Stampa Articolo

Per Letizia

La ricamatrice, Montemaggiore Belsito, 1987 (ph. Letizia Battaglia)

La ricamatrice, Montemaggiore Belsito, 1987 (ph. Letizia Battaglia)

immagini

di Silvia Mazzucchelli

Nel 2016 ho incontrato Letizia Battaglia a Palermo. Mi ha ricevuto a casa sua, a poca distanza dal Politeama. Prima di raggiungerla ho girovagato per la città. Mi sembrava un buon modo per entrare in sintonia con un luogo che non avevo mai visto. Sono sempre stata affascinata dall’idea che il reportage agisse come una macchina del tempo, che avesse il potere di risucchiare chiunque dentro un luogo. Osservavo le strade, i mercati, i muri delle case e immaginavo di scattarle io le foto, riprodurle con il mio sguardo. Ma non era mio lo sguardo, avevo memorizzato le sue immagini e queste si sovrapponevano ai miei occhi: adesso ero parte di quella storia che era cominciata tanti anni prima, nel torno di tempo in cui Letizia faceva la fotoreporter per L’Ora. 

Mi colpì la sua disillusione, e me la rese subito umana, ben distante dall’immagine della fotografa eroica e senza paura con cui veniva dipinta. Davanti a me non c’era una Giovanna d’Arco con la fotocamera, ma una donna consapevole di quello che aveva visto, che faticava a ricordare o che adesso avvertiva tutto il peso di quella memoria. La sua voce roca, da fumatrice accanita, era perfetta per narrare una sconfitta. «Ormai sono un po’ vecchia e non riesco più a fare la cronaca, a raccontare la città. Fisicamente non ci riesco più, ma si sono agitate anche altre cose dentro di me, per esempio il rifiuto di queste fotografie. L’ho avuto qualche anno fa, un rifiuto fortissimo, perché non potevo portarmi dietro sempre queste ferite, averle presenti. Le fotografie sono là, i ricordi sono sempre là. (…) Sto pensando di nuovo di bruciare i negativi, lo penso come un incubo. La notte penso a questa cosa». 

Rosaria Schifani (ph. Letizia Battaglia)

Rosaria Schifani, 1992 (ph. Letizia Battaglia)

Da questo disagio, probabilmente, nascono le sue Rielaborazioni. Le avevo viste in mostra a Brescia, la prima volta che l’ho incontrata. Non mi avevano del tutto convinta, forse perché inconsciamente ero legata a una certa idea che avevo della sua fotografia.  Per lei erano state un modo per riappropriarsi del suo archivio: «è un po’ come rinnegare il passato, il punctum non è più il morto ammazzato o il bandito arrestato o la miseria estrema. Il punctum è quello che io oggi metto davanti». 

Aveva fatto riprodurre in grande formato alcune fra le sue immagini più conosciute, quasi a grandezza naturale, e ci aveva collocato davanti un elemento che ricordasse la vita: un corpo di donna, una bambina, un fiore. Poi le aveva fotografate di nuovo. «Una donna nuda è la vita, è una madre, è la terra. Faccio questo: costruisco una realtà, aggiungo a una foto di morte una foto di vita. Un progetto riuscito? Non riuscito? Io ci ho provato. (…) Aggiungere alle foto dei morti le foto dei vivi, dei giovani, dei bambini, delle donne, era un modo per inventarmi un’altra realtà». 

Rielaborazioni (ph. Letizia Battaglia)

Rosaria, Eleonora d’Aragona, Marta, 2010 (ph. Letizia Battaglia)

Una delle foto originarie, scattata nel 1980, mostrava lo scenario di un omicidio. Un uomo stava steso a terra, con la faccia rivolta verso il suolo, accanto a lui c’era un albero secco. «La scena, con quell’albero rinsecchito e la luce quasi teatrale, mi parve surreale, ma l’uomo era stato veramente ucciso qualche minuto prima», ricorda Letizia. Una figura femminile, alter ego della fotografa, in mano il lembo di un velo, rivolgeva pietosamente l’ultimo sguardo al cadavere, mentre in un’altra versione, una giovane donna reggeva un ramo fiorito da contrapporre all’albero secco. Il celeberrimo ritratto di Rosaria Schifani, una maschera funebre divisa tra luce e ombra, veniva accostato al busto di Eleonora d’Aragona di Francesco Laurana e a quello di Marta, la nipote di Letizia, «tre donne dalla bellezza pura che dialogano protese verso un futuro, rappresentato dalla giovane età di Marta», racconta Maria Chiara Di Trapani, che aveva fatto da assistente alla fotografa. 

Palermo (ph. Letizia Battaglia)

Mosca, 1984 (ph. Letizia Battaglia)

Allineare testa, occhio e cuore è la ricetta di Henri Cartier-Bresson per scattare una foto perfetta. Penso che molte delle sue immagini riuscissero ad allineare solo mente ed occhio, ma esempi di questo miracolo di simultanea armonia credo se ne possano trovare in Letizia Battaglia. Lei stessa paragonava la fotocamera a un cuore: «La mia macchina fotografica era un come un altro cuore, un’altra testa, non era un mezzo per vendere fotografie, per diventare famosa, era il mio cuore che parlava. (…) È stato commovente, molto commovente. Ci penso ancora». Così come stare a Palermo significava andare al cuore delle cose: «Io sono una che ha fatto reportage rimanendo nella città dove vive. Per me significa andare al cuore delle cose, di un luogo, di una città, di un gruppo di persone». 

I due Cristi, Palermo  (ph. Letizia Battaglia)

I due Cristi, Palermo, 1982 (ph. Letizia Battaglia)

Nella foto che aveva intitolato “I due Cristi” un uomo giace a terra, supino, accanto a una immensa chiazza di sangue. Qualcuno ha alzato la maglia sino al collo, scoprendo completamente la schiena. Tutta la parte sinistra è occupata da un enorme tatuaggio, un volto di Cristo incoronato di spine. Cristo si sovrappone all’uomo ucciso e abbandonato, diventa tutt’uno con il suo corpo, promette di riscattarlo dalla morte. 

L'assassinio di Cesare Terranova (ph. Letizia Battaglia)

L’assassinio di Cesare Terranova, Palermo 1979 (ph. Letizia Battaglia)

Letizia Battaglia è vicinissima al cadavere del giudice Cesare Terranova, ucciso nella sua macchina il 5 settembre 1979. Il fotogramma mostra il buco del finestrino frantumato dai colpi. Il capo del giudice è leggermente reclinato, rivolto verso il basso, come stesse dormendo, gli abiti sono sporchi di sangue. Il suo sguardo si posa su quel corpo come volesse avvolgerlo e sfiorarlo per l’ultima volta. Il corpo di Terranova sembra fragile e indifeso come quello di un bambino. Era stato trasfigurato, non dalla tecnica, ma dalla pietas della fotografa. 

Palermo (ph. Letizia Battaglia)

Trapani, Domenica di Pasqua, 1989 (ph. Letizia Battaglia)

Ancora il cuore, bene allineato con occhio e mente, ha scattato un’altra celebrata foto a Trapani, nella domenica di Pasqua del 1989. Una colomba vola, sospesa tra due ragazzini, che la vedono avvicinarsi ai loro volti. Sono immobili, attoniti, sembrano non credere ai loro occhi. Uno di loro sembra persino avere la bocca aperta. La magia coinvolge solo i ragazzi: un uomo, di schiena, si allontana ignaro. Quando le chiesi di questa foto, mi rispose: «Come è possibile che il bimbo e la colombina si guardassero? La colombina significa che la vita è veramente bella. Non so se è candore. Non credo. La colombina per me è simbolo di vita, è l’animale che vola. È questo: che la vita è bella ed è anche molto faticosa». 

Adesso che la vita reale di Letizia Battaglia si è conclusa, si corre il rischio di riscriverla, per faciloneria e per comodità, secondo qualche stereotipo corrente. Uno di questi è “fotografa della mafia”. Non si può dubitare che per tutta la sua vita, costantemente e coerentemente, la fotografa sia stata impegnata contro la mafia; ciò di cui si deve dubitare è che questo sia stato il suo primo o unico obiettivo, tale addirittura da consacrarla, come in tanti altri casi è successo, in un santino prêt-à-porter, buono per ogni uso o circostanza. Il pericolo è tanto più grave nella terra di Pirandello, dove non è impossibile trovare gigantografie di vittime della mafia come decoro e ornamento di ambienti mafiosi. E se Sciascia aveva parlato di professionisti dell’antimafia, ormai è assodata la casistica di collusioni con la mafia ascrivibili a persone o associazioni istituite per combatterla. 

Palermo (ph. Letizia Battaglia)

Palermo, 1991 (ph. Letizia Battaglia)

A questo proposito, lucida e priva di illusioni, Letizia Battaglia diceva che «la fotografia non cambia il mondo, né la mia fotografia, né quella degli altri, ma come un buon libro, può essere una fiammella. Un libro, un’opera d’arte, un Picasso, una foto, una musica possono essere senz’altro un buon veicolo per la crescita, ma non possono cambiare il mondo. Gli appetiti della guerra, del capitalismo, delle religioni sono così forti, che la fotografia e la cultura sono una parte della lotta ma non bastano (…). Niente può cambiare il mondo se non la propria coscienza. E poi si cerca di parlare alla coscienza degli altri». 

Palermo (ph. Letizia Battaglia)

Palermo, 1980 (ph. Letizia Battaglia)

Mi raccontò che, quando era assessore, un uomo le chiese aiuto per comprare una “Lapa”, è così che in Sicilia chiamano l’apecar. E lei: «Vieni con tua moglie, parliamone. Lui arriva con la moglie, che stava sempre in silenzio, poiché parlava solo lui. E allora gli dico: guarda, te li do io i soldi, però sono metà per lei e metà per te. Questo camioncino è di tutti e due. Poi anche se sono atea, siamo andati da un prete di cui avevo fiducia, un prete che è qui vicino e davanti a lui abbiamo fatto questo contratto. Ti sto raccontando questo perché io ho voluto dire davanti al marito, che se non ci fosse stata sua moglie, io non gli avrei dato i soldi. Ecco, penso che le donne hanno bisogno di essere aiutate, di essere sostenute». Sempre durante la stessa esperienza di assessore aveva fatto ristrutturare un edificio ottocentesco per farne una “Casa natura”, cioè un luogo dove i bambini potessero fare feste, andare in bicicletta. Cambiata l’amministrazione, quell’edificio era stato destinato a uffici comunali. «Cose che per voi saranno naturali, ma per noi apparivano come doni: tutte finite». 

Palermo (ph. Letizia Battaglia)

Palermo, 1980 (ph. Letizia Battaglia)

La disillusione e la consapevolezza non avevano però attenuato il suo desiderio di cambiamento, con ogni mezzo. Le bambine fotografate nei quartieri degradati di Palermo simboleggiano la bellezza che si oppone all’emarginazione. La loro forza sta proprio nella fragilità, nel candore, nell’innocenza. Una donna che aveva visto tanta morte si commuoveva dinnanzi alla possibilità che le ragazzine rappresentano. Diceva: «Ho capito che in queste bambine cerco qualcosa che si è spezzato in me a quell’età», «tremavo di fronte a queste bambine». 

Felicia Impastato (ph. Letizia Battaglia)

Felicia Impastato, 2001 (ph. Letizia Battaglia)

Se le bambine rappresentano la speranza nel futuro, le madri sono il volto che protegge, la cura assidua, il dono che ristora. Ma il loro dolore non si conclude con la fine della tragedia, sopravvive al conflitto. Il pianto delle madri trascende le differenze sociali e ignora se il corpo su cui viene versato è quello dell’innocente o del reo. Il pianto di una madre è ingiusto, sempre. Ecco perché Letizia Battaglia è ritornata spesso a ritrarlo e a esorcizzarlo. Una madre che tiene tra le mani la foto del figlio scomparso a Mazzarino (1984), Felicia Bartolotta Impastato seduta sul divano a casa, mentre alle spalle si scorge la foto del figlio Peppino (2001), un’altra madre che siede mesta, con il capo coperto da un velo, nell’aula di un tribunale. E poi si vede l’immagine della mater dolorosa, non la celeste signora, ma l’archetipo di tutte le madri terrene e carnali.

Marsala (ph. Letizia Battaglia)

Gangi, Pasqua , 1985 (ph. Letizia Battaglia)

La Madonna a Marsala (1984), le donne velate per i misteri pasquali a Gangi (1985), la statua di Maria con Gesù fra le sue braccia nel duomo di Cefalù (1981), le donne che vegliano il Cristo morto a Marsala (1988) sono solo alcune varianti di una lunga ricerca espressiva. 

Quando per l’ultima volta l’ho incontrata, a Treviglio, nel 2019, Letizia Battaglia aveva 84 anni, ma il suo volto sprigionava energia e vita. Parlava a più di trecento ragazzi, era un fiume in piena. Raccontava non delle sue mostre o dei riconoscimenti ricevuti, ma di quello che stava facendo ai cantieri culturali alla Zisa, con le donne, con i ragazzi, ma soprattutto dei suoi progetti. Quella volta i capelli erano rosa; alla fine diede pubblicamente la sua mail e tutti sorrisero. Non c’erano nome e cognome, l’indirizzo era: “letiziamylove”. Letizia era allergica a santini e liturgie: troppo seria per permettersi di prendersi sul serio!

Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022

______________________________________________________________

Silvia Mazzucchelli, laureata in Scienze umanistiche, ha conseguito un master in Culture moderne comparate e un dottorato in Teoria e analisi del testo presso l’Università di Bergamo. Ha pubblicato due saggi dedicati alla fotografa e scrittrice Claude Cahun. Della stessa autrice ha curato Les paris sont ouverts (Wunderkammer, 2018) e scritto il saggio introduttivo per la traduzione in italiano del pamphlet. Ha collaborato con numerose riviste, fa parte della redazione della rivista on line Doppiozero. Da circa due anni sta conducendo uno studio analitico sul lavoro fotografico e poetico di Giulia Niccolai.

______________________________________________________________

 

 

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Immagini. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>