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di Cristina Marchisio
Siamo a Roma a Monteverde, storico quartiere residenziale della capitale: poche fermate di autobus ci separano dal centro e da Trastevere. Qui su una superficie di 28 ettari di parco, lungo la via Portuense sorge l’Ospedale C. Forlanini.
Una storia ricca di fascino legata ad una delle malattie più terribili della storia: la tubercolosi. Esplose nell’800 con la rivoluzione industriale e mieteva vittime. Se il Romanticismo ne trasferì una rappresentazione poetica, dove diafane eroine si consumavano nei tormenti d’amore, e travagliati artisti si spegnevano nella miseria, la tisi in effetti uccideva una persona su cinque.
Alla vigilia della seconda guerra mondiale le ripercussioni sociali ed economiche furono enormi. Per questo in soli quattro anni venne realizzato il più grande ospedale del mondo dedicato alle malattie polmonari. Inaugurato nel ’34, fu progettato secondo criteri igienico-sanitari all’avanguardia per i tempi, tanto che venivano a studiarlo da tutto il mondo.
La pregevole forma architettonica fu studiata in base ad esigenze terapeutiche, poiché, fino alla messa a punto del primo antibiotico, l’unico rimedio che la medicina poteva offrire ai malati, oltre alla chirurgia, era il buon cibo e il riposo in ambiente salubre e assolato.
La planimetria a ferro di cavallo dell’edificio, infatti, riproduceva l’apparato respiratori e assicurava che tutte le ampie camerate fossero esposte a sud e inondate di luce schermata da persiane; che fossero altresì collegate da lunghe balconate dove i malati potessero riposare, fare bagni di sole immersi nell’enorme parco ricco di alberi e piante rare di ogni specie dalle comprovate essenze curative.
Al suo interno, tra gli altri ambienti per la degenza, teatri, cinema, chiese, sei cucine, una preziosa biblioteca e un prestigioso museo anatomico. Tutto per ricreare un microcosmo in cui i pazienti avrebbero potuto vivere una “nuova normalità”.
Fu anche sede della una prestigiosa cattedra universitaria per la cura della TBC, seconda solo alla Sorbona. Debellata la tubercolosi al Forlanini perdurò l’eccellenza nella chirurgia toracica e malattie respiratorie, ma anche in altre specialità con ben 28 reparti di assistenza e 25 in settori di ricerca.
Pazienti da tutta Italia chiedevano il ricovero nella struttura e anche i “benestanti” si adattavano ad una degenza in camerata, pur di avere una speranza in più di vita. Un nome tra tutti il prof. Massimo Martelli, Primario di Chirurgia Toracica di fama internazionale.
Oggi questo luogo incantato, polo di eccellenza mondiale, è ostaggio del degrado più profondo. Ha pagato il prezzo dello smantellamento della sanità pubblica poiché troppo vicino e simile nelle prestazioni, ai limitrofi S. Camillo e Spallanzani.
Nel 2008 ne viene decretata la chiusura e inizia la lenta dismissione nel corso della quale i pochi pazienti rimasti hanno convissuto con i senza tetto di varia provenienza che trovavano alloggio nei reparti di volta in volta smantellati.
Quando nel 2015 anche gli ultimi posti letto sono trasferiti, l’edificio diventa interamente albergo della disperazione finché nel 2016, dopo il ritrovamento del corpo senza vita di un tossicodipendente, le occupazioni vengono sgomberate.
Purtroppo però gli edifici che le avevano ospitate hanno pagato un pesante tributo. Negli anni tante le proposte avanzate per riqualificare la struttura, ma nulla di concreto è stato fatto. Ancora non si sa quale sarà il futuro di questo regale edificio. A nulla è servita la mobilitazione dei romani né la passione e veemenza con la quale si sono battuti in tanti, a cominciare proprio dal prof. Martelli.
Oggi è occasionalmente sede di set cinematografici e ospita la Medicina Nucleare e un paio di uffici amministrativi che resistono, come coraggiosi e resilienti fantasmi. E ancora negli ultimi mesi, durante l‘emergenza Covid, si è riacuita la polemica tra le istituzioni per un’eventuale riapertura.
Questo luogo fa parte della mia storia personale e a questa si intreccia. Approdai giovane neolaureata, intrisa di sogni e ideali, e ci ho lavorato per 17 anni orgogliosa di servire con dignità e onore la sanità pubblica come richiede la Costituzione e contribuire per quanto di mia competenza all’obiettivo più grande: salvare vite umane, ma anche dimostrare che non esiste solo il grigio e squallido impiegato di fantozziana memoria.
C’era ben altro e io lo avevo visto in casa crescendo e osservando mio padre, il suo impegno e la sua integrità, la passione che trasferiva nel suo lavoro, come fosse una missione. E la stima della quale era circondato.
Alcuni di questi anni li ho lavorati proprio accanto a lui traendone ragione ulteriore di fierezza. Erano gli anni d’oro, quelli del fermento, quelli in cui percepivi di essere al centro dell’eccellenza della Sanità Italiana. Nei corridoi frenetici camici svolazzanti sempre di corsa, personale sanitario e amministrativo che collaborava, ognuno per la propria parte, smaltendo una ingente mole di lavoro per un nobile scopo comune: salute e ricerca.
Grandi nomi, esimi professori. Questo nutriva quotidianamente il mio personale entusiasmo. Alla solennità del tutto contribuiva l’eleganza quella di altri tempi, il decoro delle persone coerente con il decoro del luogo in sè.
Poi mio padre è scomparso prematuramente, è stato difficile continuare e alla vigilia del declino e della imminente chiusura dell’ospedale ho fatto altre scelte. Per anni ci sono passata avanti, è vicinissimo a casa ma non ho avuto più la forza di entrare. Un giorno invece è successo, ho sentito di essere pronta per affrontare il passato che tornava periodicamente nei sogni notturni. Sono entrata di nascosto, non si potrebbe, ma conosco i segreti dell’edificio, e ho saputo come fare. Ed è iniziato il mio viaggio nell’inferno.
Mi sono affacciata attraverso i vetri rotti, superato inferriate, corridoi bui e allagati scavalcando indumenti e stoviglie, birre scolate, materassi e coperte, tristi giacigli, resti immobili di chi qui ha trovato un disperato rifugio per anni. E ancora siringhe, schedari, medicinali buttati a terra tra provette e microscopi.
Camminare tra i padiglioni significa immergersi in un altro mondo fatto di guano, crepe, infiltrazioni e odore di urina. In questo non luogo sospeso riecheggiavano solo i miei passi, il battito del mio cuore e il click della fotocamera, oltre al sinistro gocciolio dell’acqua e allo sbattere inquietante delle porte con il vento.
L’improvviso frullo d’ali di un piccione infastidito assordante in quel silenzio profondo, mi ha fatto gelare il sangue, ma l’assurdo è che dopo l’iniziale disagio e paura, mi sono rilassata. È stato come tornare a casa: una casa profanata, ma non estranea e l’adrenalina ha lasciato spazio all’affetto per quel posto a me così caro e che non poteva farmi del male.
Mi sono persa, per ore in questa struggente nostalgia di un passato che non tornerà. E non ero sola, mio padre era con me, mi ha dato il coraggio di percorrere anche gli anfratti più sinistri e abbiamo condiviso tutte le emozioni.
Una volta fuori, mi sono girata verso una luce e ho immaginato che in quella stanza ci fosse ancora vita, ancora qualcuno lì dentro chino, a lavorare. Nonostante l’orrore che avevo visto con i miei occhi, ho provato un senso surreale di appartenenza.
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
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Cristina Marchisio, nata a Roma, dove vive. Dopo la laurea in Giurisprudenza ha iniziato a lavorare nell’amministrazione dell’allora A.O. S. Camillo Forlanini Spallanzani, prestando altresì attività di docenza nella scuola Infermieri che lì aveva sede. Dopo circa 20 anni ha lasciato per dedicarsi alla numerosa famiglia: quattro figli e un marito molto impegnato nel lavoro. Ha molteplici interessi e le passioni della fotografia e dei viaggi, ereditate dal papà. Si considera una fotografa “istintiva” e solo da poco ha iniziato ad approfondire la tecnica, per scattare in modo più consapevole e sperimentare un tipo di fotografia “creativa”.
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