«La festa già attestata, secondo la tradizione, a partire dal XIII secolo, ha preservato inalterato un nucleo di riti con caratteri di elevata arcaicità». Chi ha scritto queste parole, persona singola o gruppo di esperti, dimostra di interpretare male gli enunciati della Convenzione Unesco del 2003, e di non possedere basi, anche elementari, della demologia e della antropologia; col risultato che i termini usati, per indicare l’importanza della festa, si rivelano vuoti di significato, come l’“elevata arcaicità”, che non è tra le prerogative che chiede l’Unesco, oppure non scientificamente corretti (il verbo “preservare” non si addice proprio ad una “tradizione” culturale, né ancor di più l’aggettivo “inalterato”). Eppure queste parole costituiscono il punto di partenza di un documento importante, perché sono contenute nella domanda di accesso alla lista di quei patrimoni culturali immateriali che aspirano al riconoscimento dell’Unesco.
Ho già avuto modo in altre occasioni di manifestare le mie perplessità in merito ai processi di patrimonializzazione, sia per quanto riguarda il paesaggio, sia per quanto riguarda le feste, sia, infine, per quanto riguarda la proprietà intellettuale. Soprattutto mi sconcerta il fatto che nelle richieste rivolte all’Unesco spesso e volentieri non si dice la verità, non ci si accontenta, come è umanamente lecito, di indorare la realtà, ma si spacciano per veritieri, inventandoli per l’occasione, fatti mai avvenuti, come è accaduto a proposito della dichiarazione di “patrimonio dell’umanità” della Val d’Orcia (Provincia di Siena) [1]. So, per lunga esperienza di folklorista, che nella cultura popolare non esiste una “proprietà intellettuale” simile a quella del copyright [2] e per la Convenzione Unesco e per quella Faro, infatti, tale assenza non è un elemento che incida sui processi della patrimonializzazione dei beni culturali, ma non tenerne conto comporta il rischio che questi possano cadere o nelle mani di persone che si improvvisano cultori di storia e di antropologia, il che sarebbe il male minore, o in quelle di organizzazioni che non hanno gli stessi obiettivi dell’Unesco; tra i patrimoni culturali immateriali, quelli, per esempio, relativi alle feste religiose del Sud Italia, sono i più permeabili alle infiltrazioni malavitose, come testimoniano le attuali celebrazioni di Settimane sante (Taranto, Trapani) e di feste di madonne e di santi vari che durante le processioni fanno omaggio, con l’inchino delle statue, ai boss che se ne stanno sui balconi ad assistere alla sfilata. Di fronte a questi rischi, l’Unesco mi sembra del tutto disarmato.
C’è da dire, tuttavia, che la Convenzione del 2003 invita gli Stati a predisporre leggi e provvedimenti adeguati per la tutela e la salvaguardia dei beni culturali immateriali, quindi se in Italia chiunque può avanzare candidature strane, come la «lavorazione tradizionale della castagna del prete» o della «cultura del caffè espresso napoletano»[3],non è solo responsabilità dell’Unesco con il suo ecumenico concetto di “cultura”, ma anche dello Stato o delle Regioni che non hanno approntato normative apposite.
Quando si tratta di salvaguardia di beni immateriali, in genere ci si riferisce alle feste e ad altri aspetti della cultura tradizionale, che riguardava, fino ad una settantina di anni fa, quasi esclusivamente le classi popolari subalterne e che in qualche modo persistono ancora nella nostra società postindustriale. Sennonché la maggior parte delle feste contadine si sono contaminate e confuse con quelle prodotte a livello globale negli ultimi decenni, le quali hanno altri contenuti e altre modalità di svolgimento e altri fini rispetto a quelli della tradizione del mondo preindustriale. Il clima che si creava attorno ad una festa, laica o religiosa che fosse, prima dell’avvento dei mass media, non era certamente lo stesso di quello che si crea oggi: allora le condizioni materiali di vita e la circolazione culturale erano molto più semplici ed ogni festa produceva gli elementi necessari a dare, ad ogni comunità, il senso dell’esistenza e la coscienza di sé stesse fino alla successiva ricorrenza dell’evento. Nel mondo odierno, invece, nonostante la volontà di alcuni organizzatori, una festa vale l’altra e il riconoscimento Unesco serve tutto al più a collocare, in maniera molto spesso inerte, nella memoria collettiva quel particolare aspetto che ha caratterizzato per lungo tempo una determinata comunità.
La (con)fusione tra “tradizione folklorica” e cultura di massa può essere ovviamente tollerata o accettata; mi sembra, invece, un fatto grave, antistorico, che con essa si perda quel poco di alterità (o di “differenza”, come piace dire a Remotti) che è rimasta e che ha caratterizzato il folklore nei confronti della cultura egemonica, così come, ad altri livelli, per la loro alterità il Barocco di Noto si distingue dal razionalismo dell’Eur, e il paesaggio della Val d’Orcia da quello della Pianura Padana. Nei pochi esempi di patrimonializzazione che conosco, invece, mi pare che non ci sia quest’attenzione a far risaltare ciò che in passato era ritenuto significativo. Per questo, quando si parla di Unesco e di patrimonializzazione c’è qualche discordia tra gli studiosi di demologia e antropologia, come si può vedere dal vasto dibattito degli ultimi quindici anni registrato negli innumerevoli libri e saggi che qui non mi soffermo a ricordare, limitandomi a dire che non tutti sono d’accordo sulle cosiddette “patrimonializzazioni” [4]. A chi, infatti, ne accetta i princìpi si contrappongono altri che invece vedono rischi di poca scientificità, oppure temono, come gli etnomusicologi, che la proprietà della tradizione sia attribuita ad altri gruppi invece che confermarla a quelli che ne sono stati per molto tempo i veri custodi [5.]
Secondo me, la debolezza dell’Unesco sta nella mancanza di storicizzazione dei fenomeni culturali, dalla quale derivano i confronti ambigui che tiene con gli interessi e i campanilismi locali nonché le “furbizie” che si manifestano là dove c’è odore di business. Di tutte queste problematiche ha discusso Berardino Palumbo qualche anno fa nel volume L’Unesco e il campanile (Meltemi, Roma 2003), dove è dimostrata l’inconciliabilità, forse irrisolvibile, degli interessi localistici, a volte gretti e provinciali, con la visione universalistica e la concezione alquanto astratta di “eredità culturale” delle proposte Unesco[6].
Ma senza giungere a giudizi radicali, è sufficiente un po’ di buon senso per vedere come la richiesta del titolo di Patrimonio dell’umanità non può essere lasciata a chiunque. Come scrive Palumbo, riferendosi alla sua esperienza professionale, «non puoi scrivere sul rituale di san Giovanni se non conosci ciò che i folcloristi hanno scritto su quell’area»[7]: così non si può dichiarare patrimonio dell’umanità un paesaggio senza tener conto della sua storia naturale e delle attività svolte da quegli uomini che per decenni, o secoli, vi hanno vissuto e lo hanno modificato. Maneggiare i cosiddetti “beni culturali immateriali” (il canto dei tenores sardi, forme del teatro popolare, o gli stessi paesaggi) richiede conoscenze scientifiche ampie che generalmente le associazioni locali e gli amministratori politici non hanno, né hanno l’umiltà necessaria per richiedere un aiuto competente; più spesso preferiscono affidarsi ad enti e persone che hanno le possibilità politiche e manageriali di realizzare i progetti nel tempo più breve possibile, perché per loro è importante una pronta visibilità e l’immediato sfruttamento commerciale che deriva dal riconoscimento Unesco [8].
L’Unesco si prefigge di salvaguardare i risultati più significativi delle secolari attività umane, a livello di arte, di poesia, di abilità tecnologica, di intelligente sfruttamento delle risorse: è questo certamente uno scopo nobile e di grande valore morale, oltre che culturale; per questo antropologi, storici, giuristi, archeologi, paesaggisti e tanti altri hanno entusiasticamente aderito alle sue proposte e vi lavorano con altrettanto entusiasmo. L’Unesco, tuttavia, pecca nel non voler dare indicazioni su come comportarsi e sulla necessità che nei comitati per la candidatura ci siano persone esperte; si limita a dire che spetta ai singoli Stati disciplinare in maniera chiara tutto il settore, dalla definizione di cos’è “il bene culturale immateriale”, fino alle procedure che le comunità devono osservare per arrivare alla patrimonializzazione.
Purtroppo le cose non stanno così, con il risultato che siamo costretti ad assistere a vicende poco corrette scientificamente e moralmente poco edificanti, come quella cui accennavo in apertura di questo testo e che adesso illustrerò più distesamente. Si tratta di una richiesta di iscrizione alla lista dell’Unesco dei patrimoni culturali immateriali di una festa patronale che si svolge a Macerata Campania, in provincia di Caserta. Ne parlo qui con il solo intento di attirare l’attenzione sulla gestione locale dei processi di patrimonializzazione che non sempre rispondono alle norme dell’etica e della scientificità. La Regione Campania ha pubblicato, in seguito ad un regolare bando, la graduatoria dei progetti da presentare per l’iscrizione alla lista ICH dell’Unesco, manifestando nello stesso tempo la volontà di fornire i finanziamenti per la loro realizzazione. Si tratta di otto proposte per un preventivo complessivo di € 1.286.800, somma che, senza entrare nel merito dei progetti, immediatamente appare piuttosto gonfiata: il che già, se fosse vero, sminuirebbe la serietà dei progetti, perché una cifra siffatta dà l’impressione che coloro che li hanno redatti pensano che la patrimonializzazione possa essere anche un’occasione di lucro [9]. L’aspetto, tuttavia, più sconcertante è che la Regione Campania ha pubblicato il bando senza aver prima predisposto una normativa che disciplini, secondo le intenzioni dell’Unesco, i contenuti e le procedure delle patrimonializzazioni. Con il risultato di offrire finanziamenti anche a proposte poco credibili sul piano della realtà storica e della scientificità.
Tra queste proposte ce n’è una che riguarda una festa patronale di cui mi sono occupato più volte negli anni scorsi, sia per descriverla [10], sia per analizzarla nelle sue varie componenti, quelle tradizionali che ancora resistono e quelle invece acquisite recentemente e che sono state incorporate nella tradizione, pur se appartengono alla moderna cultura di massa [11] .
La festa è quella di sant’Antonio Abate che si celebra il 17 gennaio a Macerata Campania (CE). Si tratta di un evento complesso perché, cadendo in un periodo dell’anno denso di avvenimenti e di ricorrenze riguardanti il solstizio d’inverno, in esso confluiscono in maniera inestricabile elementi eterogenei appartenenti ad epoche e tradizioni diverse. Accanto, infatti, ai riti religiosi del Cattolicesimo, vi si rinvengono tracce legate alle antiche feste di inizio d’anno, dai falò della festa solstiziale della luce e del fuoco ai riti di passaggio stagionali e calendariali universalmente salutati producendo rumore; inoltre, molto forte è la presenza di elementi carnevaleschi, come le figure in cartapesta che vengono bruciate in piazza [12]. L’aspetto, tuttavia, più vistoso della festa, quello che l’ha resa piuttosto famosa, è la sfilata di enormi carri su cui prendono posto le paranze dei bottari, nutriti gruppi di persone che, dirette da un capoparanza, percuotono ritmicamente botti, mastelli e falci accompagnando un’orchestrina che esegue canti della tradizione campana e canzoni napoletane moderne. I carri con i bottari sono il risultato di una sincretica commistione di ciò che resta dell’antica tradizione contadina, che segnalava il passaggio da un’annata all’altra producendo un forte rumore, e un elemento spettacolare, simile, per certi versi, a quello dei carri carnevaleschi di Viareggio.
Chi sono i promotori della richiesta che esprimono la volontà di assumersi la responsabilità scientifica e organizzativa di tutelare e salvaguardare questo “patrimonio culturale immateriale”? Ovviamente chi ha lavorato e lavora di più per raggiungere questo scopo è l’Associazione delle “Battuglie di pastellessa” che ormai da alcuni decenni si adopra per la realizzazione di questa festa piuttosto complessa [13]. L’Associazione è emanazione della Parrocchia di S. Martino, dove si pratica il culto di sant’Antonio Abate, ed ha lo scopo di organizzare le attività che si svolgono in preparazione della festa e durante la sua celebrazione e quindi di dirigere tutte le operazioni che non pertengono al settore liturgico. Se fino al 2008 circa l’Associazione aveva qualche facoltà di gestire con autonomia alcuni settori delle celebrazioni, ultimamente il controllo da parte della parrocchia si è fatto più stretto e per questo si cerca di dare importanza e visibilità maggiore a quegli elementi che appartengono alla liturgia ufficiale, mentre sono privati del loro valore antropologico quegli aspetti lontani dal cristianesimo, come quelli carnevaleschi. L’elemento che maggiormente ha assunto importanza è la sfilata dei carri dei bottari, che risponde del tutto ai gusti della cultura di massa e su cui la parrocchia non ha nulla da obiettare.
Dalle testimonianze orali raccolte durante la mia ricerca e da quelle che ci hanno lasciate scritte gli storici locali, si deduce che, fino agli anni ‘60 del secolo scorso, c’era una netta separazione tra la celebrazione che si faceva in chiesa e la festa che invece si svolgeva per le strade del paese, dove singoli o gruppetti di persone giravano percuotendo botti e falci e cantando strofette in onore dell’anno nuovo e questuando beni alimentari. In sostanza si trattava di una festa prevalentemente contadina che, pur non coinvolgendo tutta la comunità, era condivisa da tutti perché l’agricoltura era la principale attività economica del paese. Intorno agli anni ‘70 del secolo scorso, grazie all’iniziativa della parrocchia, ci fu una prima organizzazione della festa che vide riuniti coloro che prima si erano mossi singolarmente e in modo spontaneo. Da allora, l’egemonia della parrocchia si è fatta sentire maggiormente, sempre, però, tramite il comitato apposito.
Da soli, il comitato organizzatore delle battuglie dei bottari e la parrocchia di San Martino, non avrebbero avuto la forza e la capacità di soddisfare tutte le richieste che l’Unesco avanza per garantire e garantirsi un minimo di serietà e correttezza scientifica. In un primo momento l’Associazione ha contattato alcuni antropologi conosciuti frequentando con tenacia le conferenze che l’Unesco convoca annualmente per discutere le candidature; siccome probabilmente presso costoro ha trovato la disponibilità scientifica ma non quella operativa, ultimamente ha provato a percorrere una qualche scorciatoia, indicata, sembra, da un giornalista che lavora presso TV2000, un canale televisivo vicino al Vaticano. Questi è entrato a far parte del gruppo proponente la candidatura della festa alla lista Unesco perché è l’autore di un film documentario sui bottari e le loro percussioni, a cui la cittadinanza di Macerata ha decretato un grande successo; non solo: la stragrande maggioranza ritiene che l’interpretazione della festa veicolata dal film sia corretta, tanto da doverla fare propria. Sennonché sin dal titolo del docufilm, il giornalista mostra di avere poca dimestichezza sia con i temi antropologici, sia con la stessa festa; e se invece la possedeva è stato bravo nel fingere di non averla. Difatti il suo lavoro si intitola Libera nos a malo e ha per sottotitolo La musica di Sant’Antuono contro il diavolo a Macerata Campania. Si tratta, in breve, del tentativo di interpretare “cattolicamente” una festa che tutto può avere tranne caratteristiche corrispondenti ai canoni del Concilio Tridentino o del Vaticano II.
Alcuni storici locali, nel tentativo di capire la sua funzione, hanno spiegato che il rumore serve “a scacciare gli spiriti maligni”, quelli che potrebbero impedire il ritorno della buona stagione o che potrebbero fare andare a male i raccolti; tale interpretazione non era che la spiegazione volgarizzata dell’espressione “rito apotropaico”, ma essa è stata presa alla lettera; e poiché per il cattolicesimo gli spiriti maligni si identificano con le forze rappresentate da Satana, ecco che il giornalista si è sentito libero di dire che il rumore provocato a Macerata, percuotendo botti e falci, serve a tenere lontano il Diavolo, quello di cui parla il Catechismo. Che è un’equazione semplice ed elementare, ma questa semplificazione snatura e mistifica la tradizione contadina, perché si tratta di una interpretazione che ricopia e traduce malamente e opportunisticamente una deduzione positivistica, espressa tra l’altro nel documentario in maniera brutalmente apodittica e assiomatica.
È probabile che il giornalista abbia messo in contatto il comitato maceratese con il Dipartimento di Lettere e Beni Culturali dell’Università Vanvitelli di Caserta, che nella documentazione preparata per l’Unesco appare essere il capofila del gruppo che propone la candidatura. Leggendo i documenti della richiesta, la prima cosa che salta all’occhio è che nel gruppo dei docenti proponenti non c’è neanche un antropologo, nemmeno uno di quelli che il comitato maceratese ha corteggiato per anni. Sono invece rappresentate le discipline di Storia delle Religioni, Storia Moderna, Storia dell’Arte moderna, Storia dell’arte contemporanea, Linguistica italiana. E forse è per questo che il documento, in cui si illustrano i motivi per cui si candida la festa maceratese all’iscrizione nella lista del PCI dell’Unesco, è stato redatto, per mancanza di informazioni dovute ad assenza di conoscenze e ricerche appropriate [14], utilizzando a piene mani la retorica:
[La festa] «esprim[e] la forma più originale della cultura immateriale e inoggettuale del territorio» «coniugando in una unità indissolubile tradizione identità e popolo … e andandosi a iscrivere all’interno di quel patrimonio di folklore e di cultura popolare creato e trasmesso di generazione in generazione dalle comunità rurali e contadine della Campania».
Ma oltre alla retorica ci sono espressi anche concetti che i demologi di oggi si guardano bene dall’usare, perché appartengono ad una terminologia molto lontana dalla ricerca etnografica attuale che, da tempo, ha messo in discussione i concetti di identità e di originalità. In breve: gli studiosi incaricati non hanno dovuto lavorare molto per spiegare cos’è la festa e i motivi per cui è importante la sua patrimonializzazione; si sono accontentati di accogliere, senza discuterle, anzi amplificandole, le interpretazioni che della festa danno la parrocchia, tutta protesa a privilegiare gli aspetti religiosi, e il Comitato, le cui aspettative, come quelle di buona parte dei cittadini maceratesi, riguardano il turismo e le sue ricadute economiche. Nessuno accenno all’«eredità culturale», di cui parla la Convenzione Unesco, e al suo significato.
Tra i docenti del Dipartimento Lettere e Beni culturali c’è anche un’insegnante di Storia delle Religioni, membro dell’AISSCA (Associazione Italiana per lo Studio della Santità, dei Culti e dell’Agiografia). Si tratta di un’associazione fondata, nel 1996, da Sofia Boesch Gajano, docente di Storia medievale, con lo scopo di studiare, «con un approccio diacronico e multidisciplinare» [15] , oltre le vicende politiche, economiche e sociali di quei secoli, anche quelle relative alla mentalità religiosa che li caratterizzava. E così, accanto alle percussioni dei bottari e ai fuochi “pirotecnici figurati”, viene candidato alla patrimonializzazione anche sant’Antonio Abate, con le sue processioni, la sua benedizione degli animali, con i suoi falò.
Che l’evento maceratese possa essere “patrimonializzato” nella sua totalità, comprendendo sia gli aspetti religiosi relativi alla figura di sant’Antonio, sia quelli laici che derivano da riti profani più antichi, mi sembra ovvio, perché i due campi, una volta separati, oggi convivono sia nella celebrazione sia nella coscienza della comunità. Ma a nessuno dei proponenti è venuto in mente che la relazione tra le due feste è piuttosto recente e che costituisce una novità di cui forse occorre tener conto. Si tratta, infatti, di un fenomeno di sincretismo diverso, perché accettato dalla comunità, da quelli formatisi quando la Chiesa, nel tentativo di cristianizzare i comportamenti e le usanze culturali non contemplati nella liturgia cattolica, trasformava gli antichi Ambarvalia nelle Rogazioni e le feste primaverili nelle celebrazioni del “mese mariano”, con la Madonna al posto della Reginetta di maggio.
La presenza dell’AISSCA, poi, ha fatto sì che nel documento si prevedano ricerche che nulla hanno a che spartire con i bottari e le loro rumorose percussioni, come le «ricerche iconografiche su sant’Antonio in tutto il territorio circostante», quelle «sul culto di sant’Antonio» e «l’analisi dell’agiografia proposta nel Mezzogiorno d’Italia e l’analisi dei miracoli (sic!) antoniani nell’età moderna nel territorio maceratese». Tra i collaboratori del progetto compare anche l’Istituto Comprensivo (cioè scuole elementari e medie) di Macerata Campania. In questa vicenda un po’ paradossale è forse questo un elemento positivo, perché si tratterebbe di coinvolgere in una ricerca storico-antropologica giovani e giovanissimi della cittadina, che avrebbero così la possibilità di studiare il loro territorio, le condizioni di vita e quelle culturali dei loro genitori e dei loro nonni, di avere, quindi, l’opportunità di confrontare criticamente il passato con il presente del loro paese. Ma anche qui, il documento rivela carenze notevoli, perché non sono indicati né i metodi della ricerca né gli scopi pedagogici, ma tutto è lasciato all’iniziativa della scuola e all’improvvisazione. In definitiva, i ragazzini servono come semplici raccoglitori di informazioni sulla festa.
Berardino Palumbo ci ha raccontato [16] le peripezie e le acrobazie occorse per arrivare a mettere d’accordo i Comuni della “Val di Noto”, in Sicilia, in modo da attivare l’iter per il riconoscimento di Patrimonio dell’umanità del Barocco, cioè lo stile architettonico con cui furono ricostruite le città distrutte dal terremoto del 1693. E ci ha raccontato anche le perplessità e lo sconcerto provati dalla rappresentante dell’Unesco durante un convegno, convocato appositamente, durante il quale i rappresentanti degli enti interessati inutilmente cercarono un’intesa da condividere.
L’ecumenismo dell’Unesco e la forte carica di democrazia e di egualitarismo, di cui è intrisa la Convenzione del 2003, rischiano di essere applicati in maniera ingenua e acritica senza quelle regole e senza quei criteri che ci evitano di oltrepassare i limiti della storicità, dei particolarismi locali e anche del buon gusto. La visione dell’Unesco è attualmente un traguardo da raggiungere non un punto di partenza: sono necessari dunque strumenti di controllo che dirigano sulla strada corretta chi si accinge a candidare un bene culturale, materiale o immateriale che sia; o almeno che vengano predisposti dispositivi capaci di prevenire strumentalizzazioni o di rendere accettabili i compromessi necessari.
Il riconoscimento dell’Unesco di qualsiasi monumento o di bene intangibile oltre che essere causa di orgoglio per le comunità dovrebbe contenere in sé anche un valore pedagogico ed esemplare: per essere trasmesso alle generazioni future, quindi, deve mantenere buona parte di quel valore che i suoi artefici e la storia gli hanno assegnato. Siccome secondo l’Unesco la salvaguardia dei beni culturali spetta alle “comunità”, cioè ai loro rappresentanti (sindaco e amministrazione comunale) e alle associazioni, ai singoli cittadini e ai comitati costituitisi appositamente, sarebbe necessario che gli amministratori delle Regioni che non l’hanno ancora fatto, seguissero l’esempio della Sicilia e della Lombardia. Questi due Enti hanno, infatti, emanato apposite leggi con cui si definiscono cosa sono i beni culturali e cosa bisogna fare per la loro salvaguardia. Con la stessa legge hanno istituito un Registro delle Eredità Immateriali (rispettivamente REIS e REIL): senza l’iscrizione in questo registro non è possibile avanzare nessuna candidatura. Il Registro serve così da filtro ma anche da guida per le procedure e garantisce un’adeguata serietà scientifica.
Nella già citata intervista [17]. Palumbo osservava che gli antropologi italiani si sono fatti prendere di sorpresa, sono arrivati impreparati e soprattutto in ordine sparso davanti a questi nuovi compiti cui li chiama l’Unesco: davanti a questi nuovi problemi, dice Palumbo, gli antropologi italiani sono deboli, non per conoscenze specifiche ma per mancanza di autorevolezza. Oggi si tratta «di organizzare su scala globale la produzione di nuove forme di immaginario sociale e di inserirle in un sistema gerarchizzato e asimmetrico di governance mondiale»: le associazioni degli antropologi italiani, dunque, devono attrezzarsi per rivendicare a sé questi nuovi e complessi compiti, aprendo delle trattative con gli Enti pubblici per chiedere che vengano emanate leggi per applicare la Convenzione del 2003 nei loro territori e perché vengano riconosciuti come esperti.