Una parte consistente e fondamentale della produzione antropologica mondiale riguarda principalmente delle dettagliate e profon- dissime analisi di fenomeni socio-culturali che sono stati provocati dai processi di globalizzazione economica dell’ultimo secolo. Fin dalle origini della disciplina stessa, che ricordo essere avvenuta nell’era del colonialismo europeo, in un periodo cioè che può essere definito come una globalizzazione ante-litteram, molti autori cominciarono a raccogliere testimonianze sugli usi e i costumi delle popolazioni colonizzate, che stavano per scomparire o trasformarsi radicalmente a causa degli stravolgimenti provocati dal colonialismo.
Nonostante questa attenzione nei confronti della globalizzazione e dei suoi effetti sull’assetto socio-culturale delle comunità, non sono molti gli antropologi che hanno riflettuto sui processi materiali che hanno permesso la connessione fra le varie parti del pianeta e che, in ultima analisi, è composta principalmente da assetti logistici pensati, strutturati e messi in opera per scambiare merci, denaro e informazioni. In altre parole, gli antropologi, benché abbiano abbondantemente analizzato le conseguenze delle globalizzazione economica, si sono occupati poco di come si siano sviluppati materialmente quei processi [1]. In questo senso, il settore logistico e della grande distribuzione riveste un campo di interesse socio-politico di sicura rilevanza proprio per la sua centralità nella connessione di aree del pianeta anche molto lontane fra loro.
L’importanza e l’interesse del settore logistico per gli studi socio-antropologici mi risultò lampante già a partire dal giugno del 2013, anno in cui, per ragioni legate alla mia precedente ricerca sui processi di deindustrializzazione, iniziai a lavorare come operaio magazziniere con un contratto di somministrazione presso il magazzino di una nota marca di veicoli commerciali di Torino. Un magazzino di circa 190 mila m2, dimensioni che lo collocano fra i magazzini più grandi di Europa, in cui erano stoccati e spediti i pezzi di ricambio per qualsiasi veicolo commerciale al livello internazionale. La mia principale mansione consisteva nel prelievo di pezzi di ricambio, tramite l’ausilio di un terminale che mi assegnava una “missione”, e nel confezionamento di scatole da spedire ai vari clienti dislocati in diverse nazioni. Su queste scatole, alla fine di ogni “missione” incollavo un’etichetta su cui era stampato l’indirizzo del cliente. Questi indirizzi dicevano di posti lontani e vicini: dalle varie regioni italiane, alla Francia, Gran Bretagna e poi ancora Cina, Russia, Mozambico, Somalia, Venezuela, Brasile e via dicendo. La cosa mi colpì non poco e mi diede la netta sensazione di trovarmi in un punto di snodo di eccezionale importanza per i flussi economici globali. Oltre a questo mi colpì anche il modo e quasi la violenza con cui il lavoro operaio di quel magazzino influì sulla mia esistenza, allontanandomi fisicamente dalla mia famiglia e dallo stile di vita che avevo condotto fino a quel momento a Palermo.
Mi trasferii a Torino e cominciai ad avere lunghe ed estenuanti sessioni di lavoro che eccedevano le classiche 8 ore di lavoro e che arrivavano spesso a 10 ore giornaliere. Capii immediatamente che il settore logistico chiedeva, a chi ne faceva parte per guadagnarsi da vivere, una flessibilità e un impiego di energie che esondavano l’aspetto professionale per coinvolgere l’intera esistenza dei suoi operatori, soprattutto se facenti parte della base della gerarchia aziendale. Grazie alla recente lettura di Logistica (2016) di Giorgio Grappi [2] ho approfondito quelle riflessioni che mi hanno fatto comprendere che la logistica, per dirla con questo autore, «fa politica»:
«La logistica, da motore della trasformazione nella produzione, costituisce l’orizzonte politico-organizzativo all’interno del quale queste trasformazioni possono essere meglio comprese. Circa un terzo del commercio mondiale avviene oggi tra aziende, mentre zone economiche speciali, corridoi e porti sono altrettanti snodi all’interno di una nuova mappa del potere. La definizione di standard e protocolli, la scrittura di software dedicati, l’elaborazione di algoritmi e la formazione di stratificati spazi infrastrutturali costituiscono una nuova fonte di produzione normativa e centralizzazione strategica del comando la cui portata eccede il loro specifico ambito di applicazione. Insieme all’aumento della velocità e della redditività del trasporto di merci, semilavorati e materie prime, la logistica è capace di sintesi tra ambiti diversi e lontani della produzione normativa, introduce nuove modalità di governo e decisione, favorisce processi di istituzionalizzazione e di riorganizzazione territoriale la cui rilevanza non è soltanto economica. La logistica fa politica» (Grappi, 2016: 11).
La valenza politica del settore logistico, come si evince dalle parole di Grappi, dipende dalla capacità di imporre strutture governamentali e di governance che modificano l’assetto politico-organizzativo di ampie porzioni di territorio coinvolgendo la vita di intere comunità umane. Come sostiene nuovamente Grappi:
«[…] nella logistica possiamo scorgere l’emergere di un nuovo tipo di politica che si articola attraverso una “sovranità multimodale e interoperabile”. Introducendo la categoria di politica dei corridoi, e analizzandone le manifestazioni a partire dall’esperienza di due protagonisti del “secolo asiatico”, Cina e India, e dell’Unione Europea, abbiamo rilevato come lungo e attraverso la “forma corridoio” si producano scelte, conflitti e sistemi di governo. Visti dai corridoi, concetti quali “multimodalità”, “interoperabilità” e “strozzature” rivelano una portata che supera la loro applicazione specifica nella sfera tecnica del discorso logistico per travolgere funzioni tipiche dell’amministrazione statale, contribuendo a impilare […] diversi tipi di governance. Non si tratta però di un nuovo tipo di governance multilivello […], ma della pervasività di una logistica capace di insinuarsi e imporsi attraverso criteri tecnici, calcoli algoritmici, operazioni finanziarie e “software per lo sviluppo” che producono sollecitazioni continue alle istituzioni tradizionali, senza tuttavia sostituirsi completamente ad esse» (Idem: 220-221).
Ciò su cui vorrei concentrare l’attenzione è l’aspetto pervasivo della logistica capace di insinuarsi nei gangli delle società e delle istituzioni e di indirizzare e re-indirizzare le vite di coloro che sono coinvolti nei processi logistici. Questi fanno emergere nuove questioni che centocinquanta anni di politica basati sulla concezione dello Stato-nazione e della sovranità popolare, tipica delle democrazie occidentali, non sanno più arginare.
È del 29 novembre 2017, per esempio, una notizia sostanzialmente ignorata dalla gran parte della stampa nazionale: dalla stazione centrale di Milano è partito il primo treno merci della storia diretto verso la Cina. Questo si configura come un passaggio fondamentale nella costruzione della “Nuova via della seta” che altro non sarebbe che la creazione di un corridoio logistico che collega la Cina, che è anche la promotrice di questo progetto, fino all’estrema propaggine del continente europeo (la “Nuova via della seta” arriverà fino a Rotterdam). È chiaro come tale progetto logistico ponga in maniera evidente al centro la nuova potenza economica cinese che, sempre più connessa alla vecchia Europa, detterà i nuovi ritmi delle compra-vendite delle merci su scala internazionale.
La concezione della logistica come processo politico configura un aspetto determinante di un nuovo capitalismo: il capitalismo di Amazon. Fra gli anni Settanta e gli anni Novanta del secolo scorso si assistette alla tendenza, in ambito industriale, a ricorrere alla flessibilità per la gestione della manodopera e all’eliminazione degli aspetti più determinanti del fordismo, cioè lo stivaggio delle merci in magazzini in attesa della vendita. Tale tendenza fu meglio conosciuta come toyotismo, nome dell’azienda che per prima applicò i principi della flessibilità e della produzione integrata delle merci, la Toyota appunto, o anche come lean production.
Nella fase attuale, con il miglioramento delle tecnologie di comunicazione, con la liberalizzazione e la connessione dei mercati al livello globale siamo entrati in una nuova fase del capitalismo e dell’organizzazione industriale. Una fase che, se da un lato prevede un nuovo utilizzo di magazzini dove stoccare le merci, dall’altro prevede un rapporto sempre più diretto fra il cliente finale e coloro i quali devono fare arrivare le merci al cliente, eliminando e marginalizzando sempre di più le figure intermedie di venditori, rappresentanti e commessi (per acquistare qualunque cosa adesso è sufficiente ordinarlo on line da un qualunque dispositivo connesso alla rete). È il modello Amazon, appunto, cioè piattaforme o, per rendere meglio l’idea, negozi sul web che fanno arrivare gli ordini direttamente ai magazzinieri che confezioneranno quella merce e la faranno arrivare direttamente all’utilizzatore finale. Il modello Amazon non riguarda soltanto l’organizzazione delle vendite. Come è ovvio riguarda in primo luogo una nuova organizzazione del lavoro e della manodopera.
In un caldo mattino di agosto, poco prima dell’inizio della settimana di chiusura per le ferie estive, il direttore del magazzino dove lavoro durante una riunione ci ha comunicato che il modello da seguire è per tutti gli operatori del settore logistico quello di Amazon: grandi magazzini contenenti le più svariate merci e metodi di lavorazione che prevedono un rapporto cliente/operatore mediato soltanto dalla macchina virtuale dove vengono caricati gli ordini.
Questo nuovo assetto del lavoro porta in sé i nuovi germi dello scontro fra classi subalterne e classe egemone. Agli operatori della logistica, infatti, si aprono due strade per il futuro: la prima è quella di rimanere schiacciati da una individualità fagocitata dai meccanismi del neocapitalismo logistico; la seconda è quella di cercare di trascendere la mera individualità al fine di creare comunità con nuove strategie di rappresentanza e di azione. Nel primo caso è ciò che sta accadendo in questo momento attraverso l’utilizzo di diversi strumenti da parte della classe egemone: fuoriuscita da parte dei grandi imprenditori dai contratti nazionali di lavoro per fare ricorso a forme contrattuali sempre più focalizzate sui diversi siti; assunzione di manodopera con contratti a somministrazione e, infine, l’esternalizzazione di servizi fondamentali ad aziende terze soggette sempre più spesso a scadenze serrate e penali in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi (per esempio, il cosiddetto sistema dei padroncini, cioè di vettori che possiedono un esiguo numero di furgoni, generalmente due o tre, che le grandi multinazionali affiliano per consegnare le loro merci su tutto il territorio).
Nel secondo caso si tratta di un lungo processo di creazione comunitaria, che in questa fase storica sembra davvero lontana dalla realizzazione. Attualmente lo sviluppo della nuova economia passa per il settore logistico e gli operatori di questo settore hanno la grande opportunità di plasmare una economia ancora un po’ più connessa, ma allo stesso tempo un po’ più equa. Questo è possibile solo se si intende la frase che dice: «la logistica fa politica» anche con una accezione attiva. Una accezione che preveda una assunzione di responsabilità e la presa in carico della costruzione di una comunità di lavoratori unica e che si riconosca attorno a simboli, pratiche e interessi comuni.
Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
Note
[1] Cfr. Bogani F., 2013, Una comunità su gomme. Un’indagine etnografica del mestiere di camionista, in «Lares. Rivista quadrimestrale di studi demoetnoantropologici», anno LXXIX: 225-239.
[2] Grappi G., 2016, Logicistica, Ediesse, Roma.
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Tommaso India, attualmente si occupa di antropologia del lavoro con un particolare riferimento ai processi di deindustrializzazione e precarizzazione in corso in Sicilia. Si è laureato nel 2010 in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo con una tesi intitolata Aids, rito e cultura fra i Wahehe della Tanzania, frutto di una ricerca etnografica condotta nelle regione di Iringa (Tanzania centro meridionale). Nel 2015 ha conseguito il dottorato in Antropologia e Studi Storico-linguistici presso l’Università di Messina. Ha recentemente dato alle stampe il volume Antropologia della deindustrializzazione, Ed. it.
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