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Paura di votare

191215661-86a73d6e-3c14-4c36-8f21-25c5141cebdbdi Aldo Aledda 

Che problema c’è se uno risponde astenendosi a una chiamata di voto, si tratti di un Parlamento, di un’assemblea di condominio o della bocciofila? Sicuramente nessuno dopo la prima ipotesi. Ma allora perché tanti si sdegnano se analoga risposta viene data a una elezione politica o amministrativa e gridano che la democrazia è in pericolo? Vogliamo provare a capirci qualcosa? Non tutto è scontato.

Un pomeriggio salgo su un taxi a Roma. Il conducente era simpatico e ciarliero come quasi tutti i tassisti. C’è un po’ di traffico… è la partita di Coppa. “Preoccupato per la Roma?” – “No, non me ne importa nulla” – “Per caso è della Lazio?” – “No” – “È antisportivo?” – “No, e che proprio non me ne frega nulla del calcio, è tutto uno schifo…soldi…corruzione…” – “Preferisce qualche altro sport?” –  “Si, la boxe…il basket …la pallavolo”.

Mi sembra di avere capito il tipo, per cui mi viene in mente di sondarlo un po’ sul Covid, le cui restrizioni erano appena cessate. “Mi sono vaccinato solo una volta per fare piacere a mia sorella che fa l’infermiera” – “E come faceva a lavorare?” – “Mi fermavo davanti alla stazione per evitare controlli”. E via i soliti discorsi sulla Big Pharma, sulle trame internazionali, sui complotti per arricchire chi sta al governo, la guerra di Putin, ecc. ecc. Quindi, la domanda finale: “Lei va a votare?” e la risposta coerente: “Me ne guardo bene, sono tutti ladri, corrotti, non gliene importa nulla della gente”.

Non vi è dubbio che in Italia, come in tutti i Paesi democratici, vi è una quota fisiologica di persone anti sistema, sospettosa e scettica  che non crede a nulla e che spiega tutto in termini di complotti sinistri che ordirebbero le solite centrali che intendono gabbare consumatori, pazienti, cittadini ingenui ed elettori. Venti, trenta per cento di popolazione? Incominciamo da qui a fare il calcolo di chi non va a votare.

astensionetab2Le analisi sull’astensionismo elettorale danno tante risposte. Non è che non ci si pensi. Tra le spiegazioni più accreditate, per esempio, vi è che i giovani non votano perché sanno che non si farà mai nulla per loro e, poi, perché non ci sono abbastanza coetanei tra i candidati. In effetti, una recente ricerca dell’EURES, per conto dell’Agenzia italiana per la gioventù, ha stabilito che negli ultimi vent’anni, dal 2002 al 2022, l’elettorato giovanile si è ridotto dal 30,4% al 21,9%, e così pure la rappresentanza politica dei giovani si è assottigliata col taglio dei parlamentari per cui gli eletti sotto i 36 anni sono passati da 133 a 27. A questo va aggiunto anche il basso numero di laureati in Italia, come ha sostenuto di recente il professor Bassanini. Certamente, il livello culturale migliora la comprensione dei meccanismi politici e istituzionali e costituisce il migliore antidoto contro le svolte autoritarie che potrebbero essere attuate da minoranze che si sentissero forti grazie al disinteresse della maggioranza e pronte a scegliere chi appare possedere la bacchetta magica per risolvere i problemi della collettività. Ma vedremo tra poco come in questo caso siamo in presenza di un Giano dalla faccia bifronte. Per questo è bene partire dall’inizio e, per quanto mi riguarda, vorrei arricchire il discorso con spiegazioni che provengono soprattutto dall’osservazione diretta di alcuni meccanismi con cui si forma il consenso.

La storia ci insegna che la partecipazione democratica è stata – o forse è meglio dire – è partita sempre con un’impronta elitaria. Massa e democrazia infatti difficilmente vanno d’accordo, a partire dalle origini. La grande impressione che ha dato ai posteri la più antica democrazia del mondo, quella ateniese, con l’Areopago affollato di cittadini che discutevano e votavano, nascondeva una realtà fatta di pochi aventi diritto alla parola e al voto giacché ne erano esclusi donne, schiavi e stranieri. Analogamente nella Repubblica romana nessuno più degli ottimati si poteva considerare il vero custode del mos maiorum e perciò avere il diritto di decidere le sorti di tutti. Riferiva stupefatto e ammirato ad Annibale l’ambasciatore cartaginese mandato a sentire che cosa si dicesse nel Senato dell’Urbe sui problemi che li riguardavano: “Quella è un’assemblea di re!”.

In fondo gli stessi teorici della democrazia moderna, come Locke e Bodin, non pensavano a una democrazia di massa né tanto meno a un suffragio universale. Anche agli albori dell’era moderna, quindi, con una realtà peraltro caratterizzata da un elevatissimo tasso di analfabetismo, si riteneva che le decisioni dovessero essere più opportunamente prese da chi era in grado di comprendere e gestire gli affari dello Stato per conoscenza, competenza e censo, quindi solo gli illuminati e gli interessati. Nella più antica democrazia moderna, la Gran Bretagna, questa istituzione si sviluppò con una base popolare molto larga grazie non solo alla cultura e all’istruzione, che comunque prendevano piede più che in qualunque altra parte dell’Europa, ma anche all’informazione, con l’emergente giornalismo scandalistico di stampo popolare che, come continua a fare oggi, dava ampio spazio ai rumor (che derivano dai rumores romani) e al gossip (che letteralmente vuol dire “parola di Dio”, God Speech…più giustificato di così!).

rispetto-al-93-laffluenza-alle-comunali-delle-grandi-citta-e-calata-di-oltre-28-puntiL’Inghilterra avida di notizie e di informazioni sulla vita pubblica e sociale riusciva a coinvolgere una larga base popolare su qualsiasi affare del Regno come oggi sulle vicende sanitarie dei reali guardando spesso dal buco della serratura, come si suol dire, la vita privata di chi contava come quando, alla fine del Settecento, a Londra la stampa scatenò un’autentica caccia nazionale all’accertamento del sesso del diplomatico francese, il cavaliere D’Eon, con articoli sui giornali, accompagnati da scommesse, taglie, denunce e cause giudiziarie oltre che tentativi grotteschi di verifiche dirette. Alla popolazione maschile che cercava di allargarsi nel diritto di voto, sempre nella perfida Albione si aggiunsero anche le donne che incominciarono a darsi da fare per partecipare alla vita pubblica, nonostante gli ostacoli istituzionali, come quando a ridosso delle vicende del Parlamento Lungo furono invitate dai capi a tornarsene a casa e a occuparsi delle faccende domestiche con la giustificazione che avevano già dato ai loro mariti tutte le spiegazioni sulle questioni politiche più rilevanti del Regno.

Oggi, il suffragio universale ha allargato a tutti la partecipazione democratica ma, senza volerlo, pesano ancora le obiezioni dei teorici della democrazia e le spiegazioni dei moderni scienziati sociali sulle ragioni dell’astensionismo. In qualche modo ci culliamo nell’immagine della nostra democrazia di massa che vorrebbe offrire lo spettacolo edificante di tutto un popolo intento a esercitare il suo diritto di voto. Ma vogliamo un po’ andare a vedere come esso si eserciti e se sia veramente uno spettacolo edificante? In un certo senso vale anche qui l’avvertenza di non guardare troppo dentro la formazione del consenso, assolutamente “vietato ai minori”, cui potremmo estendere il famoso invito che dava il cancelliere Bismarck a proposito delle tecniche legislative: “Mai vedere come si fanno i salsicciotti e le leggi”.

Intanto giova notare che, nella Penisola, non solo nelle ultime elezioni regionali della Sardegna e dell’Abruzzo, ma in tutte le democrazie moderne, che per lo storico Fukuyama si sono sviluppate significativamente solo nell’ultimo quarto del XX secolo, quando queste sono diventate definitivamente “mature”, si reca a votare intorno alla metà degli aventi diritto mentre paradossalmente una maggiore affluenza la si nota solo nelle dittature, in cui gli elettori sono costretti o manipolati, o in quelle emergenti che, come eravamo noi nel Dopoguerra, si crede in un futuro migliore. Dobbiamo preoccuparci? Fino a un certo punto, direi.

A ben vedere ciò che conta, la vera conquista dei nostri sistemi, è l’esistenza di una democrazia legale. E ciò perché può anche non esistere una democrazia reale nonostante ne esista una legale (e il mondo contemporaneo ci offre tanti esempi), ma non potrà mai esistere una democrazia reale senza una legale. Orbene, nel nostro sistema occidentale le democrazie legali sono la vera realtà e se uno le vuole utilizzare trova tutto a disposizione, l’informazione, la libertà e la segretezza del voto. Se, poi, non la vuole utilizzare ne ha tutto il diritto, magari lo farà la prossima volta. Così la democrazia legale diventa reale. Dopo avere fissato questo punto fermo possiamo avviarci con maggiore serenità a capire quali sono i problemi e gli ostacoli che si frappongono in concreto a un esercizio ottimale di questo basilare diritto e perché anche nelle democrazie più avanzate non si riesce a convincere tutta la popolazione a partecipare.

immagine-2023-02-16-195655Il primo ostacolo è costituito dal problema dell’informazione, soprattutto sulle idee e sui programmi dei partiti. La vita politica ai nostri giorni è diventata una faccenda estremamente complicata e ciò che sembra non è sempre quello che è, anche se vi è una sovrabbondante informazione sulla politica (o già anche per questo), con candidati che si spogliano di tutto davanti ai teleschermi, loro e le loro formazioni politiche che fanno programmi pubblici e dettagliati di cui assicurano il rispetto anche stipulando “contratti” con gli elettori (come fece per primo Berlusconi). Eppure ancora pochi continuano a sapere o a interessarsi come stiano veramente le cose. I programmi? Cosa ci dicono, chi li rispetta? Da qui nasce lo scetticismo. Detto anche da uno che ha partecipato a redigerne tanti per le campagne elettorali, i primi a non prendere sul serio i programmi elettorali sono proprio i candidati, che se li fanno sintetizzare in due o tre slogan che ripetono meccanicamente nei crocicchi, nelle piazze e nelle interviste. Poi, a dirla tutta, attuare un programma elettorale è difficile per qualsiasi vincitore. Anche se il più delle volte l’elettore pensa che ciò sia da attribuire alla proverbiale doppiezza o incapacità dell’eletto, in realtà le variabili che si trova davanti chi volesse sinceramente attuarli sono troppe perché ciò possa avvenire: limiti di bilancio, esistenza di leggi che li ostacolano, caparbietà dell’opposizione, discordie interne, timori di strascichi giudiziari (pensiamo al caso delle opere pubbliche), ostacoli burocratici e lentezza degli organismi che li dovrebbero approvare, ecc.

Da lì la disillusione dell’elettorato che vede come i “bonus” promessi si risolvano in un imbroglio, che la flat tax è sempre abortita, che misure come il reddito di cittadinanza e altre per contenere la povertà prima o poi si sgonfiano, che le tasse invece che diminuire aumentano e chi ha fatto questa promessa per dare una remota sensazione di rispettarla alla fine si riduce a dare con la mano destra ciò che ha preso con la mano sinistra oppure che i tanto conclamati aumenti salariali si riducono a pochi spiccioli perché quasi la metà del promesso va via in nuove e antiche gabelle. E così via, anche perché non esiste più un Adenauer, un Churchill o un De Gasperi che abbiano il coraggio di dire chiaramente che il debito pubblico ha ridotto il Paese in condizioni tali da non potere garantire nessuna riforma sanitaria, alcun adeguamento salariale, come pure interventi per arrestare il degrado del territorio, a tacere di pensioni e stipendi dignitosi se non si ha coraggio di fare una lunga attraversata del deserto prima di riprendere il cammino verso il progresso: le famose “lacrime e sangue”. Quindi, non c’è da stupirsi se, da alcuni anni, accade che in una “Nazione” come l’Italia (come preferisce chiamarla chi oggi pensa di essere seduta al Congresso di Vienna) dopo che l’elettorato porta alle stelle alcuni uomini della Provvidenza, magari totalizzando un consenso monstre intorno al 30/40 per cento, la successiva tornata elettorale precipita gli incantatori di serpenti al dieci per cento o giù di lì. E qui, come di rimbalzo aumenta il numero delle astensioni. Quindi abbiamo un primo dato: l’inaffidabilità delle forze politiche quando parlano di programmi. E di riflesso dei loro uomini.

Anche quando sembra che il candidato presenti tutti requisiti di affidabilità, competenza e onestà, l’intuitus personae non scioglie sempre il dubbio: sarà vero che lui è così come si presenta e che farà tutto ciò che dice? Su questa obiezione, che si fonda sull’assioma popolare che tutti i politici sono ladri e inaffidabili come diceva il tassista, si conduce la parte più sotterranea della battaglia elettorale, ossia quella dei calcetti sotto il tavolo da parte dei conoscitori più raffinati del sistema, i bene informati, chi sostiene o è ritenuto di disporre delle migliori conoscenze personali. Attenti a non farvi ingannare dalle apparenze che si è in presenza di un ipocrita, un debole, uno che parla bene, sì, ma che in fondo è un incapace, un imbroglione seriale che promette tutto a tutti e non mantiene nulla, un arrivista che venderebbe anche la madre! Quante volte non abbiamo sentito avanzare queste obiezioni, anche in forma riservata, nella valutazione dei candidati? Spesso sono solo calunnie, ma possono lasciare un segno: «calunniate calunniate – diceva Voltaire – qualcosa rimarrà sempre». D’altro canto, la frequenza con cui molti abbandonano il partito di origine per un altro schieramento dopo l’elezione, il cosiddetto fenomeno del “trasformismo”, confermando lo scetticismo sulla persona, non aiuta a frenare la sfiducia dell’elettore che rimane con un palmo di naso quando il candidato che scelto per il partito preferito incomincia i giri di valzer che, come sappiamo soprattutto in Parlamento, possono contare su provetti ballerini. Anche da ciò ha origine la decisione di un certo numero di elettori di non perdere più le domeniche recandosi a votare.

06_millennials_mobL’altra grande variabile che incide sulla decisione di esprimere il proprio voto è il meccanismo della raccolta del consenso, che nel tempo è andato sempre più modificandosi. Scrivo questo articolo mentre in Italia infuria una furiosa polemica sul presunto voto di scambio nel PD di Puglia e Piemonte, con code in altre parti d’Italia. E dopo avere scritto sullo scorso numero di questa rivista un articolo sull’industrializzazione della Piana di Ottana in Sardegna in cui, tra le varie cose, illustravo il meccanismo con cui erano gestite le assunzioni dei 7000 lavoratori impiegati nel settore industriale: non certo dalle aziende interessate o dagli uffici di collocamento, ma attraverso il filtro delle maggiori forze politiche sindacali della regione. Anche se qualche lettore so che si è scandalizzato per affermazioni ritenute troppo dirette, non esito a confermare tutto essendomi trovato casualmente in osservatori privilegiati in quei momenti. Non solo, ma approfitto per fornire anche le giustificazioni che, sia pure sottovoce, fornivano codesti apparati e che valgono anche oggi per quasi tutti i raggruppamenti politici. Poiché i partiti non vivono d’aria ma di consenso elettorale e i sindacati di iscritti, questo sarebbe il messaggio: vogliamo dare agli operai e alle loro famiglie l’occasione di riconoscere e sostenere gli sforzi di chi ha offerto loro l’occasione della vita? In che modo se non attraverso il consenso elettorale, in particolare per i partiti (mentre per i sindacati prendendo la tessera), cioè andando tutti a votare, dall’operaio beneficiato alla moglie, i figli, i nonni, i nipoti, gli zii, i parenti?

Non a caso nella valutazione del posto di lavoro da assegnare rientrava e rientra per chi ricorre a questi metodi anche l’estensione e il controllo politico del nucleo familiare al punto che lo scaltro elettore che chiedeva un “posto” per il figlio o il nipote conoscendone l’importanza contestualmente dava i numeri che si sarebbero tradotti in voti se il favore fosse giunto in porto. I tempi sono cambiati. Dopo Mani pulite è stato istituito il reato penale di “voto di scambio” e oggi la procura di Torino tra le attività criminose avrebbe incluso anche l’architetto dell’operazione elettorale nella città accusato pare anche di avere creato un apposito schedario delle persone che avevano ricevuto favori e a cui bisognava chiedere (o ordinare) la contropartita. Ma chi non aveva schedari di questo tipo nella Prima Repubblica o non conserva ancora questa abitudine? Questo strumento è fondamentale per le ragioni che mi accingo a illustrare.

Quando si aveva un’affluenza di elettori del 70/80 per cento, una parte discreta di questa percentuale era costituita dal voto incanalato dai cacicchi, cosiddetti i responsabili dell’apparato che, attraverso una propaganda porta a porta, persona per persona, controllavano che il favore ottenuto (o da ottenere) fosse onorato dal voto. Come si poteva avere la certezza che il meccanismo realmente funzionasse? Andando a controllare proprio che il nome segnato nell’archivio, che a sua volta conteneva tutti i riferimenti di chi aveva ricevuto o stesse per ricevere un’assunzione o un favore, si comportasse come ci si aspettava dentro la cabina elettorale. Il sistema funzionò alla perfezione fintanto che fu consentita l’indicazione della preferenza, per cui chi aveva la possibilità di gestire in un paese o in un quartiere cento clientes, poniamo il caso, questi erano divisi in quattro gruppi con una distribuzione diversificata dell’ordine dei candidati (un primo gruppo di 25 elettori avrebbe dovuto votare, per es., 1,2,3,4, un secondo 1,4,3,2, ecc.), un accorgimento questo che consentiva un controllo quasi matematico di come si sarebbe comportato il beneficiato nel segreto dell’urna e che venne perfezionato quando si inventò telefonino con l’app fotografica grazie alla quale si poteva dimostrare la sua riconoscenza, strumento poi, come è noto, vietato. Si poteva sfuggire a questa forma di controllo? Teoricamente si, ma in pratica era difficile anche perché i rappresentanti di lista dei partiti distaccati in ogni seggio intanto erano in grado di riferire chi aveva votato e chi no e, a seconda delle preferenze, anche come era andato il voto.

Certo, non ci si limitava a questa prima verifica anche perché non poteva essere giusto arrivare a una sorta di fucilazione di massa in stile nazista perché a fronte di qualche traditore che aveva compromesso la fedeltà del gruppo e non aveva fatto il suo dovere di cittadino, dovevano pagare tutti gli iscritti all’archivio. Per fortuna, trattandosi di piccoli gruppi e di aree geografiche ristrette, i detective del partito tramite delazioni, verifiche e confessioni, prima o poi riuscivano a risalire ai veri colpevoli senza compromettere gli innocenti. Ovviamente, nessuna impiccagione o ergastolo, ma bando dai vantaggi pubblici in quel paese, almeno fino a che non si cambiava casacca e sempre che chi accoglieva il transfuga non applicasse il principio del savoir faire seguito da tutti i partiti che i traditori si comportano così con tutti e quindi è meglio che stiano alla larga. Per ovviare a queste deviazioni, accanto alla necessità di rafforzare il centralismo democratico dei partiti, sono giunte le riforme delle leggi elettorali che hanno posto fine all’istituto della “preferenza”. In questo modo, però, si è gettato via il bambino con l’acqua sporca, per cui eliminata la possibilità di scegliere gli uomini giusti si è persa una frangia importante di elettorato fidelizzato.

schermata-2022-08-09-alle-16-13-18Infatti, una delle ragioni che spingono il cittadino a non esercitare il suo diritto di voto è proprio la convinzione della sua inutilità perché l’ordine di chi entra appare già prestabilito dalle centrali politiche, e se qualche bell’anima non se ne è ancora accorta si trova sempre uno più scaltro e informato (basta anche un articolo sul giornale) che riesce a mettere gli ingenui sull’avviso. Non che con le preferenze la manipolazione non fosse possibile giacché le astute segreterie dei partiti usavano alcuni stratagemmi per assicurare l’ingresso nelle assemblee elettive dei loro beniamini, come il posizionamento nella lista (il numero 1, per esempio, era quasi sempre eletto, ma in genere andava bene anche ad altri numeri “facili” da ricordare come il 3, il 7 o il 10, mentre era condannato in partenza chi doveva ricoprire il 13 o il 17, tanto che alla fine si assegnavano queste posizioni a qualche generoso portare d’acqua con l’assicurazione che si sarebbe trovato un modo per ricompensare la figuraccia). La differenza con il sistema attuale è che l’elettore non ha più alcun margine di manovra per scegliere autonomamente chi ritiene essere più degno di andare all’assemblea elettiva. Così è capitato che, nelle ultime elezioni politiche, per non perdere le presenze ritenute più indispensabili a seguito della riduzione del numero dei parlamentari, le centrali dei diversi partiti si siano adoperate a sfruttare tutte le pieghe della legge elettorale per piazzare in posizioni di sicura riuscita tutti coloro che per loro dovevano rientrare. E molti elettori sono rimasti delusi. Siamo sicuri che domani rientreranno nella cabina elettorale? E così si continuano a perdere pezzi di elettorato, con il limite del 50% sempre più vicino.

Questo era (ed è, giacché si mantiene ancora oggi in molte parti del Paese) l’aspetto patologico del sistema, ma vi erano delle maniere meno sporche per far trionfare i propri candidati e nel contempo garantire la partecipazione. Una, sia pure al limite dello “scambio”, era di rimborsare il disturbo di alcuni promotori che, avvalendosi anche di una discreta parlantina come se dovessero piazzare una marca di aspirapolvere, si buttavano nella mischia contattando con la più grande faccia tosta persone conosciute e sconosciute e affidando loro il materiale propagandistico del candidato ed esortandoli a votarlo perché la persona più degna di questo mondo. Una fiumana di attivisti (milioni nelle lezioni politiche nazionali) che sicuramente faceva aumentare i votanti di qualche percentuale di punto. A questo impegno in qualche modo prezzolato, più pulito era ed è ancora quello gratuito delle persone “convinte” o vicine al candidato che si spendono spingendo parenti e amici incerti o recalcitranti a recarsi a votare. Quest’ultima realtà ci mostra ancora di più come il voto di ieri, più partecipato e con una maggiore passione politica, faccia in qualche modo la differenza con quello attuale che cade su una base elettorale assai meno convinta e un clima di generalizzata sfiducia nella serietà della politica.

In sintesi possiamo dire che servono a spiegare l’astensionismo attuale almeno due buone ragioni. In primo luogo quella appena abbozzata, che si è aggravata col passaggio dai partiti politici – alcuni di massa come la Dc e il Pci, che, ovviamente con costi impressionanti, mobilitavano apparati di centinaia di candidati – ai partiti personali in cui scende in campagna poco più della cerchia del leader. L’unico vero partito rimasto in senso tradizionale è il PD, che non a caso è quello in cui ancora sopravvivono strumenti di raccolta del consenso non più ammessi dal codice penale e che, onestamente, non sono facili da controllare da Roma. Orbene se qualche differenza esiste, almeno a occhio, mettendo insieme tutti i fattori analizzati è che al tradizionale voto italiano del 70/80% gradualmente è mancato un buon 20/30%, dovuto appunto al fatto che è venuto meno il valore aggiunto costituito dall’attivismo degli apparati e dalla passione dei “convinti” che senza alcuna contropartita personale si mobilitavano sul territorio alla ricerca del consenso. 

In secondo luogo, forse non funzionano come ci si aspettava gli strumenti più moderni. È vero che tutti i candidati oggi si attivano per ottenere anche attraverso di questi la necessaria visibilità, trascurando sempre meno il porta a porta passato o le tradizionali telefonate di un tempo, a tacere dei comizi e delle tavolate imbandite di capi elettori di vecchia memoria che iniziavano o si chiudevano col sermone del candidato/anfitrione. Oggi si ricorre maggiormente alle presenze televisive e sui social. Probabilmente al nascondersi fisicamente all’elettore e a non stringergli la mano chiamandolo ancora meglio per nome per personalizzare di più il rapporto, corrisponde un analogo eludere il candidato da parte dell’elettore che si limita a sostenerlo da lontano con un “like” ma si guarda bene dall’andare a votarlo. D’altronde ci chiediamo, perché chi è abituato a coltivare le amicizie con le chat e i social, lavorare da remoto, ordinare la pizza e la cena online, acquistare in internet, fare i documenti pubblici da casa con un click, programmarsi i viaggi dai siti, e non sente il bisogno di recarsi materialmente a fare la spesa o la coda in un ufficio o in una banca, perché dovrebbe scomodarsi a perdere del tempo a prepararsi, vestirsi e salire in auto per recarsi in un seggio elettorale? Se questa è la realtà solo la corrispondente dimensione del voto elettronico potrà riempire il gap recuperando al voto un certo numero di astensioni, e non solo di chi risiede all’estero o fuori sede, ma per tutti.

qanonE allora io che sono un cultore dei valori democratici che ha sviluppato la nostra grande civiltà voglio veramente che i tassisti anti Coppa, anti Covid, anti Tav, anti Tap, complottisti, terrapiattisti, ecc. vadano a votare? Penso che prima occorrerebbe “convertirli” a visioni più sane della vita e della società… sennò che se ne stiamo a casa…Dopodiché, desidero così ardentemente che la democrazia diventi veramente di massa grazie allo spettacolo delle folle che assediano i seggi elettorali, come abbiamo visto nella Russia di Putin, quando poi si manda a governare una élite scelta in alcune stanze dei bottoni? Questa è la vera questione. La democrazia significa fondamentalmente libertà di scelta, se questa non avviene non c’è neanche democrazia. Scelta che va portata anche alle estreme conseguenze e con tutti i rischi di manipolazioni, senza che democrazia diventi caos. In questo senso non sarebbe meglio (e più democratico) che un presidente del Consiglio (o di regione o un sindaco) incapace o un’assemblea elettiva di inetti siano cacciati dopo qualche anno che si rivela la loro inadeguatezza  piuttosto che attenderne cinque, quando ha già fatto effetto il loro ferale contributo alla distruzione del Paese? Abbiamo in qualche modo la controprova con alcune relazioni sia pure non troppo dirette. L’Italia ha registrato la crescita più straordinaria della sua storia dalla fondazione della Repubblica e per tutto il corso di quella fase denominata “Prima repubblica”, quando è stata segnata da governi brevi e balneari, con una carta Costituzionale oltretutto tenuta ferma e con essa pure le leggi elettorali. Viceversa, a partire soprattutto dal nuovo secolo, la decrescita economica appare costante ed è avvenuta in coincidenza con l’affermarsi di maggioranze chiare e premiate oltre che grazie a una relativa alternanza di governi, che talvolta si sono mostrati talmente inadeguati da costringere il timoniere ad attenuarne gli effetti con governi tecnici. 

E, allora, tirando le somme su questo discorso, che cosa ci insegna l’astensionismo e come combatterlo? La buona notizia del 50% che si reca a votare è che questa corrisponde a una percentuale di Paese interessata alle sue sorti, responsabile quindi, informata e colta politicamente, anche se in parte anziana e perciò abituata ab aeterno ad adempiere a questo dovere civico e, poi, come si è detto, più facile a essere sensibilizzata da quel che rimane dell’attivismo politico volontario. La brutta notizia è che, se si vuole lavorare su chi si astiene, che oggi forma il più grande partito nazionale giacché si aggira al 40%, tolto un venti di bastian contrari, scettici e disfattisti che potremmo anche lasciare ad abbaiare alla luna, al suo interno si colloca una parte notevole di persone colte e preparate che magari non ha trovato una buona ragione per recarsi a votare per tante di quelle ragioni che abbiamo esposto. D’altro canto gli elementi di frustrazione sono tanti.

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da C’è ancora domani

Perché il cittadino si appassioni alla cosa pubblica è necessario, in primo luogo, che se ne appassionino le forze politiche e non tanto facendosi scrivere i programmi dai professori universitari a loro più vicini, bensì scegliendo gli uomini che l’elettore sente a lui più vicini per competenza, sensibilità e onestà. Possibilmente tutte e tre le qualità insieme e non solo qualcuna, perché se non va bene l’uomo competente e disonesto non va egualmente bene l’uomo onesto e incompetente, a tacere della sensibilità ai problemi della gente che fa la differenza tra il politico cinico e calcolatore e quello che si sente partecipe dei suoi bisogni e ne soffre (non solo sui social). In questo senso è importante reintrodurre in qualche modo le preferenze che, dando al cittadino, la sensazione di scegliere, lo stimolino a informarsi di più e recarsi a votare in modo che la decisione appaia ancora di più nelle loro mani. E ciò incoraggerebbe, a parere di chi scrive, anche il voto giovanile. Infatti, privilegiando nella scelta chi presenta maggiormente il profilo dello statista, che per definizione fa la differenza tra chi guarda al prossimo tornaconto elettorale (come fa la gran parte dei politici attuali) e chi, invece, come il primo, guarda alle prossime generazioni, fornirebbe proprio ai giovani una ragione in più per impegnarsi nel voto.

In secondo luogo è necessario che i partiti politici abbiano una maggiore onestà intellettuale. Forse qualcuno può pensare che l’elettore, per recarsi a votare, ami essere illuso e ingannato. Sicuramente ciò vale nel breve periodo, ma dopo un certo tempo ne dubito, e già da oggi se ne vedono le conseguenze. Così nascondere al Paese che il debito pubblico è un macigno che quanto più cresce e più si va avanti porterà alla paralisi, se serve a guadagnare qualche punto a chi promette che grazie a lui i salari e le pensioni cresceranno, che la sanità si riuscirà a farla ridivenire la migliore del mondo, che la disoccupazione diminuirà e con essa le tasse, ecc., per una buona fetta di italiani queste affermazioni, ripetute nel tempo, generano scetticismo, rassegnazione e non li invogliano di certo a recarsi a votare. La fiducia nei partiti e nelle istituzioni è indispensabile per un rapporto corretto. La democrazia si costruisce con i partiti non con altre forme improvvisate, come i movimenti, che tutt’al più possono agire da pungolo.

Oggi abbiamo un territorio ferito e saccheggiato che va a pezzi, con i cambiamenti climatici che compromettono non solo l’economia ma anche l’ambiente naturale e urbano. Si pensi al vetusto patrimonio edilizio o al parco macchine che difficilmente potrà essere adeguato agli standard europei. Non ci sono i soldi per pagare i medici o gli insegnanti o i funzionari pubblici per fare funzionare meglio le relative macchine. Tuttavia, la più grande sottovalutazione elettorale, ossia nascondere la verità, poggia sulla mancanza di fiducia nella capacità e nella reazione del popolo italiano, su cui invece si dovrebbe fare leva con la dovuta onestà intellettuale perché è quello stesso che ha avuto il coraggio e la forza di riprendersi da una distruzione totale come quella dell’ultima Guerra mondiale che lasciò il Paese e la sua gente in condizioni ben peggiori della situazione attuale. Ciò significa che le ragioni profonde per reagire, riprendersi ci sono, a differenza dei partiti politici che per qualche passaggio di legislatura sembrano puntare esclusivamente sulla dabbenaggine dell’elettorato. Veramente tutti.

Veramente tutti, perché chi governa sembra preoccupato solo di truccare i conti, di presentare successi e trasmettere mezze verità, salvo poi dopo l’uscita di quella vera e intera essere costretti a ricorrere a sotterfugi, scuse e bugie per giustificarsi. Prendiamo il problema dello spopolamento e delle immigrazioni. Fino a quando reggerà, e l’elettore non lo capirà, che il Paese ha bisogno di popolazione giovanile e di lavoratori e che le soluzioni presentate delle mamme che fanno più figli sono solo una pia illusione, già accertata in diversi Paesi del mondo e anche in Europa; e che la soluzione più rapida e realistica sta solo nell’immissione di popolazione “straniera”, come fanno i grandi Paesi occidentali come gli Usa che, primi al mondo ne ospitano 59 milioni, e la Germania, prima in Europa, 16 milioni?

astensionismo-perche-i-giovani-non-votano-scaledAnche su questo problema ormai si è arrivati all’imbarazzo col proprio elettorato, cui si era promesso che i maledetti negri e gli stramaledetti musulmani non avrebbero mai inquinato la supposta purezza razziale del nostro popolo (quale?) e che finalmente avrebbero trionfato i valori della cristianità (detto da chi non frequenta troppo le chiese), della famiglia (detto da chi ben poca ne ha e ancora meno fa figli) e che, novelli Radamés, a difesa dei i sacri confini della Patria, oltre che con le eroiche forze dell’ordine (che conoscono solo quelli abitano nei centri storici), con la gloriosa Marina (e della quale si sono tessuti gli elogi per una settimana solo perché è riuscita ad abbattere un drone nel Mar Rosso), avrebbero tenute lontane dai nostri porti le minacciose orde di barbari. Ma non più meritoria appare chi sta all’opposizione che, appena abbandonato il governo del Paese lasciando i problemi più acuti di ciò che appaiono, trascorre il suo tempo a contestare la maggioranza a lei succeduta. Se l’elettore, anche colto e informato, dopo avere fatto queste riflessioni non trova nemmeno un galantuomo cui dare il proprio voto si capisce perché, come chiedeva Bettino Craxi in occasione di un referendum, alla fine preferisca andare al mare piuttosto che a votare.

Certo, più in profondità, vi è l’istruzione e la cultura; ma anche qui occorre fare i conti con un sistema come quello dell’istruzione secondaria e universitaria fortemente collassato e che ben poco è capace di trasmettere agli studenti contenuti e valori civici che li aiutino a orientarsi nella vita politica e istituzionale, anche semplicemente a livello di cronaca. Scrivo mentre si parla a vanvera della guerra in Ucraina e del conflitto tra israeliani e palestinesi piuttosto che non dell’Europa o della Nato oppure della Terza Guerra Mondiale che sarebbe già esplosa mentre si preparano le elezioni al Parlamento europeo. Un esempio significativo di mancanza di cultura storica e istituzionale. C’è un baratro cui stiamo guardando tutti preoccupati, quello del desolante deserto in cui prosperano solo le piante del disimpegno e della diffidenza reciproca, oggi rappresentato dalla fuga dei giovani verso l’estero e degli imprenditori stranieri dalla nostra economia. E tutto ciò mentre la nostra classe politica chiusa a Bisanzio e assediata metaforicamente da Maometto II, preferisce discutere appena del sesso degli angeli (e non solo di quelli), rilassandosi appena con qualche roboante discorso.

In conclusione mi sembra che il tema dell’astensionismo non sia così rotondo e uniforme come appare dalla cifra che lo quantifica ma che esso più che una valanga che si ingrossa di più mentre incontra le scadenze elettorali, si ponga piuttosto come una lenta erosione degli elementi costitutivi del processo democratico, dai più nobili ai meno nobili, dai più graditi ai meno graditi, che uno dopo l’altro, come le foglie morte, fa cadere la lunga stagione invernale che attraversa la politica italiana. 

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024

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Aldo Aledda, ha rivestito importanti cariche istituzionali nella regione Sardegna e nel Coordinamento interregionale italiano, è autore di I sardi nel mondo. Chi sono, come vivono, che cosa pensano (Cagliari, Dattena 1991), Gli italiani nel mondo e le istituzioni pubbliche. (Milano, FrancoAngeli 2018), Sardi in fuga in Italia e dall’Italia. Politica, amministrazione e società in Sardegna nell’era delle grandi migrazioni. La politica italiana nei confronti dell’emigrazione e delle sue forme di volontariato all’estero (Milano, FrancoAngeli 2023).

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