Le recenti vicende politiche, con la rielezione di Giorgio Napolitano a capo dello Stato e con la nascita del governo Letta, non sono state certamente esaltanti per la vita politica italiana, anzi sono state uno spaccato della crisi della rappresentanza e della frattura tra palazzo e popolo sovrano, ma anche della crisi d’identità del PD, che, attraverso le scelte altalenanti del suo segretario Bersani, hanno portato a una crisi senza precedenti del partito democratico.
Da un lato, Il povero Bersani, certamente persona per bene, ha mostrato di non essere un leader autorevole, nell’accezione che questa definizione ha nelle scienze sociali; dall’altro, egli è stato vittima delle sfilettate e degli intrighi delle oligarchie di un partito che non è mai nato. L’idea dell’unità tra la sinistra sociale della DC e degli ex comunisti avrebbe, certo, potuto essere fervido di grandi novità e potenzialità qualora questo processo fosse stato avviato attraverso un largo dibattito esteso alla base e alla periferia del partito, tendente a coniugare i valori solidaristici cristiani con quelli della tradizione egualitaria socialista per la costruzione di un nuovo modello di società. E, invece, quel progetto si ridusse a una semplice sommatoria aritmetica di due oligarchie con le loro truppe, non giungendo mai a una profonda integrazione e a un vero rimescolamento delle carte. Di conseguenza, ancora oggi si discute e si fanno giochi di equilibrismo tra cattolici e laici nella ripartizione delle poltrone, come se ai cittadini potessero interessare queste cose. Se a ciò si aggiunge il gioco delle correnti, ecco che ci possiamo spiegare il disastro cui si è pervenuto.
Bersani, dopo avere dichiarato che occorreva un governo del cambiamento ed avere aperto ai “grillini” fino a farsi umiliare, ha invertito l’agenda, posponendo la formazione del governo all’elezione del Presidente della Repubblica.
La grande responsabilità di Grillo è stata di non avere utilizzato il suo bottino di voti per rendere possibile il cambiamento. Ciò avrebbe significato l’isolamento di Berlusconi e la possibilità concreta di fare delle riforme che aspettano da oltre 20 anni. Inspiegabile, d’altronde, è apparso, soprattutto ai suoi elettori, l’atteggiamento del PD di non votare Stefano Rodotà alla Presidenza della Repubblica, senza tra l’altro darne motivazione, se non quella banale di non volere essere a rimorchio di Grillo. In verità, Stefano Rodotà era già stato proposto sul Web con petizioni di centinaia di migliaia di firme. Forse, Bersani, quando ha invertito l’agenda, avrebbe dovuto lui stesso proporre Rodotà, che, non solo è stato uno della sua area politica ma personalità di grande levatura etica e giuridica e uno dei più grandi garanti della costituzione e dell’europeismo, in quanto estensore della carta europea dei diritti. Sul nome di Rodotà, con molta probabilità, si sarebbe fatto il governo con il M5S. Il PD, non prendendo in considerazione l’apertura tardiva di Grillo, impallinava prima Marini e poi Prodi. Ma anche questa volta Grillo perdeva l’occasione di essere determinante non facendo convergere i propri voti su Prodi.
A quel punto, il coro della grande intesa invocava la rielezione di Napolitano. Per la prima volta nella giovane storia della Repubblica, un presidente della Repubblica è stato rieletto. A parte qualche voce dissonante, la quasi totalità dei costituzionalisti concorda nel sostenere la possibilità di rielezione. Durante il dibattito alla costituente era stato proposto un emendamento che prevedeva espressamente la non rielezione del presidente ma non entrò in costituzione, la quale dice, all’art. 85 che il presidente della repubblica è eletto per sette anni ma sulla sua rielezione neque dicit neque negat.
Ovviamente, quest’ultima scelta prefigurava già il governo di larghe intese col PDL e non poteva che produrre il “suicidio” di Bersani e lo scompiglio nel PD, disorientato dalle scelte schizofreniche dell’oligarchia dirigente, con occupazioni di sedi in tutta Italia e con pericoli di scissione.
Come era prevedibile, Giorgio Napolitano, tra divieti berlusconiani e proprie valutazioni, dava l’incarico di formare il governo a Enrico Letta, che, con la mediazione dello zio Gianni, non poteva non riuscire nel compito. Il Governo, a parte qualche novità in termini di età dei ministri e di numero di donne, di cui la più significativa è un’italiana di origine congolese, medico, all’integrazione, finora ha fatto soltanto annunci. L’unico decreto è stata la sospensione dell’IMU. Bisogna pure osservare che i ministeri più importanti sono andati al PDL o ai tecnici. il Governo va avanti tra schermaglie quotidiane e sotto la spada di Damocle dei processi di Berlusconi. A parte la sospensione dell’IMU, tra i tanti annunci, vi è l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, cioè il contentino da dare al “popolo bue”. Un’ulteriore anomalia italiana visto che, in tutti i Paesi europei tranne la Svizzera, esiste una qualche forma di finanziamento pubblico dei partiti, certo senza le storture italiane. Una vera riforma moralizzatrice e che comporta reali risparmi alla spesa pubblica, garantendo l’uguaglianza di agibilità democratica ai partiti, sarebbe quella di rimborsare le spese effettivamente sostenute e documentate e di tagliare soprattutto tutti gli sprechi clientelari che ruotano intorno al governo, al Parlamento e alle Regioni, in termini di privilegi, sottogoverni, di consigli di amministrazione, di consulenze ecc.
Ma la vera domanda è come si possa rendere compatibile un’alleanza di governo tra chi voleva abolire il conflitto d’interesse, le leggi ad personam, combattere la politica economica che ha prodotto ed accentuato le scandalose disuguaglianze tra ricchi e poveri con coloro che tutto ciò hanno prodotto. Oggi il coro dei giornali, tranne poche eccezioni, parlano di pacificazione e fanno eco all’ecumenismo di Enrico Letta, come se non ci fossero stati 20 anni di anomalia berlusconiana. Un governo che dovrebbe, sull’onda dell’emergenza e della necessità, fare una nuova legge elettorale, affrontare la recessione e spingere la ripresa con l’emergenza lavoro e poi andare al voto, lo si vuole trasformare in un governo di legislatura. Si vuole ratificare definitivamente una sorta di omologazione tra destra e sinistra, abolendo le rispettive identità e l’alternanza tra di esse. Purtroppo, la famosa profezia di Luigi Pintor che, in uno dei suoi famosi corsivi, aveva scritto che “non moriremo democristiani”, non si è avverata. Anzi sembra che viviamo nel peggiore doroteismo dell’era democristiana.
Ma ora che l’atto è consumato, bisogna aspettare il governo alla prova dei fatti. Letta promette sviluppo, lavoro ai giovani e meno tasse. Chi può non essere d’accordo? Ma l’inizio non è beneaugurante. Il PDL sembra tenere sotto ricatto continuo il governo e di confermare l’inaffidabilità del passato. I Berluscones sono sempre quelli di prima, non risulta che hanno avuto una conversione collettiva né sulle vie di Damasco né su quelle di Roma. Si è fatto riferimento spesso alla Grosse Koalitione tedesca ma senza specificare che i tedeschi hanno preso alcuni punti di programma, li hanno esplicitati nei particolari, li hanno sottoscritti e resi pubblici. Mentre il discorso di Letta è rimasto troppo generico, dove ci si può infilare tutto e il suo contrario (vedi discussione sull’IMU). Di fatto, ha chiesto una fiducia in bianco e il non avere ben esplicitati i punti prioritari del suo governo lo pone alla mercé e al ricatto continuo di Berlusconi, il quale ha l’interesse prioritario di risolvere i suoi problemi con la giustizia. Il Governo dovrebbe durare sicuramente fino a dicembre. Se Berlusconi avrà sentore che la Corte di Cassazione lo assolverà, il governo potrà andare avanti; altrimenti, Berlusconi, per sfuggire all’arresto e all’interdizione dai pubblici uffici, sceglierà la via delle elezioni, forte del sondaggio che lo dà vincente. Non è un caso che non vuole mettere mano alla riforma del porcellum. D’altronde, egli stesso lo ha dichiarato: “E’ chiaro che io non mi faccio incastrare dalle bugie di quei magistrati…Se fosse per me il governo Letta potrebbe durare tutta la legislatura, ma se la Cassazione….”
L’art. 66 della Costituzione stabilisce che “Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”. Ciò significa che l’attuale maggioranza al Senato non dà alcuna garanzia a Berlusconi. Ecco perché la necessità di ritornare alle urne con l’attuale legge elettorale, candidandosi alla Camera, dove basta un solo voto in più per avere una maggioranza bulgara e la maggioranza assoluta anche nelle giunta per le autorizzazioni.
Quanto alla legge elettorale vigente, la Cassazione ha sottoposto alla Corte costituzionale l’esame sulla costituzionalità della legge. Il solo sospetto che in tutti questi anni abbiamo votato con una legge contraria alla costituzione, eleggendo di conseguenza parlamenti illegittimi, dovrebbe indurre la Corte costituzionale a impedire di ripetere ancora una volta un’elezione illegittima e di mettere, urgentemente, sotto esame la suddetta legge. Nel giro di un mese il problema potrebbe essere risolto.
Nel frattempo, all’interno del PD, la ormai consumata separatezza tra oligarchia e elettori si è trasformata in una sollevazione della base del partito a seguito della delusione dei cittadini democratici, che avevano creduto alla possibilità di una partecipazione attiva, tante volte invocata, che avevano partecipato con entusiasmo alle primarie e che si sono visti scippare ogni decisione, assistendo allibiti a una giravolta di 360 gradi, dal mai con Berlusconi all’alleanza di governo.
Anziché puntare a un congresso immediato, i dirigenti del PD hanno pensato a mettere una pezza scegliendo la soluzione di un segretario di transizione nella figura di Guglielmo Epifani, mentre si profila per il futuro un duello Letta-Renzi sul modello D’Alema-Veltroni.
Tuttavia, se Debora Serracchiani è diventata governatrice del Friuli nel momento della più grande debacle del PD e se Ignazio Marino ha vinto il primo turno come candidato a sindaco di Roma nelle elezioni amministrative dei giorni scorsi con uno scarto di 12 punti, sia pure nel confronto col peggiore sindaco degli ultimi 50 anni, è questa la riprova che il PD vince dove si presenta col suo volto migliore; mentre il movimento di Grillo accusa risultati deludenti sia in Friuli che nelle amministrative di questi giorni, segnale evidente che i cittadini hanno sanzionato la scelta di non-governo col PD e di congelamento di quei 8 milioni di voto ricevuti per il cambiamento. Perde dappertutto anche il PDL in barba ai sondaggi rassicuranti per Berlusconi ma bisogna aspettare ancora il secondo tempo, tra 15 giorni, per fare un’analisi più rigorosa.
È da segnalare, infine, il calo ulteriore degli elettori pari al 14,8% e del 21% a Roma, praticamente il 5o% degli elettori non è andato a votare. Ciò è un indicatore chiaro, se ancora i partiti non l’avessero capito, della disaffezione e del disincanto dei cittadini per la politica. Ma anche i cittadini devono comprendere che la protesta del non-voto dà più spazio alle oligarchie e che la politica, per rinnovarsi, ha bisogno dell’esercizio diffuso della cittadinanza attiva. Partecipare, a livello locale, nel partiti, nei movimenti, nelle associazioni, è la precondizione per riappropriarsi della politica.