di mettere in scena la categoria della perifericità alla scala del mondo. Forse questa è la dimensione più lungimirante dell’idea stessa di un centro in periferia, perché serve a guardare il nostro mondo da fuori. L’insistenza di tanti intellettuali a considerare finita la centralità storica dell’Europa, a vedere l’Europa stessa come periferia del mondo, è preziosa per decentrare lo sguardo e progettare un futuro differente.

Un punto forte de Il centro in periferia è dar voce e rilievo ad esperienze plurali, a realtà specifiche e originali. E ce ne sono molte in queste pagine legate a corsi di formazione, a mostre, a progetti ed eventi. In questo numero mi colpisce particolarmente il tornare in scena del ‘pastoralismo’ non più – come spesso è capitato negli studi antropologici – come oggetto di studio, ma come proposta di futuro, come ambito di formazione sia teorica che pratica. Forse per la mia storia ’sarda’ il pastoralismo è sempre un fenomeno inquieto, mai pacificato. Le attività di molti enti e associazioni propongono la pastorizia come modo per salvare il paesaggio dal declino, come modo di ottenere sia sviluppo che sostenibilità ambientale. É un mondo che ha tanti volti ed ha orizzonti straordinari in tanti studi. In queste pagine ho recensito con entusiasmo il film di Anna Kauber In questo mondo [4] sulle donne pastore. Il mondo della pastorizia mi fa pensare alla storia orale di Colitti [5], ma anche a Zio Josfett [6], ai bifolchi della mezzadria toscana ed emiliana, alle figure più specializzate del mondo contadino, e per lo più caratterizzate da una ‘vocazione’ che veniva trasmessa nella famiglia [7] . Penso soprattutto al grande classico dell’antropologia i Nuer di Evans Pritchard, dove i maschi parlano delle loro mucche cui sono più affezionati che alle loro spose. Una dimensione di una civiltà locale diversa basata su un sentimento di comunanza e di affetto tra mondo umano e mondo degli animali. L’idea di una alleanza tra i viventi, guidata da greggi di pecore e di mucche.

Nelle nostre pagine sono i borghi (o uno dei vari sinonimi di questa parola) ad avere la scena, sia direttamente, come nel caso della progettualità culturale e ambientale del Comune di Santu Lussurgiu, nell’ambito PNRR, o della Festa del vino Novello di Sardara, sia nel resoconto di una mostra dedicata alla vicenda di Antonio Leonardo Verri, uno scrittore salentino radicato nel mondo tramite la sua terra. Spesso gli scrittori tracciano linee di rapporto col territorio che sociologi, economisti, antropologi non sanno trovare. Cosa che vale anche per una ulteriore mostra quella su Avvicinàti amici… c’è Busacca! Mostra di cartelloni, fotografie e documenti del grande poeta-cantastorie siciliano Cicciu Busacca (1925-1986), un fondatore della poetica dei paesi contadini e delle loro migrazioni. Infine il tema dello spreco alimentare esaminato da un punto di vista locale, e connesso soprattutto alla dispersione delle risorse nella dimensione urbana. Poche statistiche e qualche racconto mostrano la quasi assenza di spreco nella dimensione della vita quotidiana dei piccoli paesi.

Il primo CIP, settembre 2017

Il primo CIP, apparso nel n. 27 di Dialoghi Mediterranei, il 1 settembre 2017

Anniversari

La rassegna di esperienze e progetti del mondo dei piccoli paesi che ho voluto chiamare Il centro in periferia (detta sinteticamente CIP dal direttore Cusumano e da me), avrà compiuto a settembre, il quinto anno di vita. Il numero 54 registra il 27° atto di presenza. Questa rubrica che è una parte della rivista ha forse bisogno di un bilancio, di una messa a punto. Ancora non sono in grado di farlo. Percepisco una certa frammentarietà dei testi, la perdita di luoghi comuni di incontro extrarivista, la mancanza del dibattito su come va avanti il progetto di Riabitare l’Italia. Il CIP sta al fianco e vicino all’associazione Riabitare l’Italia e alla collana che l’Editore Donzelli ha dedicato a questo tema, è contigua ai progetti della Società Italiana dei Territorialisti, segue le vicende non sempre politicamente fortunate della Strategia Nazionale Aree Interne, guarda alle iniziative dell’UNCEM [8], alle pagine di Dislivelli e di altre riviste.

Ma nascendo dall’esperienza di un piccolo gruppo di associazioni locali che non si incontravano fisicamente (a Roma, a Soriano Calabro, a Paralup, ad Armungia) il CIP ha difficoltà a fare il punto. La proposta editoriale che il direttore mi aveva offerto per un libro che raccogliesse i vari testi del CIP mi ha visto in difficoltà sia di legittimazione che di completezza. Tra i testi di ricerca sui luoghi e i testi che danno voce al lavoro nei luoghi c’è sempre una differenza di stile. Possono coesistere in una rassegna ma non in un libro. Inoltre quale prospettiva strategica anima questi scritti? In un libro è necessario dichiararla.

Il mondo dell’associazionismo mirato allo sviluppo locale è vario e composito, facile al conflitto interno, sensibile alle accuse di ‘borghismo modaiolo’, accomunato da pochi termini come: coscienza di luogo, ritorno e/o restanza, riabitare, principi territorialisti. Io preferisco che tutte le scelte e tradizioni, di moda o no, stiano fatte insieme, perché è così debole la forza numerica dei protagonisti che non è il caso di perderne nessuno. Mi pare necessario realizzare una polifonia complessa. Ma ancora non vedo nelle varie iniziative un avvio di coordinamento delle diversità come in un coro. Vedo un caleidoscopio che non ha ancora trovato la forma di insieme, un puzzle molto lontano dal produrre l’immagine ricercata.

Nel momento in cui torna l’immagine della guerra in Europa tutto questo rischia di essere sconfortante. Per me che sono ‘entrato nella storia’ con le manifestazioni antiamericane sul Vietnam, e con una associazione pacifista nel tempo della minaccia atomica, questo nuovo conflitto, rischia di configurarsi come un paesaggio tragico. Certo non cambiano le scelte di svolta di civiltà che ci spingono verso le zone interne e i piccoli centri. Anzi si rafforzano perché da sempre i mondi contadini e pastorali sono stati contro le guerre e sono – anche oggi – più vicini al futuro che non uno schieramento di carri armati di ultimo modello, ma queste circostanze chiedono forse di più al nostro lavoro di riflessione e di racconto di esperienze. Qualcosa di più per cui mi riprometto di fare un bilancio per il numero di settembre.  Accogliendo proposte da tutti.

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
Note
[1] Aperto da P. Grimaldi, D. Porporato, I musei etnografici. Forme e pratiche di resilienza alpina [2012], in “Dialoghi Mediterranei”, n. 41, 2020.
[2] Sul n.44 de Il centro in periferia era apparso uno scritto di Andrea Rossi sull’ecomuseo del Casentino: Andrea Rossi, Gli ecomusei e la sfida del contemporaneo: considerazioni e esperienze
[3] Convenzione europea del paesaggio (2000), Convenzione Unesco sul Patrimonio Culturale Immateriale (2003), Convenzione di Faro (2005). 
[4] P. Clemente, Donne pastore. “In questo mondo” di Anna Kauber in “Dialoghi Mediterranei”, 2020, n.42. 
[5] G. Colitti, Il tamburo del diavolo. Miti e culture del mondo dei pastori, Roma, Donzelli, 2012.
[6] Si tratta dello zio ‘bifolco’ di Ettore Guatelli, che era innamorato delle sue vacche, e le cercava anche quando era malato in ospedale. 
[7] Un racconto tra i tanti dell’Archivio di Pieve Santo Stefano è quello di Margherita Ianelli, vincitrice del Premio Pieve nel 1996, col suo libro Gli zappaterra, Milano, Baldini e Castoldi, 1997. É stato pubblicato anche il suo Storie dei miei amici animali, Bologna, Ponte Nuovo, 1993.
[8] Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani.

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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); Tra musei e patrimonio. Prospettive demoetnoantropologiche del nuovo millennio (a cura di Emanuela Rossi, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021).

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