Stampa Articolo

Patrimonializzazioni “subalterne”, mappature e spunti etnografici a Jovençan, Valle d’Aosta

Prati e vigneti di Jovençan (ph.T. Boos)

Prati e vigneti di Jovençan (ph.T. Boos)

speciale cirese

di Daniela Salvucci, Tobias Boos

Il punto di partenza di questo testo è la residenza di ricerca che abbiamo realizzato nel 2019 a Jovençan, Valle d’Aosta, nell’ambito degli “Studi sul Qui”, un progetto interdisciplinare e partecipativo di “mappatura in profondità” dei territori delle aree interne italiane ideato da Daniele Ietri ed Eleonora Mastropietro, geografi universitari, produttori e registi di documentari [1].

In occasione del tributo al centenario della nascita di Alberto Mario Cirese (Clemente 2021), del quale siamo in vari modi allievi indiretti [2], ci proponiamo, da un lato, di far dialogare questa nostra esperienza con la riflessione teorica di Cirese sulle “culture subalterne” (Cirese 2003 [1973]). Dall’altro lato, vogliamo agganciarla al programma di ricerca partecipativa e attivismo comunitario della “rete di paesi” (Clemente 2018) associato a questa rubrica, “Il centro in periferia”, diretta da Pietro Clemente.

Sebbene sia durata solo pochi giorni, la residenza di ricerca a Jovençan ci ha fatto scoprire un territorio per noi nuovo ed entrare in contatto con alcuni dei suoi abitanti. Durante la breve permanenza non abbiamo potuto far altro che cercare delle tracce, sperimentare possibili piste d’indagine, sondare le disponibilità e le reazioni locali. Tuttavia, è stata forse proprio questa sorta d’implosione temporale della presenza sul campo che ci ha permesso sia di intuire nelle tracce raccolte alcuni dei processi socioculturali in atto, sia di iniziare inavvertitamente a esplorare possibili forme di collaborazione tra ricercatori e tra ricercatori e abitanti. Nei mesi successivi abbiamo poi avuto modo di riflettere sulle pratiche di mappatura socioculturale, sulla patrimonializzazione, sulla versatilità dell’etnografia, sulle difficoltà dell’interdisciplinarietà e della partecipazione comunitaria. I nostri contributi sono stati raccolti in un volume (Ietri, Mastropietro 2020), che presentiamo qui di seguito, dedicato all’esperienza fatta in questo piccolo paese di circa 700 abitanti, situato a valle, alla destra orografica del fiume Dora Baltea, ad appena 6 km dalla città di Aosta.

Nonostante il centro abitato sia molto piccolo, il comune Jovençan si estende da un’altitudine di 632 m s.l.m., dove si trova il paese, ad una di 2.600 m s.l.m., salendo verso sud lungo il versante montano. Parallela al corso del fiume scorre l’autostrada che collega velocemente con le città di Ivrea e Torino a sud-est, con la Francia a ovest, con la Svizzera a nord. Si tratta quindi di una zona di confine, dove si parlano due lingue ufficiali (italiano e francese) e il patois, il dialetto francoprovenzale. Sebbene si tratti di un paesino rurale, attraversato dalla strada regionale, ma circondato da prati e sovrastato da pascoli e boschi montani, Jovençan è parte del continuum urbano-rurale della periferia di Aosta. Alcuni dei nostri interlocutori l’hanno definito un “paese dormitorio” per via di chi lavora in ufficio in città e torna solo per dormire la sera. Ci sono però anche molti abitanti impiegati in paese nel settore agricolo: nella produzione vitivinicola, nell’arboricoltura e nell’allevamento bovino per la produzione casearia. Si tratta di attività lavorative di agricoltura di montagna, spesso a gestione familiare e parentale, che mantengono una qualche continuità con le pratiche ecologiche-economiche della cultura contadina locale, nonostante le radicali trasformazioni tecnologiche e organizzative avvenute negli anni.

9781788738606-525804e2001f36f3b868c1a4a045065fGli attuali abitanti sono quindi in buona parte legati, per biografia personale e per discendenza, ma anche per continuità occupazionale, a quel mondo contadino popolare di cui Cirese si è a lungo occupato, rielaborando le riflessioni di Gramsci, attraverso la chiave teorica esposta nel suo celebre volume Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna di studi sul mondo popolare tradizionale, pubblicato nel 1971 e in versione accresciuta nel 1973.  

Come indicato in questo testo fondativo e manuale universitario per diverse generazioni di studenti delle discipline demo-etno-antropologiche, cultura è per Cirese una “dinamica culturale” costituita da “processi”, cioè da momenti e movimenti di trasmissione nel tempo, propagazione nello spazio, spostamento e circolazione nello spazio sociale. In virtù di questi processi e dei rapporti di forza tra i gruppi sociali coinvolti, le differenze culturali, cioè i diversi “modi di concepire (e di vivere) il mondo e la vita”, si configurano come “dislivelli”: relazioni asimmetriche di potere sia esterne che interne a una stessa società. Se i processi di “inculturazione” producono, riproducono e trasformano la cultura attraverso variazioni, innovazioni e invenzioni, i processi di “acculturazione” impongono la “civilizzazione” dominante ai gruppi subalterni. Il concetto di “cultura egemonica”, però, permette di dar conto anche dei processi di “acculturazione spontanea”, dell’acquisizione volontaria o anche inconsapevole da parte dei settori subalterni della cultura ufficiale, in virtù del prestigio da questa emanato e della promessa di ascesa sociale in essa racchiusa. È questa forza persuasiva dell’egemonia che ha prodotto la grande trasformazione socioculturale del secondo dopoguerra e la fine del “mondo contadino” cui ha fatto eco l’abbandono delle campagne in molte regioni del Paese.

Nonostante il dichiarato interesse di Cirese per una “antropologia delle invarianti”, per i modelli formali, per le logiche strutturali interne, e il suo progressivo allontanamento dallo storicismo di Croce, Gramsci e De Martino (Solinas 2012: 130), il suo concetto di cultura come dinamica di processi e quello di egemonia ci permettono di comprendere il radicale “mutamento antropologico” del secondo dopoguerra di cui parla Pasolini. Mutamento associato alla scolarizzazione nazionale come forma di acculturazione, ma anche a quelle “trasformazioni oggettive”, come l’avvento dei nuovi mezzi di trasporti e soprattutto dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, la radio e la televisione. Queste nuove tecnologie hanno facilitato la “circolazione culturale” dai settori dominanti a quelli popolari, mettendo in crisi l’isolamento e la “territorializzazione” delle culture subalterne contadine, innescando un processo di “de-territorializzazione” (Loux, Papa, Cirese 1994: 489).

Nei confronti della cultura egemonica, tuttavia, non c’è solo accettazione e imitazione, ma anche sincretismo e resistenza come indicato dallo stesso Cirese. Nell’ambito degli Studi Culturali britannici, che si rifanno al concetto gramsciano di egemonia [3], Raymond Williams (1980) distingue tra culture “alternative” e culture “oppositive” a quella dominante. Quest’ultima, per mantenersi egemonica, deve incorporare e neutralizzare il potenziale sovversivo delle alternative e delle opposizioni. Le “culture alternative”, per questo autore, sono sia di tipo residuale (tradizionale), sia di tipo emergente, legate cioè ai nuovi settori sociali, alla nuova “cultura popolare” della società dei consumi di massa, alle subculture e controculture, oggetto di studio privilegiato degli Studi Culturali. Allievo di Williams, Stuart Hall, definirà la cultura popolare come un’arena di lotta politica per l’egemonia culturale, all’interno della quale trovano spazio le contestazioni e le creazioni dei gruppi subalterni delle periferie e delle colonie che portano battaglia nei centri stessi del potere.

Alla dinamica culturale ciresiana dei dislivelli di cultura, potremmo quindi aggiungere anche questo processo di “rivendicazione culturale” che ridefinisce la subalternità in termini positivi, come opposizione all’egemonia, come riconoscimento identitario militante nell’alterità (di classe, di genere, di “razza”, di orientamento sessuale, ad esempio), come recupero e valorizzazione politica della memoria della marginalizzazione. I gruppi subalterni non si sono solo affacciati sulla storia, nelle parole di Ernesto De Martino, quando gli studiosi hanno dato loro voce, ma hanno anche preso loro stessi la parola e i loro discendenti hanno cominciato a rivendicare il valore di queste esperienze culturali subalterne.

Guardando alla dinamica culturale odierna, potremmo forse intravedere anche un ulteriore processo in atto, un processo di “patrimonializzazione culturale della subalternità” che si sviluppa attraverso l’attivismo politico, le pratiche di mappatura partecipativa e di patrimonializzazione comunitaria, ad esempio, ma anche nelle attività ordinarie di incorporazione dei saperi, di riappropriazioni dei luoghi, di riutilizzo degli oggetti. Questo processo coinvolge molte realtà locali come quelle della “rete di paesi” associata a questa rubrica (Clemente 2018), che promuovono la centralità delle zone periferiche e marginali, il presidio dei territori locali, lo sviluppo sostenibile delle aree interne, la coproduzione di patrimoni comunitari partecipativi sulla scia della Convenzione di Faro del 2005.

Molti di questi progetti si basano sulla collaborazione tra abitanti locali, associazioni e studiosi, spesso esterni. Questa logica di collaborazione tra abitanti e studiosi-facilitatori esterni, la vocazione applicativa della ricerca alla conoscenza e allo sviluppo sociale del territorio, il programma della partecipazione comunitaria sono tutte caratteristiche che ritroviamo anche nella nostra esperienza a Jovençan.

Durante la residenza di ricerca, infatti, il nostro gruppo multidisciplinare di scienziati sociali (antropologhe e geografi culturali-film-maker) e artisti (fotografo, film-maker, performer e regista) ha costantemente cercato l’interazione con la popolazione, grazie alla mediazione degli ideatori del progetto che hanno vissuto a Jovençan e vi trascorrono tuttora periodi di tempo più o meno lunghi. Grazie alla loro organizzazione, abbiamo preso parte a incontri formali e informali con alcuni degli abitanti, visitato alcune famiglie, realizzato interviste di gruppo e individuali, anche audioregistrate e videoregistrate. L’ultimo giorno della residenza, abbiamo realizzato un evento di restituzione finale delle impressioni e del materiale raccolto nei giorni precedenti, esponendo su di un totem al centro della piazza del paese le immagini, i grafici, le cartografie, le creazioni multimediali, testuali, e audiovisuali prodotte.

71nz4sdnolLa serata è stata aperta dalla performance teatrale di Alexine e Paola, ispirata alle conversazioni avute con gli abitanti.  Abbiamo quindi invitato gli abitanti a partecipare, cercando di stimolare curiosità, domande e discussioni. Sebbene si sia trattato solo di un esperimento di partecipazione, alcuni degli abitanti coinvolti nelle visite e nelle interviste hanno successivamente letto le nostre riflessioni scritte e in alcuni casi hanno attivamente commentato i testi, poi pubblicati nel volume Studi sul Qui. Deep mapping e narrazioni dei territori. Stagione 1, a cura di Daniele Ietri ed Eleonora Mastropietro (Ietri, Mastropietro 2020).

Nell’introduzione e nel capitolo dedicato alla loro prima fase di ricerca e preparazione della residenza (Ietri, Mastropietro 2020 a, b), i due editori presentano la metodologia del deep mapping, la mappatura in profondità, volta a produrre un “archivio del presente” del territorio. Si tratta di un approccio multidisciplinare e multimediale inizialmente nato in ambito letterario, che parte da un luogo specifico per la creazione di un prodotto multimediale sia narrativo che descrittivo, composto di testi scritti, ma anche immagini e video documentari. La mappatura in profondità raccoglie ogni tipo di materiale legato al territorio, senza ordinamenti di priorità, all’insegna di una “ontologia piatta” (Springett 2015). Questa metodologia promuove la collaborazione tra artisti e scienziati sociali, e soprattutto tra ricercatori e membri della comunità, senza creare gerarchie tra esperti e no, interni ed esterni, lasciando spazio a prospettive e voci diverse.

Nel suo saggio, Dorothy Zinn (2020) associa la metodologia del deep mapping a una forma di thin ethnography, una “etnografia sottile” quindi, in contrasto con l’impresa etnografica del lavoro di campo antropologico volto a produrre una “descrizione densa”, la thick description della definizione di Clifford Geertz. Dorothy individua anche alcuni punti di convergenza della mappatura in profondità da parte di un gruppo interdisciplinare in un tempo breve in un luogo definito con le “missioni etnografiche” inaugurate da De Martino con gli studi di equipe in Sud Italia.

Tobias Boos (2020) mette in relazione la mappatura in profondità con lo sviluppo della “cartografia critica” (Crampton, Kygier 2006) e con la “svolta spaziale” (spatial turn) nelle scienze sociali e umanistiche degli ultimi decenni. Tobias sottolinea soprattutto come il deep mapping si leghi ai metodi di mappatura critica partecipativa proposti da attivisti sociali e ambientali, geografi e scienziati sociali, quali la parish map (King, Clifford 1985), la participatory mapping per la tutela dei quartieri urbani e delle comunità rurali, e la counter mapping (Peluso 1995) per la salvaguardia e autodeterminazione dei territori indigeni.

Da parte sua, Daniela Salvucci (2020) collega la mappatura in profondità ai progetti di patrimonializzazione partecipativa comunitaria e alla proliferazione contemporanea di patrimoni “non-ufficiali” (Harrison 2013), prodotti al di fuori del “discorso patrimoniale autorizzato” (Smith 2006), spesso basati sul recupero di pratiche e spazi legati ai gruppi subalterni e ai loro discendenti (Hall 2000) o alla rivendicazioni dei beni comuni, grazie anche alla partecipazione degli antropologi (Tornatore 2019).

Al di là di queste riflessioni più teoriche sul metodo del deep mapping, ognuno dei membri del gruppo di ricerca ha, nella pratica della residenza, provato a individuare piste possibili da percorrere, delle scie da inseguire. Sono tracce poetico-discorsive sulla “passione” degli abitanti per il proprio lavoro (Zinn 2020), tracce socio-spaziali delle modalità di condivisione residenziale, che si possono osservare percorrendo i vicoli e le strade del paese (Boos 2020). Tracce audiovisuali nel paesaggio agrario e nelle parole degli abitanti emigrati dal Meridione (Martelli 2020). Tracce estetiche nelle foto di famiglia (Zemoz 2020). Tracce narrative e relazionali nei racconti delle storie di vita e di famiglia sulle trasformazioni del lavoro agricolo di montagna (Salvucci 2020), sui riti di cura e sulla medicina popolare (Zemoz 2020), sulla mobilità individuale e sulla circolarità migratoria fatta di andate e ritorni che hanno ispirato la performance teatrale finale (Dayné, Zaramella 2020).

 Hameau, micro-frazione del paese di Jovençan (ph. T. Boos)

Hameau, micro-frazione del paese di Jovençan (ph. T. Boos)

Queste tracce, e gli spunti etnografici connessi, ci permettono di intuire alcuni dei processi socioculturali in atto a Jovençan. Seguendo la scia dei racconti delle vicende familiari, mappando le relazioni parentali su più generazioni e tracciando gli ambiti della collaborazione lavorativa familiare ed extra-familiare, ad esempio, si possono visualizzare le trasformazioni dell’organizzazione del lavoro agricolo e d’allevamento, ma anche alcune continuità. Si possono seguire i circuiti, anche contemporanei, della mobilità spaziale locale tra livelli altimetrici montani legata alla transumanza, quelli del pendolarismo tra paese e città, e le traiettorie delle migrazioni internazionali. Si può soprattutto percepire la valorizzazione dell’ecologia-economia di montagna, non solo nella memoria del passato contadino degli antenati, ma anche nel presente delle pratiche lavorative e rituali-festive attuali, che legano l’allevamento bovino e la produzione casearia alle “battaglie delle Regine”, delle competizioni tra bovini molto popolari in questa regione. Per molti versi, sembra di assistere a forme di patrimonializzazione ordinaria, dal basso, della cultura contadina subalterna (Salvucci 2020).

Camminando per i vicoli ed entrando nei cortili degli hameaux, le micro frazioni in cui è diviso il paese, chiamati anche veladzo (villaggi), ad esempio, è possibile osservare come questi abbiano tutti una struttura simile, composta di più case e vecchie stalle ristrutturate e adibite ad abitazione, di cortili comuni, un fontanile, ma anche una bacheca per gli annunci e delle insegne con il nome della micro frazione, spesso associato ad un antico patronimico. Parlando con gli abitanti, anche giovani, ci si sentirà dire che non è raro che le persone vengano indicate con il nome del loro hameau- veladzo di residenza e che i ragazzini organizzino i tornei di calcio di quartiere divisi in squadre in base a queste micro frazioni. Si può poi notare che la piazza del paese è solo un piccolo spiazzo di fronte al municipio per rafforzare l’intuizione della rilevanza socio-spaziale delle micro-frazioni, del resto indicate in ogni mappa pubblica affissa in paese (Boos 2020).

Queste tracce descrittive e narrative ci permettono di visualizzare il processo di “territorializzazione” contemporanea che fonde territorializzazione e de-territorializzazione, che mette in relazione e intreccia inestricabilmente il locale e il globale: l’abitare in una specifica micro-frazione di un paese rurale alla periferia di Aosta, ma essere al contempo un professionista mobile sul mercato del lavoro internazionale costantemente connesso a Internet. Il rapporto tra centro-periferia è quindi dinamico e relativo, il centro è un punto di incontro di linee, un intreccio in una maglia, di nodi (Ingold 2015) di relazioni locale-globale (Boos 2020). 

Spostare il centro dell’attenzione metodologica e politica dal centro alla periferia, mettendo il periferico e marginale al centro dell’attenzione della ricerca e dell’azione, ci consente quindi di guardare a nuovi intrecci, di rintracciare processi diversi ed esplorare nuove possibilità di collaborazione.

Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021
Note
[1] Si veda il sito web del progetto: https://studisulqui.wordpress.com/. Alla residenza di ricerca a Jovençan hanno preso parte: Tobias Boos (geografo), Alexine Dayné (performer), Daniele Ietri (geografo), Paolo Martelli (film-maker), Eleonora Mastropietro (geografa e film maker), Daniela Salvucci (antropologa socioculturale), Paola Zaramella (regista teatrale), Alessio Zemoz (fotografo), Dorothy Zinn (antropologa socioculturale).
[2] Daniela Salvucci si è formata alla scuola di studi demo-etno-antropologici dell’Università di Siena, con Pier Giorgio Solinas e Fabio Mugnaini, allievi di Cirese, mentre Tobias Boos, geografo culturale tedesco, ha fatto ricerca sul Palio di Siena, collaborando con ricercatori e autori di “scuola senese”.
[3] Per una discussione sull’utilizzo, le riletture e le rielaborazioni del pensiero di Gramsci nell’ambito del pensiero di Cirese, degli studi demo-etno-antropologici italiani, dell’antropologia socioculturale, degli studi culturali, degli studi postcoloniali e subalterni, si veda in numero monografico “Gramsci ritrovato” a cura di Antonio Deias, Giovanni Mimmo Boninelli e Eugenio Testa della rivista Lares 2008, n. 2. 
Riferimenti bibliografici
Boos T., 2020, Riflessioni geografico-culturali sul Deep mapping: una mappatura di luoghi e di comunità a Jovençan, in Ietri, Mastropietro, op.cit.: 107-133.
Cirese A. M., 2003 [1973], Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna di studi sul mondo popolare tradizionale, Palumbo editore, Palermo.
Clemente P., 2018, Un Paese fatto essenzialmente di paesi, “Dialoghi Mediterranei”, 31: 320-326.
Clemente P., 2021, Tra cosmo e campanile. ‘Il Centro in periferia’ nel centesimo anniversario della nascita di Alberto M. Cirese, “Dialoghi Mediterranei”, 50: 380-385.
Crampton J. W., Kygier J., 2006, An Introduction in Critical Cartography, ACME: An International E-Journal for Critical Geographies, 4 (1): 11-33
Dayné A., Zaramella P., 2020, Ton cachè l’è incò ci d’atre coù. Il tuo aspetto è ancor quello d’un tempo, in Ietri, Mastropietro, op.cit.: 157-171.
Deias A., Boninelli G.M., Testa E., 2008, Gramsci ritrovato, “Lares”, 2.
Hall S., 2000, “Whose Heritage? : Un-Setting “the Heritage,” re-Imagining the Post-Nation”, in Third Text: Critical Perspectives on Contemporary Art and Culture, n. 49.
Harrison R., 2013, Heritage: critical approaches, Routledge.
Ietri D., Mastropietro E., 2020, Studi sul Qui. Deep mapping e narrazioni dei territori. Stagione 1, Mimesis.
Ietri D., Mastropietro E., 2020 a, Gli Studi sul Qui: da dove arrivano e dove vogliono andare, in Ietri, Mastropietro, op.cit.: 19-47.
Ietri D., Mastropietro E., 2020 b, Prima, in Ietri, Mastropietro, op.cit.: 50-60.
Ingold T., 2015, The Life of Lines, Routledge, London-New York
King A., Clifford S., 1985, Holding Your Ground: An Action Guide to Local Conservation, Ashgate Publishing Group, Farnham.
Loux F., Papa C., Cirese A. M., 1994, Des paysans de Rieti à l’ordinateur: Où en est la démologie?, «Ethnologie française», 24(3): 484-496
Martelli, P. 2020, Voyerismo di paesaggi ordinary. “Everything interesting happens because one field has crashed into another”, in Ietri, Mastropietro, op.cit.: 81-105.
Peluso N. L., 1995, Whose Woods are these? Counter-Mapping Forest Territories in Kalimantan, Indonesia, Antipode, 27(4): 383-406
Salvucci D. 2020, Partecipazione comunitaria, mappe relazionali e racconti di famiglia a Jovençan, in Ietri, Mastropietro, op.cit.: 173-206.
Smith L., 2006, Uses of Heritage, Routledge.
Solinas, P.G., 2012, Ripensare Cirese, ANUAC 1(2): 126-130.
Springett S., 2015, Going Deeper or Flatter: Connecting Deep Mapping, Flat Ontologies and the Democratization of Knowledge, in Humanities, 4: 623-636.
Tornatore J.L (sous la direction de), 2019, Le patrimoine comme expérience. Implications anthropologiques, Éditions de la Maison des sciences de l’homme, Paris.
Williams R., 1980, Base and superstructure in Marxist cultural theory, in Problems in Materialism and Culture: Selected Essays: 31-49, Verso and NLB.
Zemoz A., 2020, I segreti vanno creduti, in Ietri, Mastropietro, op.cit.: 135-156.
Zinn, D.L., 2020, Studi sul qui a Jovençan. Deep mapping o thin ethnography?, in Ietri, Mastropietro, op.cit.: 61-80.

 _____________________________________________________________

Daniela Salvucci, ricercatrice della Facoltà di Scienze della Formazione della Libera Università di Bolzano, si occupa di culture dei popoli di montagna in prospettiva comparativa e di storia dell’antropologia. Ha svolto il Dottorato di ricerca in Antropologia, Etnologia e Studi culturali presso l’Università di Siena e ha condotto ricerche etnografiche in Italia e Argentina. I suoi campi tematici sono gli studi di famiglia e parentela, anche in relazione alle dinamiche migratorie tra Europa e Sudamerica, i rituali e i territori indigeni in area andina, le pratiche di patrimonializzazione e la storia dell’antropologia in area alpina.
Tobias Boos, conseguito il dottorato di ricerca in Geografia sociale e culturale, attualmente lavora come ricercatore presso la Libera Università di Bozen-Bolzano. Le sue aree di ricerca includono spazi vissuti e borderscapes, festival urbani, studi sulla diaspora ed etnicità, la cartografia critica, le geografie di internet e dei nuovi media ed etnografia. Le sue ultime pubblicazioni sono: l’articolo Territorial Collective Identities and the Internet. Processes of Individuation of Siena’s Neighbourhoods (in “Geografiska Annaler”: Series B, Human Geography); e il libro Inhabiting cyberspace and emerging cyberplaces, edito da Palgrave Macmillan (2017).

______________________________________________________________

 

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Letture. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>