di Stefano Montes
Da qualche tempo abbiamo intrapreso un dialogo, io e mio figlio Mattia, sulle modalità di rappresentazione del mondo e sulle diverse possibilità di posizionamento – nostro e altrui – al suo interno, sulle sue varie superfici scivolose, nei suoi diversificati ed eterogenei spazi, in ragione del ricco dinamismo temporale e processuale che ci orienta – orienta tutti – culturalmente e individualmente. Di cosa dibattiamo, più particolarmente, nei nostri incontri sul campo per Palermo e dintorni? Perché lo facciamo in ogni caso? Che valore scientifico, nonché narrativo, ha il nostro dialogo per immagini, parole e scritti ricavati da appunti e schizzi volutamente frammentari all’inizio, frammentari come lo è la vita stessa?
Più che giustificare il nostro lavoro in senso convenzionalmente accademico – separando irrealisticamente ‘scienza oggettiva’ e ‘narrazione personale’ – intendiamo qui sottolineare, in maniera alquanto indisciplinata rispetto ai canoni usuali, i risvolti epistemologici, legati alle etnografie da noi realizzate, relativi all’idea di intreccio di elementi oggettivi e soggettivi, visuali e scritti, dialogici e riflessivi. Che facciamo, in sostanza, io e Mattia? Ci rechiamo più volte nei luoghi sui quali intendiamo lavorare, ne parliamo, ci scambiamo punti di vista e informazioni, mentre uno scatta foto (Mattia) e l’altro (Stefano) prende appunti che confluiscono, poi, in un saggio più esteso, corredato di immagini appositamente scelte e di scrittura finalizzata allo scopo, in cui si tiene immancabilmente conto delle situazioni incontrate sul campo.
È importante ciò che pensiamo in potenza e in partenza, dunque fin dall’inizio della nostra prima incursione sul campo d’ordine progettuale, ma è altresì importante – se non di più – l’incrociarsi di foto e appunti zigzaganti e vaganti, così come l’emergere del senso stesso delle situazioni e della nostra comprensione in contesto. È insomma importante il piano iniziale che ci prefiggiamo in partenza, ma privilegiamo esponenzialmente il processo cercando di tenerci incollati al suo divenire inarrestabile, inevitabilmente posto da qualche parte, in un luogo che contribuisce ad assegnargli senso per aggiustamenti successivi, mai veramente definitivi. Come scrisse Sartre all’epoca: «la compréhension n’est pas autre chose que ma vie réelle, c’est-à-dire le mouvement totalisateur qui ramasse mon prochain, moi-même et l’environnement dans l’unité synthétique d’une objectivation en cours» (Sartre 1960: 140). Né soggetti né oggetti in sé, quindi, ma processi di soggettivazione e di oggettivazione.
Di fatto, uno degli elementi di maggior spicco che interessa un antropologo (e, per ragioni complementari, anche un fotografo) è proprio il rapporto che si instaura tra gli elementi soggettivi – prodotti, benché in misura diversa, in qualsiasi ricerca di stampo etnografico – e il necessario processo di oggettivazione realizzato dall’antropologo al fine di rendere comprensibile il suo lavoro ad altri (e a se stesso). La ragione per cui cito Sartre – filosofo ma non etnografo in principio – è che questo studioso include nel processo di oggettivazione anche il prossimo e non soltanto l’ambiente: alla stessa stregua di un etnografo e, per molti aspetti, come sceglierebbe di fare anche un fotografo. Il nostro prossimo e l’ambiente sono entrambi importanti a fini conoscitivi, ma lo sono anche i processi messi in atto al fine di penetrare all’interno della loro articolazione congiunta e complessa. Questo aspetto è debitamente messo in risalto da Sartre. E ciò, a questo punto, è quanto va detto per quanto riguarda le similitudini tra un’impostazione etnografica e una esistenzialista più filosofica. Un elemento di differenza o di contrasto, altrettanto stimolante delle similitudini, si prospetta comunque.
Diversamente da quanto succedeva in gran parte dell’etnografia del passato (e spesso anche recente), Sartre omologa felicemente la comprensione della vita reale ai processi ‘sempre’ in corso di oggettivazione e soggettivazione. Come dire, in altri termini, trasponendo in quella che è la mia prospettiva più particolare: il lavoro etnografico non è delimitato unicamente dallo spazio in un solo formato – per esempio, il formato ritagliato dagli arrivi e dalle partenze in luoghi esotici dell’antropologo (per una critica cfr. Pratt 1997) – ma si situa, dappertutto, nella complessità del vivere e risiedere o viaggiare, nonché nell’articolazione dei processi di soggettivazione e oggettivazione, temporalmente e spazialmente diversificati.
Ma torniamo speditamente a me e a Mattia! Finora abbiamo prodotto – insieme, confrontandoci, dibattendo, traducendoci reciprocamente – due saggi pubblicati in due diversi numeri di Dialoghi Mediterranei: il primo su Ballarò, un grande mercato popolare di Palermo; il secondo su alcuni luoghi specifici della mia adolescenza, nei pressi del porto di Palermo, dove io sono cresciuto e ho vissuto per anni. Nonostante, inizialmente e di proposito, alcuni spazi circoscrivano i nostri dialoghi e siano effettivamente all’origine dei singoli progetti, i temi posti in evidenza sono anche – se non soprattutto – quelli che vengono ad emergere nel va-e-vieni tra la fotografia e lo scritto, tra i ricordi e il relativo incorniciamento fotografico del luogo, tra il vissuto esperito e le possibilità di testualizzazione e delimitazione per immagini. Come è possibile, in effetti, trasporre un’esperienza volatile in un testo che la racchiude almeno in parte? Come può una foto trasporre, riproducendolo, un concetto espresso in un testo scritto? In che modo, infine, si delimita un ricordo evanescente? Non si tratta, dunque, di solo dialogo orale di tipo intergenerazionale, tra padre e figlio, fine a se stesso o evanescente nel ‘tempo che trova’, bensì a tutti gli effetti di un confronto – tra diversi elementi d’ordine semiotico e antropologico – volto a trasporre le nostre esperienze in etnografie scritte e visive che tengono inoltre conto dei contesti d’uso incontrati, di volta in volta, nelle nostre incursioni locali funzionalmente situate.
Le ragioni per cui abbiamo deciso di collaborare sono diverse, molteplici. Innanzitutto perché, attraverso i nostri individuali strumenti di rielaborazione cognitiva ed emotiva (il mio è soprattutto lo scritto, il suo è la fotografia), abbiamo messo a fuoco più specificamente sul dinamismo temporale che in qualche modo ci costituisce e ci appartiene in quanto padre e figlio, oltre che esseri umani nella loro più ampia categorizzazione: una parte del mio passato da recuperare (a lui poco noto, dato che suo nonno è morto prima che lui nascesse); i miei sfuggenti ricordi ancorati a spazi specifici e da lui ripresi secondo sue motivate prospettive colte attraverso foto; i suoi modi di guardare il mondo traducendone ricordi e proiezioni temporali in immagini d’ordine narrativo associate a uno scritto attraversato da un tessuto anch’esso figurativo. In sostanza, abbiamo messo a fronte il nostro essere padre e figlio – i nostri ruoli nella vita quotidiana e familiare – in parallelo alle nostre specifiche capacità di scrittura e fotografia.
In secondo luogo, in modo più generale, abbiamo riflettuto manifestamente, con esplicito assetto metateorico, sul rimando instaurato tra foto, scritto, vissuto dialogato e trasposto: pur sempre dialogo, quindi, all’origine, benché non tanto tra persone in carne e ossa o soltanto tra padre e figlio, ma tra sistemi e processi diversi che tendono a tradursi reciprocamente diventando oggetti dello sguardo e della potenziale lettura di altri individui. Sembra poco, ma non lo è! Se si pensa, per esempio, che il vissuto è sempre in divenire, mai immobile o staticamente inteso e reso, allora si comprende come qualsiasi mezzo di codificazione utilizzato resti imperfetto e complicato da trasporre in un – solo – tipo di testo prodotto al fine di rendere ‘ciò che è stato’. Il tempo corre in effetti ed è difficile coglierlo in un solo testo una volta per tutte! Ma non è soltanto questo: la sua velocità e impalpabilità. Il tempo viene culturalmente ritagliato – si manifesta attraverso tratti distintivi specifici – nelle lingue d’uso di ogni società, ma tende pure a sovrapporsi a se stesso all’interno delle stesse lingue, configurando tragitti di vita individuali per ordini diversi, in situazioni varie ma connesse: il passato e il presente – ‘ciò che è stato’ e ‘ciò che è in corso’ – si presentano in modo sovrapposto, sedimentato e interrelato. Un semplice ricordo di un evento passato, per esempio, non neutralizza mai del tutto il situarsi del soggetto del ricordo nel movimento del presente: siamo qui e altrove, con il corpo e con la mente. Il soggetto del ricordo si situa in uno spazio e tempo precisi – al quale non può sfuggire, in ogni caso, anche volendolo – mentre il ricordo stesso lo trasporta, in parte, in un passato già vissuto ma non del tutto recuperabile: due tempi e due spazi, in modi diversi, convivono e si rimandano allora, in un solo soggetto, nel processo messo in opera dal ricordare come parte integrante dell’esistere.
Che succede, per dirla in maniera diversa, più stringata? Il corpo rimane, ancorato a uno spazio preciso, mentre la mente vola – fluttuando – da qualche altra parte. Si parte e si torna, insomma, idealmente scomposti e ricomposti. E il ritorno può talvolta rappresentare una svolta o, più parzialmente, incarnare un qualche cambiamento nell’universo di vita di una persona. Succede! Succede, a volte, perché il ricordo impone una comparazione tra il presente e il passato, tra la situazione in cui ci si trova e la situazione vissuta all’epoca, tra ciò che gli occhi vedono al momento e le immagini che scorrono sullo schermo della memoria. Non sempre, però, il ricordo è latore di cambiamento o innovazione, soprattutto nel tempo lungo. Non sempre succede, ma è anche vero che il senso di identità viene comunque chiamato in causa. I nostri cambiamenti, nel tempo lungo, sono spesso impercettibili ma, di fatto, collegano una tale diversità di pensiero e azione che è molto difficile – andando a ritroso, rendendosene conto, lasciandosi andare alla sua potenza sradicante – potere credere di essere ‘una stessa persona’: uno stesso ego immutato, indifferenziato. L’identità, se ‘sotto attacco’ del ricordo costante, può allora considerarsi – felicemente – in pericolo: può ricomporsi, può divenire più malleabile. E ciò per una semplice ragione: ricordare è sempre un divenire altro del soggetto. Il ricordo, infatti, quale che sia la prospettiva, sovrappone tempi diversi e inaspettatamente concentra molteplicità soggettali impensate e dimenticate.
Il ricordo ci mette sostanzialmente di fronte alla molteplicità dell’essere e all’illusione di una coerenza di sviluppo unilineare: se pensiamo di essere sempre gli ‘stessi’, sempre la stessa immutata persona, il ricordo interviene invece – per gradi diversi – intaccando con misura questa certezza, rivalutando il divenire. Il ricordo si situa inoltre in senso contrario rispetto alle trasformazioni silenziose che prendono comunque luogo, ma ‘avvengono’ senza colpo ferire, quasi clandestinamente, nella cultura occidentale. Le trasformazioni sono così silenziose che, sovente, non notiamo il passare del tempo e i rivolgimenti – piccoli o grandi che siano – da esse apportati. Come scrive Jullien: «Abbiamo mai pensato in altro modo che per trasformazione silenziosa da cui affiora all’improvviso qualche pensiero chiaro, che costituisce ‘evento’ e che allora risuona e mobilita?» (Jullien 2010: 145). Nonostante l’intenzionale ambiguità della formulazione, intesa positivamente di primo acchito, quella di Jullien è una nota di disappunto. Secondo il filosofo francese, infatti, questo è il modo occidentale di concepire il tempo: trascurando il processo, immergendosi inconsapevolmente nelle trasformazioni silenziose, dimenticandosi del valore assegnato al – alla consapevolezza del – cambiamento più minuto.
La carta che gioca Jullien nel suo lavoro di ricerca è fondamentalmente comparativa: andare lontano, per capire meglio ciò che è vicino; prendere in conto le diverse modalità di concepire il processo presso un’altra cultura per meglio mostrare il modo di intenderlo degli occidentali. La società presa in conto da Jullien è quella cinese. E non a torto, visto che le differenze saltano subito agli occhi! L’armamentario concettuale occidentale, ereditato dalla filosofia greca, non ci consente di entrare di petto nelle transizioni e di cogliere il processo al meglio mentre, nel pensiero cinese, l’attenzione consacrata al processo è importante e costante. Nella tradizione classica greca, in sostanza, il continuum relativo al tempo viene discretizzato seguendo un percorso che ritaglia le categorie in termini talmente oppositivi da non consentire di cogliere il processo e la transizione minuta. «Le trasformazioni sono così silenziose non soltanto per la modalità del loro avvento (da un punto di vista che si dirà fenomenologico) in quanto sono infinitamente graduali. […] Le trasformazioni (inversioni) sono silenziose in modo ancora più insidioso, e scaltro, attinente al nostro stesso uso del linguaggio: poiché isoliamo le une dalle altre le determinazioni opposte, bloccando ognuna nella sua definizione e solidificandola nella sua essenza» (Jullien 2010: 93). Secondo Jullien, dunque, diversamente da quanto avviene nella tradizione classica occidentale, il pensiero cinese coglie meglio il continuo e le trasformazioni silenziose perché è meno incline a distinguere per opposizioni nette.
Il ricordo, tuttavia, anche nella tradizione di pensiero occidentale può giocare un ruolo importante per quanto riguarda le trasformazioni silenziose da rendere più manifeste. Pur nella disattenzione al processo presente nella nostra cultura, il ricordo può riportare il soggetto alle trasformazioni – normalmente inavvertite – e renderci più consapevoli del divenire in corso: perché ricordare, in sostanza, impone un ripensamento del tempo e del soggetto stesso che pensa. Si parla di lingua, ma non è tutto. Il cerchio non si chiude, infatti, con la lingua scritta o orale: non è fine a se stesso. Altre forme di codificazione della realtà sono altresì importanti a questo riguardo. In una prospettiva più tipica dell’etnolinguistica (o, in alternativa, della sociosemiotica), si propende a pensare che la realtà non venga direttamente assunta se non attraverso la sua codificazione e ricezione da parte di un soggetto. Questo non vuol dire che i linguaggi si interpongono e mediano le forme di assunzione della realtà producendo una triangolarizzazione tra significanti, significati e referenti (o tra lingua, pensiero e referenti); semmai, ciò significa che «la realtà extralinguistica è anch’essa concepita come una certa lingua» (Lotman 1993: 16).
In questa prospettiva, persino la fotografia – sovente vista come elemento di abbellimento estetico o rimando referenziale – è uno strumento anch’esso utile perché ritaglia un frammento di tempo specifico, sottolineando il passare del tempo in una chiave più prossima alla continuità e al processo: il fotogramma spezza idealmente la continuità del divenire temporale ma, proprio per questo, riporta la coscienza dello spettatore (e del fotografo) a ciò che viene isolato e lasciato fuori dal fotogramma. Ogni foto ineludibilmente incornicia una fetta di spazio e uno stralcio di tempo, ma rinvia anche a ciò che rimane fuori dalla cornice. In chiave diacronica, inoltre, una foto, trascorso un lasso considerevole di tempo, non può che risultare manifestazione evidente e inoppugnabile del cambiamento: rivedersi, dopo anni, per esempio, in una foto può davvero essere sorprendente, a tal punto che viene difficile riconoscersi. Questa è pure la ragione per cui io e Mattia abbiamo pensato di unire le forze e di mettere a fronte scrittura e immagini: non soltanto perché «due descrizioni diverse sono sempre meglio di una sola» (Bateson 1984: 191), ma anche perché due forme appaiate di codificazione della realtà la catturano meglio, eludendo la gabbia di una prospettiva monotematicamente incentrata.
Nelle due etnografie da noi realizzate – una su Ballarò e, l’altra, sulla valenza del ricordo – ci siamo proposti di mescolare volutamente incursione sul campo e riflessione teorica correlata, senza distinguerle nettamente le une dalle altre, semmai lasciandole interagire – in loco, in atto e per flussi di pensiero spaiati – sulla base di ciò che incontravamo nei diversi luoghi presi in conto e in relazione ai nostri dialoghi di volta in volta instaurati. Nel momento della trasposizione finale del saggio, abbiamo fatto ricorso ad ampie citazioni e a riferimenti sistematici ad altre opere di altri studiosi, quindi senza lesinare sugli opportuni collegamenti teorici atti a meglio comprendere l’insieme, ma abbiamo pure deciso di mantenere la forma originale del lavoro fondata sul dialogo interpersonale e sull’enunciazione delle nostre riflessioni (più propriamente, si dovrebbe parlare di enunciazione enunciata dal momento che l’enunciazione in sé è, ovviamente, volatile e incoglibile). Abbiamo cercato di anteporre la pratica alla teoria senza per questo rispettare rigidamente il posto assegnato dall’una all’altra o prevedere un qualche ordine fissamente prestabilito, riservandoci piuttosto il diritto (e il piacere) di metterle a fronte – teoria e pratica – più liberamente, nel più classico stile etnografico che privilegia l’esperienza e la conoscenza diretta.
Comunemente, la teoria viene configurata in base alla pratica: in qualche modo ne raccoglie i frutti, generalizzando i risultati specifici e localmente situati. In altri casi, «la teoria non è costruita in base alla pratica, ma si rivela come una forma di pratica essa stessa» (Herzfeld 2006: 24). Pur privilegiando la pratica, noi abbiamo lasciato interagire le due dimensioni anche al fine di poterci riflettere – riflettere sul loro valore paradigmatico e sintagmatico – sul momento vissuto e sulle sue forme categoriali. Una discontinuità epistemologica inevitabile, oltre quella posta tra esperienza e scrittura, è proprio quella istituita tra teoria e pratica. Un lavoro etnografico è sempre una buona occasione per trasporre in termini più generali ciò che è stato vissuto in chiave più relativisticamente locale, nella pratica, ma può allo stesso tempo essere un utile tentativo di posizionamento convergente di pratiche e teorie più generali. Oltre ciò, come già anticipato, noi abbiamo cercato di superare – o, comunque, prendere più direttamente in conto – il ponte, spesso instaurato, tra la narrazione saggistica e la narrazione personale: chi scrive saggi è solitamente più noioso – o procede in modo più convenzionale – perché fa riferimento costante ad altri studi e mantiene, solitamente, una linea centrale di coerenza argomentativa; chi scrive di narrazioni personali tende invece a espungere ciò che di teorico risiede nella sua – soltanto apparente – narrazione e risulta più gradevole ma sicuramente meno esplicativo, con un’argomentazione più surrettizia e varia.
È bene ricordare che un saggio – qualsiasi saggio – non potrebbe essere esposto nella sua principale argomentazione se non avesse una minima struttura narrativa. È altresì bene ricordare che una narrazione – qualsiasi narrazione – oltre a raccontare una storia contiene una qualche argomentazione che tende a diventare, per quanto implicita, cristallizzazione teorica. La domanda semplice, riepilogativa, ma difficile dal punto di vista della risposta, è la seguente: è possibile coniugare insieme la narrazione (meno irreggimentata) e un approccio scientifico (più solido)? Noi ci abbiamo provato in assetto intersemiotico: facendo dialogare scritto e immagine, dialogo interpersonale e flussi di coscienza meno irreggimentati. Abbiamo, infine, cercato di oltrepassare lo iato, in alcuni casi posto, tra la narrazione fotografica e la narrazione scritta. Non abbiamo voluto, in nessun caso, tenere le due dimensioni separate. Tramite l’intreccio di scritto e foto, abbiamo soprattutto tentato di «fare dell’analisi una variante del suo oggetto» (de Certeau 2001: 3). Parlare di intreccio di immagini e scritto – come insieme che cerca di rendere la prossimità dell’esperienza e modo di mettersi alla prova in una pratica che considera l’analisi come variante di un oggetto del sapere – significa prendere seriamente in conto l’ipotesi di una antropologia indagatrice dell’esistenza nella sua interezza e groviglio di linguaggi interrelati. Non siamo, forse, tutti proiettati nell’esistere, in quanto individui, costantemente alle prese con ciò che vediamo, sentiamo, tocchiamo, percepiamo sinestesicamente? La vita è un flusso intersemiotico. I nostri tentativi messi in atto, proprio perché tali, sono sperimentali e hanno quindi diritto di replica teorica e pratica. Lo faremo ancora, di conseguenza, rimettendo noi stessi in causa in quanto soggetti alle prese con il mondo da rappresentare, un mondo a cui attribuire senso nella prossimità materiale e nella distanza virtuale: tornando a lavorare a Ballarò, rimescolando il rapporto instabile tra luoghi e ricordi. Ma non lo faremo qui per ovvie ragioni.
Nel presente saggio, piuttosto, ci prefiggiamo lo scopo di discutere – lo stiamo già facendo, situandoli nell’esposizione informale – alcuni concetti basilari lasciati in sospeso o di riprenderne alcuni già affrontati precedentemente in una chiave altrettanto dialogica e riflessiva – in questo contesto di stampo deliberatamente più comparativo – prendendo a esempio differenziale anche etnografie di altri studiosi, continuando a fare uso della foto come intreccio semiotico e come corredo immaginativo, oltre che estetico. Le foto, anche qui, nel saggio che i lettori hanno sotto gli occhi, non sono un elemento separato, di puro abbellimento, ma fanno parte integrante del tessuto narrativo e comparativo di cui intendiamo avvalerci: rimandano al mondo rappresentato ma raccontano ugualmente pieghe complementari; sono contrappunto allo scritto ma lo integrano proficuamente; sviluppano una sintassi figurativa che non è tuttavia fine a se stessa ma che si articola con lo stesso procedere dell’esposizione. Inutile, dire che, al pari dello scritto, anche le foto raccontano storie, benché per tratti figurativi e plastici d’altro tipo!
Suppongo che gran parte degli studiosi sia d’accordo su questo. È in ogni caso la nostra posizione: mia e di Mattia. È utile tenerne conto, quale che sia la sua valenza propositiva, per capire che rapporto si stabilisce tra la totalità di ciò a cui si tende, le modalità di attuazione di un punto di osservazione e la selezione effettiva dei dati. Come scrive Bateson: «sempre e inevitabilmente, ha luogo una selezione dei dati, poiché la totalità dell’universo, passato e presente, non può essere osservata da alcun singolo punto di osservazione assegnato» (Bateson 1977: 22). Anche volendo limitare la questione al presente, nessun singolo soggetto potrebbe mai essere, allo stesso tempo, dappertutto, moltiplicando le posizioni da cui osserva il mondo e se stesso. È invece opportuno ricordare, con maggior rilievo e insistenza, che scritto e foto, più che ‘leggersi’ separatamente, possono costituire un intreccio – congiunto, fruttuoso e più articolato – di incroci teorici e pratici, esistenziali ed epistemologici. La foto coglie la realtà, ma pur sempre in maniera mediata dalla sua capacità strumentale e dalle scelte adottate dal fotografo che è comunque costretto a ritagliare un frammento di ciò che vede e a trasporlo in un singolo scatto opportunamente selezionato. La realtà colta dal fotografo si situa in parallelo, inoltre, con quella che propone la didascalia e l’eventuale scritto che si mette a fronte nel testo finale. Il rapporto instaurato tra scritto e immagine – di commento, traduzione, interpretazione, dialogo, etc. dell’uno rispetto all’altro – è ricco, ma anche problematico, da analizzare e su cui ragionare, perché pone in essere l’articolazione interna tra due modalità di rappresentazione della realtà (lo scritto e l’immagine) e l’articolazione esterna data dall’intenzione del fotografo e scrittore, nonché dalla stessa realtà ritagliata, resa e persino modificata. Come scrive Sontag, «il fotografare è insieme una tecnica illimitata per appropriarsi del mondo oggettivo e un’espressione inevitabilmente solipsistica del singolo io» (Sontag 1978: 105).
La questione di fondo è che il mondo difficilmente esiste per sé, in totale isolamento dagli esseri umani: tra noi e il mondo esiste «una prossimità vertiginosa che ci impedisce di coglierci come puro spirito separato dalle cose o di definirle come puri oggetti senza alcun attributo umano» (Merleau-Ponty 2002: 39). Il lavoro etnografico, di conseguenza, può essere inteso come un tentativo duplice e congiunto: da una parte, una immersione più consapevole nella prossimità che ci tiene incollati alle cose; dall’altra, una presa di distanza riflessiva – per quanto impossibile, in atto, nella sua totalità – dal nostro inevitabile posizionamento temporale e spaziale. In questa direzione, qualsiasi tipo di antropologia – ogni sua tipica specializzazione in vari settori – è comunque una antropologia della conoscenza (e della prossimità del soggetto al mondo) che si pone l’obiettivo di «studiare la natura dello studio stesso, il processo di acquisizione e conservazione dell’informazione» (Bateson 1997: 358).
Nel presente saggio entra maggiormente in gioco – più che nelle nostre due etnografie – anche la discussione di altrui ricerche sul campo e teorie che costituiscono linfa vitale per l’etnografia e l’antropologia. La domanda è: perché? Non sarebbe forse meglio attenersi, in modo circolare, a ciò che abbiamo fatto io e Mattia nelle etnografie? Dove si chiude e dove inizia una etnografia? E, soprattutto, che rapporti si possono – o si devono – stabilire tra la nozione (e pratica) di vita e di etnografia? Siamo talmente incollati alla nostra vita che ci viene difficile pensare di poterci riflettere o, persino, di considerare la vita un ‘esercizio di etnografia profonda’ applicata ai processi esperienziali. Questa ipotesi, da sola, sarebbe già una ragione sufficiente a giustificare l’uso comparato di altre etnografie: chiamare in gioco le etnografie degli altri, riconfigurando opportunamente le proprie, consente al contempo il giusto distacco per potere ampliare lo sguardo etnografico verso la vita stessa. Comparare è conoscere. Comparare è decentramento della propria, singolare prospettiva. Discutere delle altrui etnografie è uno splendido modo per avanzare in modo più consapevole, oltre che per decentrare le proprie prospettive, sovente troppo ancorate al punto di vista di un soggetto imprigionato dalla sua visione del mondo. Discutere delle altrui etnografie, ripensando alle proprie, significa pensare alla comparazione come strumento di analisi e, allo stesso tempo, come forma di esplorazione del passato per migliori proiezioni nel futuro della ricerca sul campo. Discutere delle altrui etnografie consente di prendere meglio coscienza dei modi di aprire e chiudere una etnografia attribuendole, così, valore e senso culturalmente orientato. Quest’ultimo punto non deve essere considerato parcellare o minore. La dialettica tra apertura e chiusura, benché scarsamente esplorata in antropologia, rimane un elemento di indiscussa importanza dell’umano esperire. Crapanzano, per esempio, ne fa il pilastro costitutivo delle sue riflessioni in Orizzonti dell’immaginario: «Ciò su cui mi interrogo è il nostro modo di aprire o di chiudere, il nostro modo di costruire, intenzionalmente o meno, orizzonti che determinano ciò che esperiamo e il modo in cui lo interpretiamo» (Crapanzano 2007: 11).
Ma la questione non riguarda soltanto l’immaginario nel suo rapporto con l’esperienza individuale e la sua interpretazione collettiva: riguarda, sottolineando ed espandendo l’ipotesi di Crapanzano, anche le modalità dell’agire in società e le tipologie di trasformazione di status individuali e collettivi. La ritualizzazione stessa del fare, per esempio, include varie, sovente implicite e inavvertite, forme di apertura e chiusura. Basti pensare alla concettualizzazione fondamentale formulata da Van Gennep a proposito dei riti di passaggio, i quali prevedono una fase di separazione, di margine e di riaggregazione. Quali aperture e chiusure si inseriscono in queste fasi? Come si aprono e come si chiudono i riti e secondo quali convenzioni o stravolgimenti incoativi e terminativi? E le nostre stesse etnografie – mia e di Mattia – non contengono forse un alto gradiente di ritualizzazione, con fasi diverse di apertura e chiusura degli orizzonti esperienziali posti e proposti? Un antropologo è anch’egli un essere umano il quale, nonostante le sue specifiche competenze, non può sfuggire ai rituali individuali e collettivi messi in opera dalla sua stessa società. Benché Van Gennep non ne abbia parlato direttamente in termini di apertura e chiusura, queste categorie si prestano a una riattualizzazione dei concetti usati in passato e reinquadrano le questioni associate al vivere e all’agire in modo più analitico. Si ricordi che, già per Van Gennep, «vivere significa disaggregarsi e reintegrarsi di continuo» (Van Gennep 1981: 166) e dunque aprire (e chiudere) ad aggregati diversi nel corso dell’esistenza.
Per molti aspetti, questo nostro – mio e di Mattia – modo di procedere è epistemologicamente situato, cioè fondato essenzialmente su una domanda che dovrebbe essere ricorrente in qualsiasi disciplina e non soltanto in antropologia: che vuol dire conoscere e come si conosce? Uno degli studiosi che, a mio avviso, si è posto questa domanda con maggiore frequenza e potenza è Gregory Bateson, il quale ha vissuto la sua vita da intellettuale – doveroso sottolinearlo – al di fuori delle convenzioni e degli ingabbiamenti disciplinari lisi e monocorde. Barnard, nella sua storia del pensiero antropologico, lo considera giustamente – insieme a Mary Douglas – un eclettico battitore libero: «nessuno dei due ha concluso la sua carriera scrivendo testi convenzionali di antropologia, e nemmeno insegnando in un dipartimento di antropologia. Nonostante ciò, Gregory Bateson e Mary Douglas sono entrambi due brillanti esempi del contributo fornito dalla teoria antropologica al pensiero sociale. Essi rimangano due autori significativi per la nostra disciplina, anche se non sono stati alla sua guida in una posizione di avanguardia e non hanno seguito le tendenze del loro tempo» (Barnard 2002: 201). Il fatto interessante, che fa apparire Bateson ai miei occhi come uno dei più grandi pensatori sociali del secolo scorso, è non soltanto la ricorrenza – implicita ed esplicita – della domanda d’ordine epistemologico sul conoscere da lui posta, e onnipresente nei suoi lavori, ma anche l’intento di approfondirla riponendola, rimodulata, nei confronti di oggetti diversi e inconsueti del sapere. Bateson si è occupato di molte e diverse cose.
Bateson passava, senza difficoltà e pregiudizi, da un oggetto all’altro del sapere (e da una disciplina all’altra) non soltanto per cercare di esaurire la complessità dell’oggetto preso in conto ma anche per approfondire la questione della conoscenza in sé e del rapporto esistente tra mente e natura nella sua interdipendenza (Bateson 1984). In questo, Bateson aveva largamente anticipato i tempi e può quindi essere considerato una sorta di precursore di un certo ecologismo. Bateson pensava, più esattamente, che l’epistemologia – la domanda riguardante il conoscere e le sue modalità di apprensione e realizzazione – fosse il «grande ponte che collega tutte le branche del mondo dell’esperienza – intellettuale, emotiva, osservativa, teorica, verbale e non verbale. Dal punto di vista dell’epistemologia, la conoscenza, la sapienza, l’arte, la religione, lo sport e la scienza sono collegati» (Bateson 1997: 359). Penso dunque che Bateson abbia con intenzione – non dovuto al caso o alle occasioni capitategli, di volta in volta, di fare ricerca in campi diversi nel corso dell’esistenza – lavorato intellettualmente passando da una questione (e da una disciplina) all’altra per meglio conoscere il processo del conoscere e le relative prospettive scaturite nei diversi contesti d’uso e disciplinari.
Io e Mattia, nel nostro piccolo, ci schieriamo dalla sua parte: dalla parte di un conoscere che, per essere veramente tale, deve essere messo a fronte di un metaconoscere che include la natura e la cultura per intrecci variamente resi. Sulla falsariga di Bateson, crediamo infatti che si conosca meglio facendo uso di un approccio comparativo di tipo sincronico e, di più, se il quesito epistemologico possa venire riproposto anche, nel tempo, diacronicamente. In sostanza, il conoscere non è mai sganciato da una riflessione sulle procedure messe in atto al fine di conoscere che sono, a loro volta, oggetto e analisi di ulteriore riflessione. Memori dell’insegnamento felicemente indisciplinato di Bateson, io e Mattia abbiamo voluto, nelle nostre due incursioni etnografiche sul campo, cambiare – zigzagando dall’una all’altra – il nostro oggetto tematico di riflessione e passare da un mercato tipicamente popolare – come quello di Ballarò – a un tutt’altro genere di interrogazione tematica: quella riguardante il ricordo e la possibilità di sottoporre lo spazio a uno sguardo etnografico incentrato su due forme diverse di codificazione quali lo scritto e la foto anche in relazione al tempo più impalpabile. Il disorientamento prodotto nel passare da un oggetto di sapere all’altro – da un mercato vero e proprio alla catena di ricordi impalpabili suscitati da luoghi particolari – non è stato inutile per i nostri fini teorici e pragmatici. Ha consentito non soltanto di riflettere sull’integrazione di un dinamismo temporale più variegato nella ricerca, ma di prendere anche in conto lo spazio in una versione più straniante, dovuto al fatto che il ricordo del passato è associato agli spazi ormai modificati nel tempo dal momento in cui ho vissuto l’esperienza – da adolescente – al momento odierno in cui abbiamo lavorato sul campo io e Mattia.
Questo approccio multivalente, disincantato, pone in seria crisi l’idea di campo etnografico tutto situato nel presente – solitamente esotizzante nella vecchia concezione antropologica – e, in modo uniforme, concepito e realizzato in una sola direzione temporale: pragmaticamente dall’arrivo sul campo in poi. Cosa è un campo in etnografia? Si arriva sul campo, la ricerca inizia, si lascia il campo e la ricerca finisce: lo spazio e i concetti di inizio (arrivo) e fine (ripartenza) giocano un ruolo cruciale in questa concezione obsoleta dell’etnografia. Il campo, in una ipotesi di ricerca esotizzante, avrebbe infatti inizio, all’arrivo, sul luogo lontano e si chiuderebbe abbandonandolo: il tempo e lo spazio sono dunque incorniciati in modo fisso. Nella mia prospettiva, il campo è invece dappertutto: spazialmente, oltre che temporalmente, andando a ritroso nel tempo, proiettandosi nel passato, risiedendo nel presente, immaginando il futuro. Il campo è l’esistenza stessa nella sua proliferante complessità: temporale, spaziale e soggettale. L’aspetto apparentemente negativo – lo straniamento che tendenzialmente blocca – è che non è possibile cogliere l’esistenza nella sua indivisa interezza, completamente, una volta per tutte, in una sorta di chiusura terminativa. Ma è, questo, a mio parere, uno degli aspetti più affascinanti della ricerca vista in costante divenire: non ha mai fine; si collega sempre ad altro; rimanda a un senso sempre da ricostruire, mai ultimo o dato in partenza progettualmente nella sua interezza. Come scrive Lévi-Strauss a proposito del mito, ma generalizzabile ad altro, ivi compreso alla stessa esistenza: «non si arriva mai a un senso ultimo. D’altronde, forse che nella vita ci si arriva?» (Lévi-Strauss 1988: 197). Questo è un dato di fatto: si vive nel rimando ad altro, nell’intreccio di ciò che è l’identità e l’alterità. Bisogna dunque rifletterci. Bisogna spostare il senso comune affibbiato alle nozioni di inizio e fine, di apertura e chiusura. Bisogna approfondire la questione del senso in relazione a ciò che viene concepito come non-senso. E, in questa prospettiva, allargare la ricerca etnografica all’esistenza è un passo dovuto. Quale è la difficoltà?
Nelle pratiche costitutive del sociale poste in essere dall’individuo, l’esistenza prende forma in modo frammentario all’interno di un testo – scritto, visivo o altro – che ne accoglie l’esperienza mutevolmente e parzialmente. L’esistenza non può che essere colta, in definitiva, nella sua frammentarietà: per porzioni e ritagli vari. Ma non è questa una buona ragione – l’instaurarsi di forme specifiche di discontinuità – per non ‘aprire’ l’etnografia all’esistenza, al suo incedere incalzante! È necessario dunque porsi l’ambizione, a tutto tondo, che consiste nell’etnografare l’esistenza nella sua complessità, pur nella sua inevitabile frammentarietà, ragionando sulle diverse forme di discontinuità emergenti qui e lì: tra realtà e codificazione scritta o visuale o altro; tra vissuto esperienziale e sua espressione; tra enunciazione ed enunciazione enunciata; tra flussi di coscienza e pensieri ordinati; tra emozioni singole e loro sequenze intrecciate, tra instanziazioni di identità e alterità, etc. In secondo ordine, questo – nostro – approccio pone in evidenza il posto di rilievo occupato dal soggetto rispetto all’oggetto preso in conto. Se, nell’incursione sul campo a Ballarò, noi abbiamo posto sotto la lente dell’osservazione oggetti e movimenti presenti in un mercato tradizionale dialogando tra noi e usando la foto, nel secondo caso – quello riguardante l’etnografia del ricordo – il posto occupato dal soggetto è diventato preponderante, sicuramente installato in primo piano, andando in qualche modo aldilà dell’atteggiamento teso a registrare – quasi fossimo delle cineprese, nell’etnografia di Ballarò – tutto ciò che cadeva sotto i nostri occhi.
Nel caso dell’etnografia dei ricordi da noi realizzata in chiave multi-situata, ciò che cadeva sotto i nostri occhi rimandava agli elementi che venivano a galla anche nella memoria e nella sequenza associativa dei ricordi di quel soggetto che io sono (e che ero stato in passato). In sintesi, andando a ritroso, la domanda che è emersa con forza è stata la seguente: quale è il posto del soggetto nel processo di oggettivazione del mondo e quale è il rilievo dato al suo pensare in quanto processo e prodotto culturale? È pur vero che in un mercato popolare, essendo molto vivace, sovente pure caotico, l’attenzione viene più facilmente catturata da quello che succede, disordinatamente, tutt’intorno il soggetto indagatore, il quale tende in effetti a osservare il mondo esterno con maggior dettaglio e a proiettarsi al di là di se stesso, dimentico di tutto il resto, ivi compreso dei suoi flussi di pensiero, sensazioni ed emozioni qualificatrici. Le etnografie del pensare sono difficili non soltanto perché noi pensiamo soprattutto per flussi inavvertiti, ma anche perché l’antropologia, per tradizione, ha teso a porre sotto la propria lente osservativa l’alterità esterna ed è stata poco incline in passato a rivolgere ‘la telecamera’ anche verso l’interno del soggetto. E ciò nonostante esista, fortunatamente da tempo, anche una corrente che definisce il proprio lavoro come autoetnografico (Reed-Danahay 1997; Okely, Callaway 1992). Che partito trarne in sostanza? Gli elementi relativi alla soggettività dell’etnografo – ivi compreso i suoi flussi di pensiero, le sensazioni parcellari e i fiotti di emozioni accompagnatori – dovrebbero essere posti al vaglio della riflessione e dell’analisi invece di essere rimossi o trascurati. La soggettività dell’antropologo – come, d’altronde, quella di chiunque altro individuo in altri campi – dovrebbe inoltre essere vista in relazione agli oggetti specifici presi in conto e alla relazione che si viene a creare tra soggetto e oggetto. E l’etnografia dovrebbe essere vista come una vera e propria forma di regolazioni soggettivanti e oggettivanti in divenire.
Nel nostro caso, Ballarò suggeriva una prospettiva fondata sull’interazione tra i vari sensi e sullo sguardo – noi abbiamo parlato di incursione – che non poteva non posarsi sul dinamismo degli oggetti e dei soggetti che circolavano più caoticamente all’interno del mercato. Per quanto riguarda la seconda etnografia, quella del ricordo, la regolazione tra soggettività o oggettività veniva più spontaneamente a mettersi in forma attraverso il rimando temporale e, più particolarmente, attraverso il va-e-vieni tra passato e presente in rapida successione. Il contesto è stato dunque decisivo. L’inserimento del soggetto nei diversi contesti, in cui si trova ad agire, è continuamente regolato dalla relazione instaurata con il contesto stesso e con l’oggetto di sapere preso in conto per la ricerca. Non si deve quindi pensare che il soggetto sia padrone incontrastato della propria soggettività e nemmeno di una ipotetica capacità d’azione illimitata sul mondo esteriore perché «i punti d’inserzione, i modi di funzionamento e le dipendenze del soggetto» retroagiscono sul mondo interiore del soggetto, ritagliando in un certo qual modo la sua attività (Foucault 1971: 20). Come scrive Pratt, inquadrando la questione in termini di tropi: «un primo passo in questa direzione è il riconoscimento che i propri tropi non sono né naturali, né, spesso, specifici della disciplina. Così, se lo si desidera, è possibile liberarsene, non eliminandoli completamente (che è impossibile), ma inventando nuovi tropi (che è possibile)» (Pratt 1997: 80).
Parimenti, si può dire che un antropologo non può liberarsi, anche volendolo, della propria soggettività; può però essere più consapevole dei modi attraverso cui, in quanto soggetto, oggettivizza la realtà e le interazioni con gli altri individui. Nonostante il generale ‘rimosso’ relativo alla soggettività e alla propensione all’analisi del pensiero per flussi, alcune proposte di antropologi di grande autorità sono andate, felicemente, in questa direzione: si guardino, per esempio, per quanto riguarda la dimensione temporale, le conclusioni di The anthropology of time di Gell o, meglio ancora, le proposte più esplicite di Geertz a proposito del pensiero e della relativa possibilità di una sua etnografia. Si può concepire una etnografia del pensiero o, più modestamente, ci si deve accontentare di mettere in opera etnografie che mirano espressamente al mondo esteriore, senza quindi fare riferimento al mondo interiore dei soggetti? Secondo Geertz si può – si dovrebbe – mettere in cantiere un approccio etnografico che considera il pensiero come oggetto di studio. In modo avanguardistico, infatti, nonostante non lo faccia lui stesso in prima persona nelle sue etnografie, Geertz suggerisce di mettere in cantiere una vera e propria etnografia del pensiero rivelatrice del modo in cui viviamo noi, oggi, all’interno delle diverse comunità, persino in rapporto alle varie discipline che caratterizzano gli approcci degli studiosi. L’ipotesi di Geertz vale sia per i singoli individui e le comunità all’interno delle quali sono accolti sia per le stesse discipline, viste non come percorsi intellettuali di tipo strategico ma come modi di essere proiettati nel mondo:
«le varie discipline (o matrici disciplinari) sia umanistiche sia naturali sia sociali, che formano il discorso slegato del pensiero moderno, sono più che semplici posizioni strategiche intellettuali: sono modi di essere nel mondo, per ricorrere ad una formula di Heidegger, forme di vita, per usarne una di Wittgenstein, e varietà di esperienza noetica, per servirsi di una di James. Allo stesso modo in cui gli abitanti della Papuasia o dell’Amazzonia abitano il mondo che essi immaginano, così fanno i fisici dell’alta energia o gli storici del Mediterraneo dell’età di Filippo II […]. È quando cominciamo a vedere che [questo] non significa svolgere un compito tecnico ma aderire a una struttura culturale che definisce gran parte della vita, che un’etnografia del pensiero moderno comincia ad apparire un progetto indispensabile» (Geertz 1988: 197-198).
La nostra proiezione nel mondo, insomma, non riguarda soltanto noi stessi in quanto esseri umani affaccendati nelle comuni azioni giornaliere, bensì le stesse discipline attraverso le quali cerchiamo di dare un ordine al mondo inquadrandolo secondo le prospettive da esse fornite culturalmente. Per Geertz, persino i compiti tecnici sono orientati culturalmente, allo stesso modo in cui l’organizzazione culturale orienta gli stili di vita più generali e le sue inflessioni individuali. In definitiva, per riassumere quanto detto finora, quale è la questione di partenza per potere concepire al meglio una etnografia del pensiero? Si deve «concepire la cognizione, l’emozione, la motivazione, la percezione, l’immaginazione, la memoria, ecc., qualsiasi cosa come se stessa e, allo stesso tempo, come questione sociale» (Geertz 1988: 194). Si vede bene che Geertz sostiene, con la dovuta fermezza, che il rapporto tra pensiero (nonché emozione, motivazione, percezione, etc.) ed altri elementi sociali è ineludibile. Un elemento, quindi, quale che esso sia, deve essere considerato non soltanto in isolamento ma, anche, nell’intreccio che lo costituisce socialmente, all’interno della comunità. In sostanza, nonostante la diversità di approcci, un principio a cui attenersi è che bisogna considerare «la comunità come la bottega in cui i pensieri vengono forgiati e disfatti» (Geertz 1988: 195). Ciò significa che, proprio perché è impossibile cercare nella testa di un individuo, penetrando materialmente al suo interno per capire cosa pensa, bisogna adottare l’approccio contrario: affrontare il problema a partire dalla comunità e dal senso che questa attribuisce al pensiero individuale e sociale. Più che qualcosa di esclusivamente privato e interiore, dunque, bisogna considerare il pensiero come significativo per l’intera comunità e per l’individuo stesso che ne fa parte.
Fondamentalmente, nelle nostre due etnografie, io e Mattia abbiamo cercato di attenerci a questo principio etnografico di base secondo cui il pensare acquisisce senso in relazione all’intreccio di azioni, percezioni ed emozioni vissute nel processo, in rapporto alle interazioni con gli altri individui e con i nostri stessi rimandi dialogici. Abbiamo preso in conto l’ipotesi di Geertz, lasciandoci andare ai nostri pensieri, un po’ più liberamente, traducendoli in elementi di senso senza prendere le distanze dal processo in cui ci situavamo, anzi sottolineandone la portata semiotica di intreccio. Abbiamo visto la nostra ricerca sul campo come una vera e propria etnografia, basata fondamentalmente sul diretto esperire, producendo descrizioni legate alla fluidità del contesto, meno passate al setaccio del ragionamento freddo e distante di chi si sente già slegato dalla situazione in cui si trova e si è trovato. Ovviamente, qualsiasi processo, per potere essere reso, abbisogna di una forma di codificazione e trasposizione che lo traduca in testo vero e proprio. Io e Mattia ci siamo avvalsi della scrittura e della fotografia per farlo: accostando i due diversi ‘strumenti’, quali sono la fotografia e la scrittura, ragionandoci sopra, riaggiustandoci reciprocamente. Ma è anche vero che qualsiasi forma di codificazione e trasposizione del processo richiede una certa distanza che riduce la complessità e totalità insiemistica del processo stesso. Noi abbiamo sopperito a questa impossibilità di totale prossimità all’oggetto di studio grazie alla trascrizione in loco di alcuni dialoghi e all’uso della fotografia meno mediata, i quali ci hanno consentito di mantenerci, il più possibile, nei ‘paraggi’ del processo.
Detto ciò, è impossibile annullare del tutto lo iato posto tra il processo e la trascrizione dei dati: non soltanto perché qualsiasi ‘situarsi nel tempo e nello spazio’ del soggetto è dell’ordine del continuo e la sua traduzione in testo è invece dell’ordine del discontinuo, ma anche perché l’articolazione tra contesto e testo è molto variabile, dipendente sia dalle competenze pragmatiche e dall’orientamento teorico dell’antropologo sia dai soggetti effettivamente incontrati, con i quali si è stabilito un tipo di dialogo o altro. Per quanto ci riguarda, nonostante abbiamo adottato un approccio più fenomenologicamente situato, la vicinanza con l’ipotesi di Geertz è innegabile: abbiamo osservato, comparato, interpretato e dialogato mettendo in scena i nostri stessi pensieri sul pensare la prossimità. Queste componenti – osservazione, comparazione, dialogo, interpretazione e altro ancora – sono, in misura variabile, presenti in qualsiasi etnografia: l’uso più marcato di una componente o l’altra dipende dall’antropologo oltre che dall’interazione contestuale. In ogni caso, quali che siano le preferenze, è importante ribadire il fatto che «colui che osserva, che lo voglia o no, non cessa di interpretare e paragonare» (Augé 2007: 27).
Per quanto riguarda il pensiero, un elemento di fascino – se non altro per noi – deriva dal fatto che Geertz fa, nel suo saggio, un accostamento insospettato tra pensiero ed etnografia e, soprattutto, non considera il pensiero un elemento puramente astratto o parte integrante delle leggi dello spirito (come fa Lévi-Strauss). Nei termini di Geertz, insomma, il pensiero deve essere visto etnograficamente, cioè come produzione di descrizioni del mondo all’interno del quale il pensiero acquisisce senso: in una cultura o l’altra, nella ampiezza della sua varietà. In questa prospettiva geertziana, pensiero, descrizione etnografica e significato sociale sono indissolubilmente legati e vanno al di là dei diversi settori disciplinari, quali possono essere la storia, l’antropologia o le scienze esatte:
«Quello che unisce Victor Turner, che armeggia in mezzo al simbolismo colorato dei riti di passaggio, Philippe Ariès, che passa in rivista immagini funeree di morte o immagini scolastiche dell’infanzia e Gerald Holton che scopre themata da gocce d’olio, è il credere che l’ideazione, sottile o meno, sia un manufatto culturale. [Scaturisce da questa concezione] che il pensiero (qualunque pensiero: di Lord Russell o di Baron Corvo, di Einstein o di qualche impettito eschimese) deve essere compreso ‘etnograficamente’, vale a dire deve descrivere il mondo in cui assume il suo significato» (Geertz 1988: 193-194).
Per elaborare la sua ipotesi, Geertz fa ricorso a un ricco insieme di concetti: etnografia, comunità, attività, significato, questione sociale, compito non tecnico, struttura culturale, definire la vita, progetto indispensabile. Diciamo, dunque, che noi abbiamo rimaneggiato a modo nostro il vocabolario concettuale geertziano in senso più fenomenologico, attenti al senso da ricercare nell’attività in corso, al contempo cercando di descriverla al meglio senza prendere troppo le distanze dall’accaduto e dal contesto in cui ci siamo situati e abbiamo dialogato. Ma la nostra impostazione tiene conto anche di altre esigenze, oltre Geertz: esigenze che possono essere considerate delle debolezze nel modo di procedere di Geertz e che noi abbiamo cercato di evitare nel nostro lavoro. Quali debolezze più esattamente? Possiamo accennare qui essenzialmente a due bordate che hanno messo in rilievo questioni di una certa importanza: una dall’interno e più moderata (Rosaldo) e una dall’esterno e più demolitrice (Crapanzano). Una bordata dall’interno viene da Rosaldo – un suo anziano allievo – che gli critica l’impostazione eccessivamente incentrata sulla nozione di interpretazione, la quale non tiene conto della forza esplicatrice delle emozioni e dell’opportuno riorientamento dell’antropologo dovuto ai diversi posizionamenti assunti sul campo (Rosaldo 2001). Una bordata critica, più forte, gli viene da Crapanzano che analizza approfonditamente Il gioco profondo: note sul combattimento dei galli a Bali mettendone in risalto le debolezze dal suo punto di vista: secondo Crapanzano, Geertz instaura un dialogo più con i lettori del suo testo che con i balinesi, i quali sono generalizzati, mai effettivamente presi in conto in quanto individui veri e propri; inoltre, la concezione del combattimento dei galli di Geertz viene spacciata, secondo Crapanzano, per quella dei balinesi; infine, Geertz non instaura un dialogo con i balinesi e non manifesta il loro punto di vista, rinunciando persino a descrivere, nel particolare, uno specifico combattimento dei galli (Crapanzano 1997).
Le obiezioni di Crapanzano, per quanto espresse con molta crudezza e vivacità, sono effettivamente pertinenti. Nonostante le manifesti in maniera più moderata, le obiezioni di Rosaldo sono anch’esse di rilievo. Per molti versi, ne abbiamo tenuto conto, io e Mattia, nelle nostre due brevi etnografie, soprattutto incentrando le nostre incursioni sul campo in una chiave più dialogica e fenomenologica, purtuttavia senza dimenticare l’andirivieni tra l’inevitabile prossimità al processo e la necessaria distanza richiesta dalla testualizzazione. Qui, però, per meglio capire il nostro approccio intersemiotico e allo stesso tempo parzialmente fenomenologico, riteniamo utile insistere su alcuni tratti relativi al modo di concepire l’etnografia da parte di Geertz comparando la sua prospettiva con quella più generale di Lévi-Strauss che va invece in senso contrario. Se si volesse riassumere l’apporto di Geertz, nonostante la sua ricchezza e varietà di pensiero in poche parole, si potrebbe dire ciò che viene maggiormente messo in rilievo è l’importanza dell’interpretazione rispetto all’oggetto di studio preso in conto, nonché il valore assegnato alla prossimità dell’antropologo per quanto riguarda la conoscenza. Si ricordi che, nella nota definizione di cultura, la potenza del ruolo interpretativo dell’antropologo, in quanto essere umano, viene smussata proprio dalla prossimità ineludibile con il suo oggetto di studio, con la cultura e gli stessi significati da lui prodotti: l’uomo è «un animale impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto» (Geertz 1987: 11).
Nella definizione di cultura di Geertz si vede bene che l’antropologo, in quanto uomo ermeneutico, è direttamente coinvolto nel suo fare, talmente schiacciato sul proprio oggetto di studio che le sue osservazioni hanno valore di interpretazioni che rimandano non soltanto all’oggetto di studio ma, anche, al soggetto stesso che interpreta e produce cultura. Indubbiamente, nei termini in cui pone la questione Geertz, si può ben dire che questo era un tassello mancante nel pensiero antropologico: viene sottolineato, da Geertz, proprio il ruolo dell’antropologo in quanto interprete produttore di significati dipendenti dalle reti in cui egli si impiglia. Una di queste reti è, per l’appunto, il contesto: un elemento di cui noi abbiamo cercato di tenere massimamente conto nel nostro lavoro. La sottolineatura della prossimità può essere intesa come una replica allo sguardo da vicino e da lontano di Lévi-Strauss. Si ricordi che, per Lévi-Strauss, la conoscenza è il risultato di questo andirivieni tra la prossimità e la distanza: «Non sarebbe possibile nessuna conoscenza se non si distinguessero i due momenti [la prossimità e la distanza]; ma l’originalità dell’indagine etnografica consiste in questo va-e-vieni incessante» (Lévi-Strauss 1988: 214).
Per Geertz, l’antropologo conosce – interpreta – ma lo fa sempre nella prossimità, quindi senza avere le idee del tutto chiare su ciò che sta facendo o osservando, dunque incappando eventualmente in errori e travisamenti interpretativi. Per Lévi-Strauss, invece, l’antropologo conosce – decifra codici – nell’andirivieni che lo situa nella prossimità e nella distanza. L’apporto dell’antropologo, nel caso di Lévi-Strauss, viene messo a fronte dei – si potrebbe dire, viene relegato nei – sistemi analizzati in termini di relazioni e opposizioni presenti negli stessi sistemi. Invece, nel caso di Geertz, l’apporto dell’antropologo viene maggiormente preso in conto – in effetti, l’antropologo interpreta adottando una propria prospettiva – ma viene minato dalla prossimità instaurata con l’oggetto di studio. Sembrerebbe un passo avanti, quello di Geertz rispetto a Lévi-Strauss per quanto riguarda l’attenzione data alla soggettività degli inidividui, ma si deve pure dire che l’introduzione della nozione di interpretazione non equivale a prendere in conto la soggettività dell’antropologo – e dei suoi interlocutori – in tutto il suo spessore. Geertz pone il problema della soggettività ma non indaga a fondo, ulteriormente, in questa direzione: dà per scontata la soggettività dell’antropologo includendola nell’atto interpretativo, senza estenderla ai suoi nativi.
In sostanza, Geertz e Lévi-Strauss possono essere considerati, a ragione, un ottimo esempio di due modi opposti di vedere l’antropologia e, più particolarmente, l’apporto del soggetto in etnografia. Le critiche rivolte ai due autori sono ben note. Per quanto riguarda Lévi-Strauss, si pensi alla sua concezione del dialogo: i miti sono in relazione dialogica tra loro, ma non lo sono certamente gli individui per l’antropologo francese. Di fatto, «il pensiero mitico, messo di fronte a un problema particolare, lo mette in parallelo con altri» (Lévi-Strauss 1988: 194). Ma ciò vale soltanto per i miti. Il livello di pertinenza scelto da Lévi-Strauss non tiene conto, dunque, della possibilità per i nativi di prendere parte a questo dialogo. Lo nota con disappunto Tedlock: «tutte quelle centinaia di pagine sui miti sudamericani […] Non si impegna [Lévi-Strauss] in un dialogo con loro? Ma, se gli diamo un’altra occhiata, non è consentito a un solo indiano sudamericano di esprimersi in tutte quelle pagine» (Tedlock 1983: 335). Naturalmente, bisogna precisare che si tratta, in definitiva, di livelli di pertinenza adottati, consapevolmente o meno, da un antropologo o l’altro: l’adozione di una prospettiva o l’altro dipende anche dall’orientamento di scuola e dal periodo storico in cui si vive.
Nel caso nostro, mio e di Mattia, abbiamo intenzionalmente scommesso sul valore del dialogo – tra noi, tra noi e gli altri e tra gli stessi sistemi usati quali la scrittura e la fotografia – prendendo in parte le distanze da una impostazione legata esclusivamente al mito o alle interazioni per opposizioni d’ordine strutturale. Un punto va sottolineato in questa direzione: il valore e l’estensione del dialogo. Per molti aspetti, secondo noi, l’ipotesi di Bachtin può valere sia per la parola orale e scritta sia per l’articolazione tra scritto e fotografia, così come per altri sistemi semiotici: «La parola nasce nel dialogo come sua replica viva e si forma nell’interazione dialogica con la parola altrui nell’oggetto. L’atto con cui la parola concepisce il suo oggetto è dialogico» (Bachtin 1979: 87). È ciò che abbiamo tentato di fare io e Mattia, estendendo l’ipotesi di Bachtin in due diversi contesti: Ballarò e i luoghi del ricordo. Naturalmente, si potrebbe ulteriormente estendere questa ‘ipotesi relazionale’ anche al dialogo interiore – un antropologo o un fotografo continuano a pensare per flussi sul campo e fuori dal campo – e includere questo aspetto pregnante nelle etnografie a tutto tondo. Io e Mattia ne abbiamo tenuto conto senza, tuttavia, esasperare questo aspetto che, a ragione, potrebbe diventare macroscopico e dovrebbe, comunque sia, richiedere sempre più l’attenzione, oggi, da parte degli studiosi (Lœvenbruck 2022). Sicuramente, un punto va mantenuto a oltranza: gli aspetti dialogici relativi alle ricerche etnografiche non possono e non devono essere trascurati – oggi come in passato – se non altro perché prevedono l’ipotesi che l’Altro ha uguale diritto di parola e non è mai – non dovrebbe mai essere – un soggetto subordinato o dominato. In alcuni casi, proprio in questa prospettiva, il dialogo acquisisce positivo valore di controllo e verifica delle proprie interpretazioni. Per esempio, Feld coinvolge i suoi interlocutori kaluli del Bosavi di Papua Nuova Guinea nella ricerca del significato delle sue ricerche su di loro. A Feld, mentre si trovava sul campo, tra i kaluli, viene infatti recapitata una copia della sua etnografia. Così, si mette a tradurre ai kaluli parti del suo testo e si rende conto che le loro reazioni sono diverse da ciò che si aspettava. Traducendo e discutendo con i kaluli – di fatto avviando un dialogo sulle sue interpretazioni su di loro – introduce quel giusto principio di diritto alla parola da parte dell’Altro e, al contempo, rimette in circolo semantico le sue stesse interpretazioni. Il testo sui kaluli diventa quindi il pretesto per un lavoro ulteriore sul dialogo che si instaura tra Feld e i kaluli sulla base della sua interpretazione precedente. Questa strategia, tra le altre cose, è altresì un bel modo per ribadire il fatto che i significati non hanno una loro fissità ideale ma sono sottoposti al processo di verifica contestuale e processuale: il significato nasce anche dall’interazione e tende a essere mobile. Ancora una volta, quindi, il processo diviene l’elemento da studiare debitamente e di cui tenere conto in relazione agli altri intrecci di cui abbiamo parlato.
Così, a questo punto, è venuto il momento di tirare le somme e concludere, per quanto parzialmente. Cosa abbiamo inteso fare io e Mattia in questo breve saggio in cui torniamo indietro, sui nostri passi, riflettendo sul modo in cui abbiamo proceduto nelle nostre etnografie, confrontandoci con altri antropologi e misurando il gradiente di categorizzazione di altrui etnografie? Pensiamo, semplicemente, che ‘tornare indietro’ sia un modo per dare tempo alla riflessione – al pensare in contesto e fuori contesto – di sedimentare prima di passare alle prossime etnografie previste: una etnografia che sarà una continuazione del saggio su Ballarò in cui sposteremo, però, l’asse del dialogo sull’interazione con i commercianti e abitanti di Ballarò; l’altra etnografia che sarà un proseguimento del saggio sui miei ricordi in città in cui sposteremo la focalizzazione dell’attenzione su due luoghi liminari del mio passato, cioè il paesino di Sant’Elia e la spiaggia di Capaci. Detto questo, più particolarmente, abbiamo voluto ribadire alcuni principi di base che animano, nel bene e nel male, i nostri intenti etnografici. Abbiamo voluto proporre, in retrospettiva, affidandoci a quanto già fatto da noi sul campo e nel tempo, alcune definizioni di etnografia che avvicinano la disciplina all’esistenza e la sganciano da un’idea di campo troppo legata allo spazio, alle partenze e agli arrivi che ritagliano luoghi in maniera stereotipata e ormai obsoleta in un mondo globalizzato.
In sostanza, cosa fa un etnografo secondo noi? Vive. Cosa studia un etnografo? La propria e altrui vita. In altri termini, più che segmentare la ricerca etnografica ritagliandola in un senso o nell’altro, pensiamo che un etnografo debba fare dell’esistenza un campo nella sua interezza. “Che senso ha la vita?” è in fondo la domanda di base. Quale che sia il senso del vivere più generale, una esigenza etnografica è propria quella di studiare ‘il vivere’ nei vari contesti presi in conto, di volta in volta, dallo studioso. Il modo in cui reagiamo alle sfide che ci pone la vita va studiato nei diversi contesti e, fondamentalmente, ci rende ciò che siamo: umani. «Cosa importa veramente» (Kleinman, 2006) è la domanda, dunque, da porsi incessantemente, nelle varie situazioni.
Tornare indietro, puntualmente, su cosa un paio di studiosi – un antropologo e un fotografo, io e Mattia – hanno fatto può essere allora d’aiuto: aiuta a risituare il processo vissuto rispetto ai risultati ottenuti e ancora da ottenere. Siamo i soli a fare questo? Siamo i soli a pensare che le rivisitazioni siano necessarie? Per niente! Le rivisitazioni sono un invito a pensare sul pensare la costruzione della teoria. È anche questo l’invito che hanno fatto i curatori di un noto volume collettaneo ai vari autori di etnografie: «di rivisitare i loro lavori al fine di considerare, a posteriori, ciò che ha dato forma alle loro idee e di considerare il modo in cui l’organizzazione particolare del loro lavoro si era svolta, [di] riflettere su loro errori e omissioni ed esaminare il loro lavoro col senno di poi, acquisito grazie a sviluppi più recenti» (Puddephatt, Shaffir, Kleinknecht 2009: XVIII). Credo che questi intenti e queste questioni possano valere pure per me e Mattia. Tornare indietro è un modo per correggersi. Tornare indietro è anche un modo per meglio affrontare la diversità dei modi in cui l’articolazione di soggettivazioni e oggettivazioni si mette in opera. Tornare indietro, infine, è un modo per rimettere al centro dell’attenzione la dimensione temporale nel suo va-e-vieni costitutivo di identità e alterità interrelate. L’ultimo punto, prima di chiudere veramente, riguarda le foto scattate da Mattia. Nonostante questa non sia una etnografia, ma una rivisitazione, abbiamo mantenuto il proposito di sempre, consistente nel corredare il testo di foto che non si rivelano semplice accompagnamento d’immagini a un testo scritto ma vera e propria costruzione di senso sviluppato sintatticamente, in stretta relazione con l’idea di una prossimità del soggetto al mondo e dei suoi relativi posizionamenti che lo configurano in un verso o l’altro.
Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023
Riferimenti bibliografici
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Antropologia dei processi migratori e dei contesti culturali presso l’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive.
Mattia Montes, viaggiatore fin dalla tenera età, prima in famiglia, poi da solo, ha sviluppato una passione di lunga data per la fotografia che ha trasformato, nel tempo e nei diversi luoghi in cui ha vissuto, in una riflessione sulle immagini e sull’immaginazione, nonché sulle modalità attraverso cui la fotografia stessa diventa sedimentazione della memoria ed elemento di soggettivazione individuale e sociale nel mondo. Oltre che alla pratica e teoria della foto, si interessa agli oggetti, al loro ruolo simbolico, e si considera appassionato collezionista di macchine fotografiche d’epoca.
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